Un’intervista in italiano e in spagnolo per immergersi nel mondo delle opere teatrali di Ferrán Joanmiquel Pla e riflettere con lui su scottanti temi attuali.
“Provocare Realtà”. È questo il tema dell’edizione 2018 dello Short Theatre Festival che si tiene a Roma dal 5 al 15 settembre al centro culturale La Pelanda a Testaccio. Uno spazio di espressione per giovani artisti della scena nazionale e internazionale. Tra spettacoli, performance, installazioni, incontri, concerti e dj set, questo festival di arti performative ogni anno dal 2006 crea una comunità temporanea per riflettere e portare avanti nuovi linguaggi, oltre qualsiasi tipo di confine. The Serendipity Periodical ha avuto la possibilità di intervistare alcuni artisti che prendono parte a questo progetto grazie alla realtà di Fabulamundi. Playwriting Europe: Beyond borders?. Questa piattaforma europea ha l’obiettivo principale di promuovere la drammaturgia contemporanea in Europa diffondendo le opere degli artisti selezionati.
Il giorno 12 settembre,
l’incontro con uno di questi artisti ci ha permesso di analizzare più da vicino la sua opera e di riflettere insieme su alcune questioni profondamente attuali. L’autore è il catalano Ferrán Joanmiquel Pla. Formatosi in scrittura teatrale e drammaturgia attraverso diversi corsi alla Casa de Cultura di Girona e all’Obrador della Sala Beckett di Barcellona, ha diretto con la sua compagnia Cos a Cos varie opere teatrali scritte da lui, tra cui “La crida”, di cui è disponibile anche la traduzione in italiano (“L’appello”), “El rey del Gurugú” e “La filla de Chagall”. Le ultime due sono state selezionate nell’ambito del progetto Fabulamundi per il periodo 2017-2020 ed è su queste che si è focalizzata l’intervista. Vincitore di molti premi e sempre molto impegnato sulla scena teatrale, Ferrán Joanmiquel con le sue risposte ha suscitato interrogativi e riflessioni profonde su alcuni dei più scottanti temi attuali.
Le due opere selezionate per il progetto Fabulamundi sono due monologhi. Perché ha scelto questa forma di scrittura teatrale? È un modo per rappresentare la sua visione dietro un’unica voce narrante?
Beh, prima di tutto bisogna dire che i due monologhi fanno parte di una trilogia che include “La Crida” (tradotto in italiano con “L’appello”), passa per “El Rey del Gurugù” e arriva ad un’apertura con “La Filla de Chagall”. Credo di aver scelto la forma del monologo perché mi permetteva di elevare il linguaggio e conferirgli un tono lirico e poetico. Sia la forma che il contenuto dei monologhi fanno sì che si possa entrare nel personaggio e approfondire più da vicino la sua caratterizzazione. Le tre opere hanno un nesso comune: la profonda solitudine dei personaggi in un mondo sempre più globalizzato e globalizzante, in cui tutti siamo sempre connessi ma, in fin dei conti, siamo soli. Credo che la scelta del monologo sia dovuta soprattutto a questa possibilità di entrare nella mente dei personaggi e di rappresentare la loro profonda solitudine. Un giorno un amico scrittore mi disse che dopo tanti monologhi finirò per scrivere un romanzo. Che ne penso? Beh, che forse è possibile. Non so cosa farò se parliamo di narrativa ma penso che i monologhi e i romanzi siano molto simili per quanto riguarda la descrizione e la caratterizzazione dei personaggi. Tutto può essere…
In “El Rey del Gurugù” si rappresenta la realtà dei migranti che superano tante difficoltà con la speranza di un futuro migliore. Lei ha deciso di rappresentare questo tema attuale con una prospettiva insolita: perché ha scelto il punto di vista di un cane?
C’era un periodo in cui in televisione, tutti i giorni tutto il giorno, si rappresentava la migrazione come un’invasione vera e propria. Si parlava sempre di questo e sempre con una connotazione molto negativa. Per questo iniziai a farmi molte domande e decisi di approfondire questo argomento e rappresentarlo in un’opera teatrale. Ma, come potevo scrivere qualcosa sui migranti senza averne avuto l’esperienza umana? I sub-sahariani attraversano il deserto e arrivano fino al monte Gurugù con la speranza di una vita migliore. Io non avevo la minima idea di come rappresentare questa esperienza. Parlando con alcuni migranti venni a sapere che in questo luogo di confine c’erano molti cani: li volevano perché abbaiando potessero avvisarli dell’arrivo della polizia. Ed io pensai: sarà questo il mio sguardo, quello di un cane che non sa nulla e non capisce nulla. Che si fa delle domande. Che ha uno sguardo estraniato sulla realtà. Incosciente pero lucido. Questo cane nel monte Gurugù sarò io.
Continuo a parlare dell’opera “El Rey del Gurugù”. C’è una parte del testo che mi ha colpito ed è quando Abdul e Marie si incontrano. Lei ha scritto:
“Lui parlava bambara. Lei, ewondo. Però si capivano perfettamente in francese. Lui era musulmano. Lei, cristiana. Ma che importava? Erano entrambi giovani. Molto giovani.”
L’annullamento delle differenze sembra essere una conseguenza della condizione dei migranti. Che significa per lei essere un migrante oggi? Forse vuole dire che in fin dei conti siamo tutti uguali.
Sì soprattutto in una situazione di estrema necessità come la loro, le frontiere che possono esserci tra le persone, e ovviamente ci cono frontiere, perché il mondo del Gurugú è un mondo fottuto, un mondo molto difficile… Ora non ho solo l’esperienza di essere stato sul Gurugú ma ho anche parlato con persone che ci hanno vissuto nel Gurugù e con persone che hanno scritto articoli su quella che è la realtà del Gurugù. Ed è un mondo molto duro. La gente di Mali vive nell’accampamento della gente di Mali. La gente del Cameron vive nell’accampamento della gente del Cameron. E quasi non si mischiano. Si mischiano nel momento in cui decidono di saltare la recinzione perché quante più persone sono più riescono a travolgere la polizia e ci sono più possibilità che possano superare la recinzione. Però, in questo caso, il fatto che ad incontrarsi siano un uomo e una donna, giovani, di paesi diversi, addirittura di religioni diverse… per noi magari non ha molta importanza la religione, per me non ne ha molta, per loro sì, ne ha molta. Quindi che siano di religioni diverse e in questa situazione di necessità e soprattutto di solitudine, queste barriere cadono. Le barriere sono anche una metafora delle barriere che noi innalziamo in Europa. Queste barriere cadono e rimangono solo due persone, due persone con due solitudini, che hanno bisogno l’uno dell’altra. Certo, nell’opera è scritto come se ci fosse un punto romantico però forse è molto più viscerale che romantico. Non sono innamorati, è più la visceralità di desiderare l’altro, di aver bisogno di calore umano. Che non hanno, lì non ce l’hanno.
Ora passiamo all’altra opera selezionata, “La Filla de Chagall”. Meno diretto e con significati più nascosti, il testo ruota attorno ad un personaggio femminile, Tamar. Qual è il motivo di questa scelta? È significativo che lei sia una maestra di storia dell’arte?
“La Filla de Chagall” e “El Rey del Gurugú” hanno in comune che sono racconti, per la narrazione e tutto il resto. Quindi, perché una donna? Beh, non lo so. Mi venne in mente una donna e pensai, beh, sarà una donna e decisi che sarebbe stata una donna. Mi ha sempre affascinato il mondo di… Allora, io sono di una città, Girona, che ha un quartiere ebraico, sefardita, da cui furono cacciati nel 1492, e mi ha sempre affascinato. C’è una leggenda che dice che quando furono cacciati si portarono via le chiavi delle case. I palestinesi hanno esattamente la stessa leggenda delle chiavi e non è una leggenda, è una realtà perché quando vanno alle manifestazioni vanno con le chiavi in mano. Cavolo, ebrei e palestinesi, la stessa leggenda, la chiave! Il mito del ritorno, di tornare a casa. Loro pensavano che sarebbero tornati e anche i palestinesi credono che torneranno. Non torneranno mai. Beh, a meno che non ci sia un’ecatombe, non torneranno. Quindi, c’è questa necessità di tornare alle radici, dell’identità culturale, dell’identità familiare anche. Tamar vive in un paese in cui, sebbene provenga da una cultura che a suo tempo fu oppressa, quella sefardita, si rende conto che lo Stato del suo paese sta opprimendo i palestinesi. Perciò qui è la storia che si ripete. Lei è stufa della storia del suo paese, è stufa della storia degli ebrei, è stufa di essere parte di tutto questo e decide di rompere con tutto. Però non si rende conto che, anche se non vuole, finisce per ritrovare le sue radici. Un viaggio all’estero può essere un viaggio alle proprie radici. Quindi, è una metafora sul tema dell’identità, delle radici. E, perché è una maestra? Beh, perché così mi ricollegavo bene a Chagall. Chagall mi ha sempre affascinato, il suo mondo onirico, con i personaggi che camminano in aria, al contrario. Tutto questo mondo onirico mi ha sempre messo in contatto con me stesso. E per i colori anche, per tutta la simbologia. Chagall univa simboli ebraici e simboli cristiani ortodossi. Per lui era uguale. Era un ebreo ma un ebreo errante. Anche la figura dell’ebreo errante mi affascina molto. E Tamar è un pò la metafora di tutto questo.
La dimensione onirica e quasi delirante del testo nasconde molti significati occulti. A cosa si riferiscono le principali metafore della storia di Tamar? Come è riuscito a provocare realtà, che è il tema di questo festival?
La cosa interessante per me è ciò che le persone mi raccontano che io non ho visto in una mia storia. Quando mi dicono, “Io ho visto questa cosa” o “Mi sono reso conto che un personaggio…”. Per esempio, qui mi succedeva che molte donne mi domandassero: “Perché hai scelto una donna? Mi sono molto riconosciuta nel personaggio. Sembra che lo abbia scritto una donna”. Soprattutto donne giovani si sono sentite identificate nel personaggio. Non lo so. Però, in questo caso, la metafora del viaggio ci rappresenta tutti. È la metafora della vita, di costruire un’identità in relazione agli altri. A volte questo non significa che sei al cento per cento d’accordo con la tua identità. Puoi essere incazzata con la tua famiglia, o con la tua cultura, o con la tua lingua, con mille cose. Per questo, il personaggio di Tamar che è un po’ lontano dalla sua stessa identità o che è arrabbiato con il suo stesso paese, beh, mi andava molto bene perché dava un’intenzione a tutta questa questione. A partire da qui, quello che mi piace è che il pubblico tragga le sue conclusioni, le sue metafore. Per esempio, quando Tamar parla con suo nonno, è la metafora di parlare con la sua stessa identità, con le sue stesse radici. Infatti, c’è una scena che ho soppresso in questa versione (che però forse recupererò) in cui lei è nella stazione di treni di Barcellona per andare a Girona. Si gira e vede i suoi antenati ebrei in una fila che non finisce più, fino a fuori. Li vede in ordine di generazione come se stessero dietro di lei. Perché il passato sta sempre con noi. In effetti, la fisica quantistica sta dimostrando cose abbastanza insolite, abbastanza incredibili e a me piace tutto questo. Mi piace giocare con quello che non capiamo però è lì, in qualche modo.
Per salutarci, potrebbe parlarci dei suoi progetti futuri. Su quale tema si focalizzerà il suo interesse?
In questo momento, mi succede che se parliamo di narrativa non so quello che farò. La mia ultima opera è stata un’opera di teatro verbatim. È un tipo di teatro documentario in cui il copione si fa a partire di interviste e dalla trascrizione letterale di quello che ti hanno detto in queste interviste, senza cambiare nulla. Io ho fatto un’opera sul mondo del foto-giornalismo e sull’etica del foto-giornalismo: ho intervistato fotoreporter con un’esperienza internazionale in conflitti bellici. Ci hanno raccontato esperienze molto forti e, inoltre, mi hanno dato le foto per poterle mettere nell’opera, sul palcoscenico. Questo modo di fare teatro mi ha toccato tanto, mi ha influenzato tanto che ora mi viene in mente di fare altri progetti di teatro verbatim. Ne ho alcuni in testa ma sono molto difficili da realizzare. Per esempio, mi piacerebbe andare in Kurdistan per intervistare le donne guerrigliere, ma ora è un po’ difficile. Mi hanno detto che ora non si può andare, che sono in pieno conflitto. Per ora, il prossimo progetto che si farà sarà un progetto di teatro verbatim su quello che successe in Catalogna nel referendum del 1 ottobre. Io ero proprio lì, a Girona. I poliziotti mi presero, mi trascinarono sul pavimento, ad alcuni amici li picchiarono e tutto il resto. Dunque, farò un’opera sulle interviste fatte a diverse persone che raccontano la loro esperienza su quel giorno. La prima sarà, se tutto va bene, a fine maggio, a Girona probabilmente. È questo il progetto a cui sto lavorando adesso.
“Provocar realidades”. Este es el tema de la edición de 2018 del Short Theatre Festival que se tiene en Roma del 5 al 15 de septiembre en el centro cultural La Pelanda en Testaccio. Un espacio de expresión para jóvenes artistas de la escena nacional e internacional. Entre actuaciones, performance, instalaciones, reuniones, conciertos y DJ sets, todos los años desde 2006 este festival de artes escénicas crea una comunidad temporal para reflexionar y proponer nuevas formas de comunicación, más allá de cualquier tipo de frontera. The Serendipity Periodical tuvo la oportunidad de entrevistar a algunos artistas que participan en este proyecto gracias a Fabulamundi. Playwriting Europe: Beyond borders?. Esta plataforma europea se propone como objetivo principal la promoción de la dramaturgia contemporánea en Europa mediante la difusión de las obras de los artistas seleccionados.
El 12 de septiembre,
el encuentro con uno de estos artistas nos permitió analizar su trabajo más de cerca y reflexionar juntos sobre algunos temas profundamente actuales. El autor es el catalán Ferrán Joanmiquel Pla. Se forma en escritura teatral y dramaturgia en diferentes cursos de la Casa de Cultura de Girona y en el Obrador de la Sala Beckett de Barcelona. Con su compañía Cos a Cos ha dirigido varias obras de teatro, entre ellos “La Crida”, que se ha traducido al italiano (“L’appello”), “El rey del Gurugú” y “La filla de Chagall”. Son estos últimos dos que se seleccionaron para el proyecto Fabulamundi para el período 2017-2020 y la entrevista se centró en estos. Ganador de muchos premios y siempre muy ocupado en la escena teatral, Ferràn Joanmiquel con sus respuestas ha suscitado preguntas y profundas reflexiones sobre algunos de los temas actuales más delicados.
Las dos obras seleccionadas para el proyecto Fabulamundi son dos monólogos. ¿Por qué ha decidido elegir esta forma de escritura teatral? ¿Es una manera para representar su visión a través de una única voz hablante?
Pues, antes que nada hay que decir que los dos monólogos hacen parte de una trilogía que incluye “La Crida” con un inicio más obscuro, pasa por “El Rey del Gurugú” y llega a una apertura con “La Filla de Chagall”. Creo que elegí la forma del monólogo porque me permitía elevar el lenguaje y darle un tinte lírico y poético. Lo que me gusta es que tanto la forma como el contenido de los monólogos hacen que se entre más adentro del personaje y se pueda profundizar su caracterización. Las tres obras tienen un nexo común que es la profunda soledad de los personajes en un mundo más globalizado y globalizante, en el que todos estamos siempre conectados pero a fin de cuentas somos solos. Creo que la elección del monólogo se debe sobre todo a esta posibilidad de entrar en la cabeza de los personajes y representar su profunda soledad. Un día un amigo escritor me dijo que después de tantos monólogos terminaré escribiendo una novela. ¿Qué pienso? Que quizás puede ser. No sé qué voy a hacer si hablamos de ficción pero creo que monólogos y novelas pueden ser muy parecidos por lo de la descripción y de la profundización de los personajes. Todo puede ser…
En “El Rey del Gurugù” se representa la realidad de los migrantes que superan muchas dificultades con la esperanza de un futuro mejor. Usted ha decidido representar este tema actual con una perspectiva insólita: ¿por qué elegir el punto de vista de un perro?
Había un periodo en que en la televisión, todo el día todos los días, la migración se representaba como una invasión. Siempre se hablaba de este tema y siempre con una connotación muy negativa. Fue por eso que me hice muchas preguntas y decidí profundizar este tema y representarlo en una obra teatral. Pero, ¿cómo podía yo escribir sobre los migrantes sin haber tenido la experiencia humana? Los sub-saharianos atraviesan el desierto y llegan hasta el monte Gurugú con la esperanza de una vida mejor. Yo no tenía ni idea de cómo representar esta experiencia. Al hablar con algunos migrantes supe que en este lugar de paso había muchos perros: ellos los querían para que con el ladrido pudieran avisar si los policías llegaban a dar una paliza. Y yo pensé: esta va a ser mi mirada, la de un perro que no sabe nada y no entiende nada. Que se pregunta. Que tiene una mirada extrañada sobre la realidad. Inconsciente pero lúcida. Este perro en el monte del Gurugú voy a ser yo.
Sigo hablando de la obra “El Rey del Gurugù”. Hay una parte del texto que me llamó la atención y es cuando Abdul y Marie se encuentran. Usted ha escrito,
“Él hablaba bambara. Ella, ewondo. Pero se entendían perfectamente en francés. Él era musulmán. Ella, cristiana. ¿Pero qué importaba? Los dos eran jóvenes. Muy jóvenes.”
La cancelación de las diferencias parece ser una consecuencia de la condición de los migrantes. ¿Qué significa para usted ser un migrante hoy en día? Quizás quiera decir que a fin de cuentas todos somos iguales.
Sí sobre todo en una situación de extrema necesidad como es la suya, las fronteras que puede haber entre ellos, y evidentemente hay fronteras porque el mundo del Gurugú es un mundo muy jodido, un mundo muy difícil… ahora no solo tengo la experiencia de haberme ido sobre el Gurugú sino que he hablado con gente que ha vivido en el Gurugú y con gente que ha cubierto periodísticamente lo que es la realidad del Gurugú. Y es un mundo muy duro. La gente de Mali vive en el campamento de la gente de Mali. La gente de Camerún vive en el campamento de la gente de Camerún. Y casi no se mezclan. Se mezclan en el momento que deciden saltar la valla porque, al ser muchos, cuantos más sean más van a desbordar la policía y más posibilidades hay de que puedan pasar la valla. Pero, en este caso, el hecho de que se encuentren un hombre y una mujer, jóvenes, que son de países diferentes, incluso de religiones diferentes… para nosotros a lo mejor no tiene mucha importancia la religión, para mí no tiene demasiada, para ellos sí, tiene mucha. Entonces que sean de religiones diferentes y en esta situación de necesidad y sobre todo de soledad, estas barreras caen. Las barreras también son una metáfora de las barreras que nosotros ponemos en Europa. Estas barreras caen y solo hay dos personas, dos personas con dos soledades, que se necesitan. Claro, en la obra está escrito como si tuviera un punto romántico pero a lo mejor es mucho más visceral que romántico. No están enamorados, es más la visceralidad de desear al otro, de necesitar el calor humano. Que no tienen, ahí no tienen.
Ahora hablemos a la otra obra seleccionada, “La Filla de Chagall”. Menos directo y con significados más ocultos, el texto gira en torno a un personaje femenino, Tamar. ¿Cuál es el motivo de esta elección? ¿Es significativo que ella sea una maestra de historia del arte?
“La Filla de Chagall” y “El Rey del Gurugú” tienen en común que son cuentos, por el tema narrativo y tal. Entonces, ¿por qué una mujer? Pues, no lo sé. Me vino a la cabeza una mujer y pensé, pues, va a ser una mujer y decidí que fuera una mujer. A mí siempre me ha fascinado el mundo de… Bueno, yo soy de una ciudad, Girona, que tiene un barrio judío, sefardita, del cual fueron expulsados en 1492, y siempre me ha fascinado. Hay una leyenda que dice que cuando fueron expulsados se llevaron las llaves de las casas. Los palestinos tienen exactamente la misma leyenda de las llaves y no es una leyenda, es una realidad porque cuando van a las manifestaciones van con las llaves en las manos. ¡Hostia, judíos y palestinos, la misma leyenda, la llave! El mito del retorno, de volver a la casa. Ellos pensaban que volverían y los palestinos también creen que van a volver. No van a volver nunca. Bueno, a menos que no pase una hecatombe, no van a volver. Entonces, esta necesidad de volver a las raíces, de la identidad cultural, de la identidad también familiar. Tamar vive en un país en el que, aunque proviene de una cultura que en su momento fue oprimida, la sefardita, ella se da cuenta de que el Estado de su país está oprimiendo a los palestinos. Entonces aquí es la historia que se va repitiendo. Ella está harta de la historia de su país, está harta de la historia de los judíos, está harta de ser parte de todo aquello y decide romper con todo eso. Pero no se da cuenta de que, aunque no quiera, acaba encontrando otra vez sus raíces. Un viaje al extranjero puede ser un viaje a las propias raíces. Entonces, es una metáfora sobre el tema de la identidad, de las raíces. Y, ¿por qué es una maestra? Pues, porque así me conectaba mucho con el tema de Chagall. Chagall siempre me ha fascinado y tiene un mundo onírico, con los personajes que caminan en el aire y están al revés y todo este mundo onírico a mí siempre me ha conectado mucho conmigo. Y por los colores también, por toda la simbología. Chagall mezclaba símbolos judíos y símbolos cristianos ortodoxos. Le daba igual. Él era judío pero un judío errante. También la figura del judío errante me fascina mucho. Y Tamar es un poco la metáfora de todo eso.
La dimensión onírica y casi delirante del texto esconde muchos significados ocultos. ¿A qué se refieren las principales metáforas de la historia de Tamar? ¿Cómo conseguí provocar realidades, que es el tema de este festival?
Para mí lo interesante es lo que la gente me cuenta que yo no he visto de una historia mía. Cuando me dicen, “Yo he visto tal cosa” o “Me he dado cuenta de que un personaje tal otra”. Por ejemplo, aquí me pasaba que muchas mujeres me preguntaban, “¿Por qué has escogido una mujer? Me he visto muy reconocida en el personaje. Parece que lo hubiera escrito una mujer.” Sobre todo mujeres jóvenes se han sentido identificadas en el personaje. No lo sé. Pero, en este caso, la metáfora del viaje nos representa a todos. Es la metáfora de la vida, de construir una identidad en relación a los otros. A veces esto no significa que estés cien por cien de acuerdo con tu propia identidad. Tú puedes estar cabreada con tu familia, o con tu cultura, o con tu lengua, con mil cosas. Por tanto, este personaje que está un poco desplazado de su propia identidad o que está enfadado con su propio país, pues, me iba muy bien porque le daba una intención a todo este tema. A partir de aquí, a mí lo que me gusta es que el público extraiga sus propias conclusiones, sus propias metáforas. Por ejemplo, cuando Tamar habla con su abuelo, es la metáfora de hablar con su propia identidad, con su propia raíz. De hecho, hay una escena que he suprimido en esta versión (pero que a lo mejor vuelvo a recuperar) en la que ella está en la estación de trenes de Barcelona para ir a Girona. Se gira y ve a sus ancestros judíos en una cola que nunca se termina hasta fuera. Los ve por generaciones como si estuvieran detrás de ella. Porque el pasado siempre está con nosotros. De hecho, con la física quántica están demostrando cosas bastante insólitas, bastante increíbles y a mí me gusta esto. Me gusta jugar con lo que no entendemos pero está ahí, de alguna manera.
Para despedirnos, si es posible, podría hablarnos de sus proyectos futuros. ¿En qué tema se va a focalizar su interés?
Ahora mismo, lo que me pasa es que si hablamos de ficción no sé qué voy a hacer. Mi última obra ha sido una obra de teatro verbatim. Es un tipo de teatro documental en el que el guion se hace a partir de entrevistas y de la transcripción literal de lo que te han dicho en estas entrevistas, sin cambiar nada. Entonces, yo he hecho una obra sobre el mundo del fotoperiodismo y la ética del fotoperiodismo: he entrevistado a fotoperiodistas con experiencia internacional en conflictos bélicos y tal. Claro, nos han contado experiencias muy fuertes y, además, me han dado las fotos para que las pueda poner en la obra. Esta manera de hacer teatro me ha tocado tanto, me ha influenciado tanto que ahora lo que me viene a la cabeza es hacer otros proyectos de teatro verbatim. Tengo algunos en la cabeza pero son muy difíciles de hacer. Por ejemplo, a mí me gustaría ir a Kurdistán a entrevistar a las mujeres guerrilleras, pero ahora está un poco difícil. Me han dicho que ahora no se puede ir, que están en pleno conflicto. Entonces, ahora el próximo proyecto que este sí que se va a hacer va a ser un proyecto de teatro verbatim sobre lo que pasó en Cataluña en el referéndum del 1 de octubre. Yo estaba justo ahí, en Girona. Los policías me cogieron, me arrastraron por el suelo, a amigos míos los pegaron y todo el rollo. Entonces, voy a hacer una obra sobre las diferentes personas que cuenten su experiencia sobre ese día y esto se va a estrenar, si todo va bien, a finales de mayo, en Girona seguramente. Este es el proyecto en el que estoy ahora.
Intervista di
Giulia Bucca