Recensione del romanzo d’esordio di Tasneem Jamal
“Dove l’aria è più dolce” è un romanzo di Tasneem Jamal pubblicato dalla Nuova Editrice Berti. L’autrice racconta la storia di una famiglia, la sua famiglia, che si spostò in vari luoghi del mondo in un arco di tempo che va dal 1921 al 1975. È un percorso lineare le cui fasi sono messe in evidenza dalla divisione in tre parti che segue la scansione temporale. Il libro si presenta come una vera e propria parabola, con un inizio e una fine ben definiti. È la storia di Raju, che negli anni ‘20 si trasferì dall’India all’Uganda in cerca di fortuna e pian piano, tra sacrifici e successi, costruì le fondamenta per la sua casa e per la sua famiglia. Nel corso del romanzo si raccontano le vicissitudini quotidiane della famiglia che si allarga sempre più, si fa numerosa, si arricchisce e si lega alla terra in cui vive, l’Uganda, che li ha accolti e gli dà nutrimento.
La prima parte del romanzo, intitolata “Gli inizi”,
va dal 1921 al 1945 e si focalizza sul punto di vista di Raju, sulla sua emigrazione e il radicamento in una terra straniera, che lo fa crescere e gli permette di costruire e allargare la sua famiglia. La stabilità raggiunta viene, però, interrotta da una morte improvvisa e inaspettata, quella di uno dei figli, Bahdur. Non è un caso che questa perdita segni la fine della prima parte del romanzo: il processo di crescita si è bruscamente fermato e quindi anche il racconto deve essere interrotto. Inizia quindi la seconda parte, “Gli anni felici”, situata in un arco temporale più breve ma più intenso, in cui entrano in scena nuovi personaggi principali. I figli sono ormai cresciuti e molti sono già sposati o in cerca di sistemazione. L’attenzione viene rivolta in particolare ad uno dei figli di Raju, Jafaar, e alle difficoltà che insorgono per trovargli una moglie. Così lo descrive Raju:
“Negli affari, fin da piccolo ha sempre dimostrato un’incredibile maturità. Si è assunto delle responsabilità, ha preso decisioni, ha dimostrato spirito d’iniziativa. Ma nella vita privata vuole solo divertirsi, con gli amici e con le ragazze,
asiatiche e africane. Quel comportamento infantile è diventato imbarazzante: ha già rifiutato tre proposte di matrimonio.” p. 80
Tuttavia, proprio in uno dei tentativi di combinargli un matrimonio, incontra una ragazza e decide che quella sarà sua moglie. A questo punto, la narrazione passa quasi impercettibilmente da un personaggio all’altro, da Raju a Mumtaz, da una voce maschile ad una voce femminile. Pur non essendoci mai la prima persona, la voce narrante scivola nei panni di questa giovane ragazza, assumendone il punto di vista da cui guardare il mondo. Segue la costruzione di un’altra famiglia, questa volta quella di Jafaar e Mumtaz, tra momenti di felicità e incomprensioni. Ancora una volta un fattore esterno interrompe la crescita ed è in questo caso un avvenimento storico: la presa del potere del dittatore Idi Amin. Gli sconvolgimenti determinati dalla dittatura sono affrontati nei dialoghi dei personaggi e si affiancano alla descrizione della vita quotidiana della famiglia. Dopo questo evento perturbante ha inizio la terza parte, intitolata “Gli ultimi anni”, dal 1971 al 1975: è la sezione più breve ma quella che produce più turbamenti nella famiglia di Raju.
È soprattutto la decisione di Idi Amin di espellere i cittadini indiani dall’Uganda ad essere al centro della narrazione. Quella che in un primo momento sembra la follia di un pazzo, come cerca di convincersi Mumtaz, che ripete come un mantra “È pazzo, cambierà idea. La cambia di continuo” (p. 196) piano piano inizia a concretizzarsi e le paure remote diventano realtà. Le famiglie sono costrette a fuggire da quella che è diventata la loro terra, che li ha nutriti e accolti per molti anni, dove hanno investito soldi e tempo e che ora si vedono improvvisamente negata. L’esilio è il costo che si paga se si vuole sopravvivere e sfuggire al vortice di caos e violenza che ha inondato l’Uganda. Intere generazioni sono costrette ad abbandonare tutto ciò che hanno costruito per ricominciare da capo, in un’altra terra straniera, dove, forse, l’aria è più dolce come sostiene la piccola Shama.
Con il suo linguaggio asciutto, diretto e preciso Tasneem Jamal
incarica un narratore onnisciente di raccontare la sua storia, quella della sua famiglia, partendo dal nonno e arrivando a Shama, dietro cui si può intravedere l’autrice da bambina. Non si entra mai nella mente dei personaggi, la descrizione è sempre oggettiva, esterna, quasi distaccata. Le emozioni sono solo descritte da fuori con un linguaggio neutrale, che si arricchisce qua e là di termini indiani legati a oggetti quotidiani della famiglia ma che mai si fa personale né si abbassa al livello dei personaggi. Lo stile di scrittura ricorda quello di un documentario e denota una presa di distanza dalla storia, che sarebbe altrimenti troppo difficile da raccontare per l’autrice che l’ha vissuta in prima persona e dai racconti dei suoi genitori. È una storia sulle minoranze: si rappresenta il punto di vista di una donna su un mondo dominato dagli uomini; si descrive la realtà della minoranza indiana in un paese straniero, l’Uganda; si allude alla popolazione africana prima sottomessa alla dominazione inglese, poi alla dittatura. Come reagiscono le minoranze oppresse dai poteri forti? Molti scelgono di scendere a compromessi, altri di ribellarsi, e alcuni sono insicuri e non sanno mai, come Mumtaz, quando tacere e quando parlare.
La profonda attualità di questa storia fa riflettere
su tutti i migranti che ancora oggi sono costretti a spostarsi, a lasciare le loro terre, le loro famiglie, in cerca di qualcosa di meglio. Spesso incontrano un rifiuto, un muro invalicabile che non riescono ad abbattere, determinato dalla paura dell’altro, del diverso, da una forma radicata di razzismo che esclude ciò che non conosce, contro la sensibilità e la solidarietà. A volte gli è negato quello a cui più aspirano: ricostruirsi una casa, una famiglia, una vita in una terra dove l’aria è più dolce.
Articolo di
Giulia Bucca