Giovanni Toscano, giovane attore e autore di Il guinzaglio, racconta il suo approdo alla scrittura e i temi alla base del suo romanzo d’esordio
Giovanni Toscano è nato a Pisa nel 1996. Ha frequentato un’accademia di recitazione a Firenze e ha esordito come attore nel film Notti magiche (2018), diretto da Paolo Virzì. È anche musicista e cantautore. Il guinzaglio è il suo primo romanzo, uscito il 6 maggio per Fandango Libri e di cui trovate qui la nostra recensione. Abbiamo chiacchierato del suo approdo alla scrittura, delle atmosfere del suo libro, del rapporto intergenerazionale fra giovani e adulti.
Hai studiato in un’accademia di recitazione e lavorato in un film, adesso è uscito un tuo libro. Ti senti più attore o scrittore?
La maggior parte della mia breve vita è stata concentrata nella recitazione, però la verità è che mi sento in linea con quello che faccio quotidianamente. E quindi, c’è un periodo in cui scrivo molto e mi sento più vicino alla scrittura, mentre, se dovessi iniziare un altro film, mi sentirei più attore. Non c’è un’unica vera identificazione, mi piacerebbe portare avanti tutte queste cose insieme.
Come sei arrivato alla scrittura? Come hai iniziato e qual è stato il tuo approccio?
L’idea della scrittura mi è venuta proprio dal film di Virzì, perché mi dovevo allenare per scrivere a macchina in delle scene e non potevo sembrare impedito. Quindi, per esercitarmi, tutte le mattine mi mettevo per un’ora – o anche più, se ci prendevo gusto – a scrivere. All’inizio scrivevo un po’ di pensieri a caso, quello che mi veniva di getto, dopo un po’ ho cominciato a seguire un filo conduttore. Ho scritto tante pagine e, diciamo, ho abbattuto un po’ il muro della costanza della scrittura. L’estate dopo mi è venuta in mente questa storia e, così, mi sono messo a scriverla. Avevo in mente solo come sarebbe iniziata e come sarebbe finita, poi nient’altro.
Il film, oltre ad essere stato un espediente per questo allenamento, è stata anche una fonte d’ispirazione per la scrittura del romanzo?
Che sia stato il film o gli anni dell’accademia, sicuramente la recitazione è stata molto utile. In fondo, il percorso che fai come attore ti insegna a diventare il fan numero 1 del tuo personaggio e a trovare dei punti di contatto con una persona che non sei te. Questo ha sicuramente aiutato per creare i personaggi del libro. La mia ispirazione principale sono state le camminate che faccio spesso in campagna, che è il mio posto del cuore. E poi una vecchia vacanza da amici di famiglia in America.
Ci sono sicuramente dei punti di contatto fra te e Michele, il protagonista del libro: avete praticamente la stessa età, entrambi toscani, entrambi attori. Quanto c’è del tuo modo di avere vent’anni in ciò che trasmette Michele? Sei un giovane sconsiderato o un po’ “al guinzaglio” come lui?
Ci sono vari aspetti di me in Michele, ma la maggior parte del romanzo è costruito su racconti di amici, storie viste… Sicuramente c’è stato un periodo in cui mi sentivo più vicino a lui, ma credo di averlo superato ormai. Magari con alcuni strascichi nel presente, ma non mi sento più minimamente come Michele. Sono molto più libero, molto più sereno. E, secondo me, lui non ci arriva a questa libertà, a questa consapevolezza. Infatti, la mia idea era quella di non dare una conclusione. In generale, penso valga per tutti i romanzi: come dire, la vita poi continua. Soprattutto in gioventù, ma anche in generale, non concludiamo mai niente. Non volevo che Michele raggiungesse delle consapevolezze estreme, volevo che il romanzo finisse e lui rimanesse comunque in alto mare. Nessuna conquista è definitiva, in fondo.
Ci sono due linee temporali nel romanzo: quella dei ricordi della relazione con Chiara, che sembra quasi già archiviata nel passato, e quella del momento presente, che si svolge tutto in 24 ore. Pensi che, diluendo di più l’incontro, avresti ottenuto lo stesso effetto?
Secondo me no, perché si sarebbe creata un’abitudine. Dopo un po’ di giorni fai amicizia, ti rilassi. Invece, quando l’arco è così breve, c’è sempre quella leggera tensione per cui tu ancora non conosci le persone che hai davanti e loro non conoscono te. E quindi, da una parte, ti senti anche più libero, perché rimane un certo livello di estraneità. Questo aiuta molto Michele ad aprirsi: probabilmente, dal giorno dopo non li vedrà mai più e, quindi, trova più coraggio di confidarsi. L’idea iniziale è stata questa: io so che questo Michele va a camminare, incontra questa famiglia e ci passa la notte, non sapevo altro. Sicuramente perché la notte, comunque, è un terreno fertile. A me piace molto scrivere le atmosfere che mi incuriosiscono, che mi accendono, per questo ho scelto la notte. E poi, anche quando guardo i film, mi piace moltissimo quando l’arco narrativo è molto breve oppure, al contrario, è lunghissimo, di una vita intera.
All’intera vicenda fa da sfondo un incendio – un “surrogato di tramonto”, come dici tu – che qualcuno ha appiccato sull’altro versante della collina, e si crea un’atmosfera ancora più surreale. Che significato volevi dargli?
Nonostante dall’altra parte del monte stia accadendo una catastrofe, loro fondamentalmente se ne fregano, perché non li tocca direttamente. L’idea iniziale era di suggerire questo nostro menefreghismo verso eventi anche gravi finché non ci riguardano personalmente. Lo stesso succede anche nelle relazioni. Cioè, finché l’incendio non arriva a devastare la casa, cerchi di ignorare, finché poi magari non è troppo tardi e il monte è tutto bruciato, come succede un po’ a Michele e Chiara. Poi, in realtà, tutta quest’impressione l’ho un po’ accantonata e l’incendio è rimasto più un espediente narrativo, che si capisce meglio verso la fine.
Nel libro si percepisce il contrario del distacco intergenerazionale: c’è un rapporto molto positivo fra il gruppo degli adulti e dei giovani, che risultano tutti sullo stesso piano nella conversazione e nello scambio reciproco. Secondo te, questo rapporto esiste anche al di fuori della narrazione? Gli adulti capiscono i giovani?
Credo non ci sia una risposta precisa. Due estati fa, sempre in campagna, ho avuto un incontro casuale e bellissimo con un gruppo di quarantenni e sembravamo coetanei. Forse un distacco più forte si crea quando ti confronti con qualcuno che ha già messo su famiglia. Il mio romanzo è anche un po’ un augurio, perché situazioni del genere possono capitare e sono occasioni fondamentali d’incontro, in cui entrambe le parti possono capirsi e imparare moltissimo.
A un certo punto, a Michele viene detta la tipica frase “Tu sei giovane, dovresti spaccare il mondo!”, e lui prova un senso d’ansia da prestazione di fronte a queste aspettative. Tu come vivi questa cosa dell’essere giovane e, quindi, dovere per forza spaccare il mondo?
Io, personalmente, la vivo con varie ansie. Anche quando faccio i provini, odio quelli che mi dicono “Oh, in bocca al lupo, spacca tutto!”. Io preferisco che mi dicano di fallire, che mi dicano “Oh, mi raccomando, vai male, fai una figura terribile”. Perché almeno, se vado male, ho fatto comunque quello che mi stava chiedendo il mio amico e, se vado bene, è un successo. Il mio approccio alla vita è un po’ così: abbassare sempre le aspettative, ma non troppo da poi perdere l’entusiasmo. In tutto quello che faccio – recitazione, scrittura, musica –, cerco di fare tutto per la semplice gioia di farlo, e non per un risultato. Cosa molto difficile, ma questo mi aiuta ad accorgermi di qual è il vero scopo e a provare un po’ meno ansia.
Secondo te, cos’è che rende difficile lasciarsi, anche a vent’anni, quando – come ci dicono sempre – “sei giovane e hai tutta la vita davanti”?
Nel caso di Michele e Chiara, il guinzaglio più grande è il senso di colpa di lui nei confronti di lei. Chiara negli anni si era dimostrata una persona estremamente fragile, quindi Michele pensa che lei senza di lui non ce la farà. In questo senso, la sottovaluta e sopravvaluta se stesso. Invece la vita di Chiara andrà avanti, anche senza di lui. In più, ma questo in ogni età, l’altro diventa una parte fondamentale della propria quotidianità, quindi è difficile pensare di non vederla più.
Siamo gelosi anche delle cose che decidiamo di lasciare indietro.
Metti che poi mi pento e mi ritorna la voglia…