“La città”, edito La Nuova Frontiera, opera di Mario Levrero – un topos surreale in cui si consuma e celebra l’assoluta insignificanza del brulicare umano intorno agli accadimenti della vita
Nome comune di non-luogo
La città. Un nome comune, generico, come un altro, per indicare un ‘non-luogo’ per antonomasia. Ma anche un non-tempo. La città di Mario Levrero, infatti, è senza spazio, poiché si trova in mezzo al nulla, nessuna coordinata specifica e nessuna toponomastica riconoscibile; si erge dimentica di tutto in una qualche regione lontana del Sud America; è quanto basta al protagonista (e al lettore). Questa città è, inoltre, senza tempo, dimensione anche questa manchevole e che sfugge di continuo alle valutazioni; sono eventi di oggi, di ieri, ma anche di domani. Simbolicamente, il protagonista cerca spesso, infatti, di decifrarne le carte e le mappe che trova qua e la durante il suo alienante soggiorno, ma sembrano essere scritte in una lingua antica, dai caratteri indecifrabili:
Non solo non riuscivo a capire una singola parola, ma non riuscii neanche, alla fine, a riconoscere, e nemmeno a inquadrare grosso modo la lingua. Allo stesso tempo la cartina in sé era confusa, dato che figuravano, isolato per isolato, le sezioni delle case con tutte le differenti stanze; e gli isolati non erano uguali, bensì assumevano forma capricciose, addirittura circolari ed ellittiche.
Non contento, poi, baratta anche il suo orologio per la bicicletta di un negoziante del posto, il quale sembra esser completamente rapito dall’oggetto. Piena disposizione a smarrirsi, ecco cosa comunicano queste immagini:
All’inizio l’idea mi sconcertò. Ero molto affezionato a quell’orologio. Lo portavo al polso da anni e, salvo il particolare già menzionato, la sua abitudine periodica di andare avanti anche di dieci minuti, era davvero un orologio molto affidabile. E il fatto di barattare un orologio con una bicicletta mi risultava strano. Però, d’altra parte, io, in quel momento e in quel luogo, avevo molto più bisogno di una bicicletta che di un orologio.
Insomma, la città rappresenta una qualsiasi increspatura del reale che diventi teatro di incontri ed accadimenti casuali, per intenderci. Un topos surreale in cui si consuma e celebra l’assoluta insignificanza del brulicare umano intorno agli accadimenti della vita. La città è questo luogo immaginario che li contiene tutti ad un tempo, e da cui è possibile osservarli da vicino. Ma la città ha anche un’altra caratteristica: il movimento. Ed è un movimento non necessariamente frenetico o convulso, anzi qui decelera.
Gli eventi che si susseguono non appartengono all’epica o al romanticismo, essi sono banali accidenti che innescano percorsi imprevisti nel mondo labirintico di Levrero, i cui personaggi sonnecchiano sopiti dalla distopia dell’attesa. Tutti attendono sommessamente, ma con fiducia, qualcosa di non ben definito. Una lieve tensione che ingenera continuamente un senso di ‘non-compiuto’ a sua volta cardine principale di tutta l’atmosfera che si respira nel romanzo. C’è, in altri termini, un clima di ‘sospensione’ perenne che intrappola il lettore sin dalle prime pagine costringendolo ad attendere (invano?) ‘qualcosa’.
Una realtà labirintica costruita con dovizia
Il romanzo di Mario Levrero ‘La città’, La Nuova Frontiera, è capace da subito di dar voce ad una realtà labirintica graduale, in grado di distorcere e frantumare la vita dell’anonimo protagonista che casualmente vi rimane impigliato, dopo essere banalmente uscito di casa per comprare qualcosa da mangiare. Un personaggio anonimo, appunto, di cui non si conosce nulla se non il fatto che si appresta a passare la notte in una stanza umida e malconcia, durante un temporale, quando all’improvviso si accorge, suo malgrado, di essere senza cibo. L’istinto di fame è qui solo un motivo casuale e provvisorio dell’inizio di una ricerca. Dopo alcuni ripensamenti e dubitazioni, decide finalmente di uscire alla ricerca di un negozietto nei dintorni.
Qui si innesca il vero modulo narrativo che sarà una costante del romanzo: il viaggio senza rotta, il camminare aporetico dopo essersi smarriti. Saranno molte le strade per le quali il protagonista dovrà condursi per seguire gli indizi di una realtà confusa e per nulla coerente. Percorre strade in tutti i modi: a piedi, in camion, in bicicletta. Lungo la traiettoria tutt’altro che lineare di questo incedere, poi, la casistica contorta degli eventi che l’intersecano. Sono eventi il cui senso, o significato, sfugge di continuo al protagonista che cerca di decifrare senza riuscirvi; la soluzione è sempre intravista di sguincio, parzialmente rivelata, ma mai raggiunta, neppure con lo sguardo. Sfugge di continuo dalle mani e si confonde tra i pensieri. Un girovagare attratto solamente da indizi mendaci ed illusori, che si rivelano condurre al non senso più generale. Le figure incontrate sono surreali, enigmatiche e dirottatrici.
Camminai a lungo così, non so quanto, inciampando e imprecando, muovendomi per mera volontà delle gambe, con la voglia di stendermi per strada e restare lì, in una disperata rassegnazione. All’improvviso, in lontananza, avvistai un paio di luci in movimento…
Impigliati nel nulla
Varcando la soglia della sua abitazione, l’anonimo protagonista ha dato il via alle mille occasioni che possono distorcere di colpo la nostra placida esistenza, stravolgendola e deformandola a piacimento. Egli viene risucchiato dalle strade di questi non-luoghi che sfocano sempre più i loro contorni, facendo perdere il viandante. Su una di queste strade, un camionista con una donna a bordo decidono di dargli un passaggio. Durante il viaggio si abbandona al sonno, e agli sguardi ambigui dei due soggetti, soprattutto della donna che sembra nello stesso tempo flirtare con lui e respingerlo brutalmente. Al suo risveglio si ritroverà in una città desolata, di cui non conosce nulla, il cui linguaggio usato nei rotocalchi e nelle cartine è indecifrabile. Questa città fantasmatica è fatta solo di un bar, una vecchia stazione di servizio, un emporio, un negozio di scarpe e poco altro. Intanto la donna misteriosa lo ha abbandonando a seguito di una discussione concitata.
Il protagonista non vorrebbe rimanere fermo lì neppure qualche momento, se non fosse per la strana attrazione-repulsione provocatagli dalla donna ed il suo comportamento. Anche lui rimane sospeso in quella città, ad attendere involontariamente di qualcosa. A poco a poco rimane impigliato nella dinamica di semplici eventi che lo trascinano inesorabilmente. I giorni si susseguono, ed egli non riesce a far ritorno alla sua abitazione; i motivi sono quasi sempre futili, come ad esempio il non riuscire mai a farsi dire (e sembra che lo faccia a posta!) il punto esatto in cui si trova la stazione più vicina, o l’assenza di mezzi di locomozione, o semplicemente il tempore di un bagno caldo, o la speranza di rincontrare quella donna.
”Non trovo una ragione per la quale lei voglia andarsene oggi stesso” disse. ” Qui può fare come se fosse casa sua”. […] inoltre posso dirle che non solo non mi sembra conveniente che intraprenda il viaggio questa notte stessa, ma non mi sembra neanche probabile. […] In questa città non ci sono mezzi di trasporto […] Esiste la possibilità di viaggiare, e gratis, perché di tanto in tanto passano camion e si fermano qui […] bisogna solo aspettare. L’altro modo di viaggiare è in treno. Non molto lontano, a pochi chilometri da qui c’è una stazione. Non so dove si trovi esattamente…”
Quella frase di Kafka..
Mario Levrero è andato a scuola da Kafka (citato sin da subito, prima del primo capitolo) e dai surrealisti, ama dare pennellate sobrie, confuse e mai complete ai suoi scenari. Ma più di ogni altra cosa è capace di generare distopia e caratteri nebbiosi, la cui peculiarità sembra quella di voler celare. Ogni azione è una pista che conduce al nulla, una bozza mai portata a termine; il non-luogo della città è fatto solamente di circostanze banali che generano delle crepe in tutta la rappresentazione fino a distruggerla in un mosaico scomposto di cui è difficile rinvenire il capo. Il contesto diventa sempre più obliquo, alle volte sinistro e claustrofobico, aporetico. Nessuna certezza nel mondo della città, nessun percorso predefinito. Ci si muove a tentoni, facendo dei tentativi qua e la nella speranza di raccapezzarci qualcosa. Una storia visionaria che ha il solo compito di disturbare le certezze del lettore moderno attraverso una scrittura in grado di catturare ciò che all’uomo comune di continuo sfugge.