Principes – Capitolo II
Tornato a casa dopo il turno notturno, quella mattina si sdraiò sul suo letto imbottito di paglia. Ci teneva acchè il suo letto fosse davvero pieno di fiele, non troppo secca né troppo fresca, e che il lenzuolo bianco incalzato per bene coprisse, spesso, i grumi di steli. La madre si era appena svegliata ed era orgogliosa di vedere suo figlio tornare da una mansione così importante Ma i due non fecero in tempo a salutarsi che Pietro si addormentò rapidamente. Sebbene i suoi pensieri fossero ancora presi dal suo lavoro, un po’ infastidito e preoccupato da quella strana sensazione e quelle parole avvertite in quell’attimo di sonno, ogni suo divagare in preoccupazioni si allungava e si torceva attorno ad un altro ricordo che da un po’ gli faceva visita: un ricordo diventato assillo, anzi, pesante rimuginio che ha iniziato ad attanagliare la quanto mai fragile serenità di Pietro a causa di un incontro avvenuto qualche giorno prima. Un incontro fortuito, casuale, non certo stabilito e nemmeno voluto. Tutto ciò rallentava il suo carattere vigile: mentre i suoi ragionamenti diventavano velocemente più radi, la stanchezza prendeva il sopravvento….
Ed ecco che si ritrovò su un mare calmo, anche troppo calmo
Era su una barca e con una rete in mano che gettava nell’acqua. A destra tutta Rheginna e il suo Baluardo, a sinistra il mare si differenziava dal cielo solo per un azzurro poco più scuro. D’istinto, tirò su la rete, quasi a sapere d’aver pescato qualcosa… Ma nulla… Solo acqua. Si sporse allora per vedere cosa non andasse e gli si palesò, immersa, la sagoma di un uomo, di cui si vedevano solo gli occhi spalancati, fermi e fissi su lui. Velocemente fece per protendersi di più per cercare di afferrare quell’uomo, ma l’acqua non sembrava neanche minimamente spostarsi: non riusciva a farsi largo e, sporgendosi troppo e incautamente, il suo peso lo fece cadere dritto nel mare. Di contro, si ritrovò a guardare il cielo da sotto il filo dell’acqua, vedeva confuso, appannato, mentre pian piano risaliva galleggiando, il contorno tremolante della sua barca e un uomo che si dimenava per afferrarlo. Questo cercava di smuovere l’acqua ma non riusciva nemmeno a creare un singolo schizzo.
Fluttuando, Pietro si avvicinò sempre di più alla barca e, riuscendo a vedere meglio quell’uomo, notò che quello sull’imbarcazione era proprio lui stesso, e comprese che anche quello nel mare, che aveva visto prima, doveva esser stato sempre lui. Come quando qualcuno che si diverte a sbattere le mani mentre dormi per farti svegliare di colpo, così l’angoscia sbatté nel suo cuore e lo destò d’improvviso. Si rese conto che era tutto un sogno e di tutto punto si alzò. Si sciacquò al volo, si rivestì, salutò la madre e corse verso il santuario di Pale[1], tre colonne ancora in piedi, di cui una mozzata, e la base di una quarta, poi altri massi rimasti dall’epoca degli etruschi, messi in tondo attorno ad una statua senza testa e senza braccia, che prima rappresentava Vertumno, dio del cambiamento, delle stagioni; che poi, dopo l’arrivo dei romani, rappresentava Pale, dio dei pastori; che ancora fu abbandonata per l’avvento del cristianesimo.
Eppure, in quel luogo, qualche nostalgico vi si riuniva
Qualche nostalgico vi si riuniva sotto il segno di una Confraternita, quella dei Principes, una volta a settimana, per celebrare il passato etrusco della nostra Rheginna. In quei resti e tra quei massi, pochi a dire il vero, ancora trafilavano sensazioni di un dolce passato che rimbombavano e tuonavano qua e là nel solchi grezzi delle colonne e nel ruvido della statua dolente. E con ciò, questi adepti si ispiravano ad una giustizia semplice e solare, pastorale e vegetale, salutando in maniera positiva e ben accetta ogni cambiamento che non fosse avvertito come forzatura o obbligo. Erano dunque contrari a ogni guerra, ma non a una difesa fino all’ultimo uomo; contrari a ogni violenza, ma anche alle ingiustizie. E lo facevano in quel periodo più che mai perché l’autonomia della nostra Rheginna era messa a rischio da quel pazzo di Sicardo[2], che bramava il possedimento di questo paese come di tutti quelli della Confederazione Amalfitana. Era insomma una sorta di movimento indipendentista, che all’occorrenza si occupava anche di problematiche interne, che attingeva dal passato per sopravvivere al presente. Ed era un po’ un segreto e un po’ no. Insomma non erano proprio al meglio organizzati, ci credevano molto e ci provavano ad esserlo. Cercavano di non far saper nulla in paese, anche perché non ci si poteva mai fidare più di tanto. Ma allo stesso tempo tuttavia molto si sapeva di loro.
Lucill’ ‘o pazz’
Si sapeva del loro capo, sì – diciamo di sì per ora, il loro capo – Lucillo, “Lucill’ ‘o pazz’”, come veniva soprannominato. Egli era l’erede Lucumone, l’ultimo di tanti che prima di lui si erano succeduti e che si passavano il comando della Confraternita per merito. Ma Lucillo era anche l’Aruspice o l’Auguro o il Folgoratore: si sapeva di come si vantava di conoscere le Discipline Etrusche, queste sconosciute, ma anche quelle di predizione del mondo latino. Non si sapeva, però, da chi avesse appreso queste conoscenze. Qualcuno in paese azzardava ipotesi sui suoi genitori: chi diceva che il padre fosse proprio quel tipo lì, ma sì, proprio quello che aveva anche un altro figlio da un altro rapporto, chi sapeva e spergiurava che la madre fosse morta ma che la conosceva bene… Ma, davvero, caro lettore, la realtà è ben distante da queste voci, te lo assicuro. Ti assicuro che io so chi erano veramente.
E veramente i compaesani sbagliavano a vederli in questa o quella persona. Da un lato la situazione era più semplice di quello che si credeva, dall’altro più magica se vogliamo, più difficile da decifrare: la vita, a volte, piega e spiega su sé stessa più anime e immagini, più voci e parole, nascondendo il vero dietro un lucido inganno. Tuttavia era invece ben risaputo di come si vestiva, e cioè con un cappello a cono e un mantello rosso scuro, “’o Palurament!”, come amava chiamarlo, con un bastone lungo, rimediato da rami o arbusti robusti, non certo uno scettro d’oro degli originali Lucumoni etruschi, che cambiava di settimana in settimana, perché a volte il suo lato poco pacifico glielo faceva usare come sfogo contro sassi e muri.
Era a tutti noto poi, il luogo in cui s’incontravano
E anche come, buffamente vestiti di bianco, si riunivano. Ma mai nessuno conosceva esattamente chi fossero e che faccia avessero le persone che partecipavano a questi incontri. E, in realtà, anche tra di loro, l’unico mezzo per riconoscersi al di fuori della Confraternita e dentro, era la loro voce, poiché nessuno, incappucciati com’erano, poteva identificarsi né con l’aspetto, né con il nome. Erano perciò sminuiti, un qualcosa che va dalla leggenda alla chiacchiera, e per questo pensati come innocui. E forse, tutto sommato, era proprio questa l’intelligenza di questo gruppo: non sembrare ciò che si era davvero. Chissà che quelle stesse voci non le avessero messe in circolo proprio loro! Come una sogliola che poco ha da difendersi se non lasciar credere che siano i suoi occhi quelli alla coda, così loro disseminavano chiacchiere ben controllate: il mistero completo indurrebbe troppa curiosità a sapere, la leggenda schernita difendeva invece una realtà ben più complessa. E gli stessi, comunque, c’è da dire che attingevano proprio dalle loro stesse ammissioni: eh sì, Lucillo a volte era pazzo, davvero pazzo. Ma difendeva un tesoro nella sua furia. I matti non andrebbero assecondati o destati. I matti andrebbero ascoltati per istanti e interpretati per momenti.
E così restava qualcosa di segreto
Infatti Lucillo era sì la loro maggiore guida, ma il vero capo supervisore, era Aulo, di cui già avete sentito parlare poco prima, sconosciuto ai più, e anche a molti dei Principes. Non risiedeva a Rheginna, piuttosto andava e tornava. Usava confondersi tra gli adepti e non farsi riconoscere se non in casi estremi. Insomma, poteva esserci e nessuno se lo sarebbe immaginato, oppure non esserci, e tutti sarebbero stati convinti che era lì. Di lui anch’io so poco. La figura è davvero eterea. L’ho visto una volta che saltava tra un rigo e l’altro di questo libro. Riesce a nascondersi dietro alle “t” e convincerti che sia una “o”. Ma per meglio trattare di questo argomento, m’ha concesso una sorta di merito: m’ha detto che mi farà scrivere tutto su di lui, e perciò non sorprendetevi se da ora apparirà di più di quanto non lo avrebbe fatto, se nessuno stesse parlando di Rheginna. Ma al di là di questa mia piccola parentesi, c’è da dire che grazie ad Aulo si riuscivano a sapere tutti gli spostamenti di Sicardo, le sue intenzioni; si poteva così mettere in allarme l’esercito, quando ci si riusciva, per stare più attenti, per aspettarsi qualcosa in più. E, a questo punto, il lettore più attento capirà quindi il nesso che c’era tra Pietro e questa setta.
Pietro apparteneva a questo movimento
Era proprio la pulce nell’orecchio dell’esercito. Tramite lui, che faceva in modo di far capire ai generali che magari quella notte sarebbe potuto succedere qualcosa – magari, così, per caso. La Confraternita riusciva a difendere, indirettamente, la nostra città. Quando ci si riusciva. Infatti non sempre Pietro aveva fortuna, e il più delle volte doveva ammettere che ciò che diceva derivava da sue sensazioni, da suoi sentori. Per questo passava per un tipo ansioso e insicuro… Ansia e insicurezza. Già da allora erano due etichette ben note nel linguaggio comune. Non si chiamava ansia e nemmeno insicurezza, ma di certo chi appariva poco più attento alle singole cose che al generico quadro d’unione era bollato come tipo continuamente preoccupato. Ma come abbiamo detto, in questo caso, la cosa giocava a suo favore, non dovendo far sembrare ciò che si era davvero.
Pietro dunque corse verso il santuario di Pale
Pale, o Fanum di Vertumno… Sapeva che Lucillo sarebbe stato lì a quell’ora. Solo lui in paese avrebbe potuto capire il significato di quel sogno: infondo era sì un po’ stravagante, ma aveva anche molto di un saggio, la pazzia appunto… Ma di certo Pietro non avrebbe fatto parola di quel suo incontro e del suo stato d’animo. Figuriamoci! Anche perché:
«Ma no, nun può essere, sono sul fessarje!» si ripeteva.
Arrivato di fronte a Pale, o a quello che ne restava, sentiva Lucillo blaterare una serie di parole in etrusco ridendo e
«We, Ser Pietro… E non abbiamo incontri oggi, Pietro; che ansia vi porta ccà chesta vota?»
«Ser Lucillo, per favore… chest’ m’aggio sunnato». E gli raccontò con un po’ di fiatone il suo strano incubo.
Lucillo, sentito il racconto, prese il suo scettro di legno, iniziò a piegarlo per osservarlo, notò le schegge che pian piano schizzavano dal bastone e i filamenti saldi che perdevano man mano elasticità. Diviso che fu, ne buttò una parte vicino a Pietro e l’altra la tenne nella sua mano sinistra. Si chinò e con un dito della mano destra scrisse su del terriccio questa frase “Prorsus ad vivendum velut ad natandum is melior qui onere liberior. Sunt enim similiter etiam in ista vitae humanae tempestate levia sustentui, gravia demersui”. Poi con il legno in mano tracciò un cerchio che chiudeva lo scritto e disse:
«”Truth!”» invitando Pietro a prendere l’altra parte del legno e a leggere l’orazione. Una volta finito avrebbe dovuto cancellare tutto col bastone prima gettato. Pietro lesse ad alta voce… O almeno ci provò!
«Ser Lucillo… in latino? Non è che me ne ricordo molto!»
«We Pietro, non sarà facile… E sai perché! La conoscenza di sé a volte prevede un po’ di fatica… Cercate di memorizzare il più possibile… E cercatene il senso come potete!».
«Ma non potete dirmelo voi? Nun facimm’ primm’? Ja, Ser Lucillo… Pe’ favor…»
«Ancor’ parl’! No! Trovatell’ tu o’ significat’!»
Pietro, dunque, un po’ seccato per non poter capire al volo quel messaggio, ma fiducioso nella figura di Lucillo e speranzoso di poter capire, si mise d’animo a imparare a memoria quello che il Lucumone aveva predetto… Rilesse, rilesse e rilesse… Poi provò a non leggere e a ripetere; e poi ancora e poi ancora… Ora bastava trovare qualcuno che ne sapesse di latino.
Note:
- [1] Antico santuario da cui proviene probabilmente il nome del quartiere Paie a Maiori
- [2] Principe Sicardo di Benevento (?-839), ultimo sovrano longobardo del principato beneventano, stanziato per lo più a Salerno, in continuo conflitto con Napoli, Amalfi e Sorrento.
Scritto di
Pierpaolo Prevete