Giada Biaggi e la filosofia moderna e alternativa
Mercoledì 10 marzo abbiamo ospitato Giada Biaggi, autrice di Philosophy and the city, nella Stanza Blu (il format delle dirette su Istagram inaugurato mesi fa); una stanza che si è trasformata come per magia in un magnifico salottino roccocò. Roccocò perché la magniloquenza e il citazionismo della filosofa hanno riempito la stanza di concetti articolati, affermazioni provocatorie, affermazioni indispensabili alla comprensione e alla costruzione di un immaginario generazionale, l’immaginario dei millenials. Una ricchezza di pensiero che ci spingiamo a definire provocatoriamente roccocò. Con Giada Biaggi si apre uno spazio in cui si cita per provocare, si parla da una prospettiva volutamente paritetica, nella quale la filosofa osserva senza giudizi universali, osserva per comprendere.
Come e quando hai deciso di creare il tuo podcast Philosophy & the City? E per City ti riferisci a Milano?
Sì, naturalmente Milano è la città in cui abito attualmente, anche se mi piacerebbe molto vivere a New York, magari divento l’altra moglie di Trump. Ho un po’ introiettato l’american dream e ho tentato anche un dottorato a New York qualche anno fa. L’dea del podcast mi è venuta durante la pandemia, perché il primo podcast che ho ascoltato è stata Morgana e avevo l’impressione che mancasse in Italia una prospettiva umoristica e originale sul tema del femminismo. Sì, bello raccontare le biografie di donne sconosciute e bla bla bla, ma sentivo che c’era bisogno di una narrazione diversa della filosofia e del femminismo. E a ottobre ho iniziato a registrare il podcast. L’intenzione era quella di parlare di cultura ma con un tono super porno. Mi sono ispirata un po’ al libro di Preciado Pornotopia. Fra l’altro è stata una cosa molto semplice da realizzare: basta avere un’idea, svilupparla al meglio e comprare un microfono da 80€ da Mediaworld. Poi è da un po’ che vorrei intraprendere una carriera nell’ambito della stand up comedy e il podcast è risultato essere un mezzo economico per fondere un po’ comicità e cultura.
Proprio in riferimento alla comicità, ci spieghi un po’ cos’è l’humor da femminuccia, del quale hai parlato nelle tue stories qualche giorno fa?
C’è questo sottoplot secondo il quale le donne non fanno ridere e che ci sia un’ironia femminile o una sensibilità prettamente femminile, quando nessuno ha mai detto che esista un’ironia da maschio, anche perché poi è l’ironia dominante. Io non credo che ci sia un’ironia femminile però siamo abituati a volerci far ridere dallo stesso tipo di donna che nella maggior parte dei casi si autocommisera in maniera estetica, dicendo mio marito non vuole venire a letto con me. Quello che io definisco il modello Luciana Litizzetto. Da questo punto di vista ritengo il programma di Fazio emblematico della situazione delle donne in Italia. Fazio è il maschio di mezza età che conduce, il maitre a penser. Al suo fianco c’è la donna intelligente che parla di più, che è “bruttina” e sta sopra la scrivania e comunque viene zittita, sempre secondo un modello drammaturgico. Poi c’è la donna immagine, Filippa Lagerback, che sta zitta. Sarebbe bello riuscissimo a superare questo modello triadico un po’ malato.
A proposito di tv italiana, tu hai dedicato un’intera puntata del podcast alla Mediaset e al Berlusconismo. Hai visto l’intervista a Zingaretti a Non è la D’Urso?
Ma se fossi un politico andrei paradossalmente solo in questi programmi, adoro la cultura trash. Nella mia vita ho fatto anche qualche provino in Mediaset di cui uno per il “pupo e la secchiona”. Ho provato sia come pupa che come secchiona. Però mi hanno detto che ero troppo carina per essere una secchiona e troppo intelligente per il ruolo da pupa e quindi non ho trovato una mia collocazione neppure in Mediaset, ma sarei sempre pronta ad andarci.
Quindi fra mamma Rai e Mediaset?
Sceglierei sempre Mediaset, mi sento Berlusconiana nell’anima. Uno dei problemi della sinistra, sto estremizzando e parlo provocatoriamente, è quello di guardare sempre tutti dall’alto in basso. Invece secondo me dobbiamo tutti stare in basso per poi elevarci differentemente, insieme.
Come hai fatto a costruire questa metafora fra pornografia e filosofia? Uno dei meriti del tuo podcast è proprio la scoperta di un’anima comica nella filosofia
Sì, ma perché in fondo i filosofi come gli artisti sono degli scoppiati. Devo molto al mio professore di filosofia del liceo Alfio Colombo, lui faceva cabaret filosofico. E infatti la battuta che c’è nel primo episodio del podcast «Zaratustra Zaratustra con le donne bisogna usare la frusta» l’ho rubata a lui. A lui devo questo approccio idiosincratico e un po’ punk.
Hai ricevuto delle critiche a questo tipo di approccio?
Alcune. Sono un po’ le critiche che ricevo anche nella vita. L’eccesso di citazionismo, il fatto che salto troppo dal basso verso l’alto e viceversa, cose simili insomma. In realtà sono delle critiche ma anche dei complimenti. Non mi voglio paragonare a Franco Battiato o Woody Allen, ma anche loro citano di tutto nei loro testi e film. La prassi dell’ipercitazionismo è anche un po’ uno sfottò al mondo degli intellettuali. L’ironia femminile in generale è qualcosa che spaventa se non sta in alcuni dettami precostituiti. Però in generale ho avuto un ottimo feedback. Un’osservazione da parte di mia madre, che mi ha detto che dico troppe parolacce. Penso non abbia ancora razionalizzato il fatto che le dica.
Quali scopi ti sei posta con la creazione di Philosophy & the City?
A me piaceva creare un immaginario, questa foto un po’ pulp. Questo podcast in futuro potrebbe diventare qualsiasi cosa. La dimensione uterina del contenitore podcast, se vogliamo la sensualità della voce registrata, è stato il mezzo più veloce che ho trovato per esprimere un immaginario e per essere non politicamente corretta. E il podcast contiene qualcosa di intelligente, più pervasivo di un saggio accademico, che può fungere da stimolo per porsi delle domande. È esattamente quello che succedeva a me quando a 14 anni ascoltavo le canzoni di Battiato, non capivo tutto ma avevo la testa piena di domande.
Un personaggio interessante è quello della Überdonna. Hai preso spunto da un personaggio che ti abita dentro, cioè a volte ti senti anche tu una donna mascolinizzata, o è una figura esterna a te?
La verità è che noi alla fine siamo tante cose insieme. Avevo coniato questo termine pensando a Fran Lebovitz. Nel mio lessico la Überdonna è quella che gli uomini pensano sia la donna forte, un po’ la Barbara Palombelli della situazione. Credo che la Überdonna stia anche nel farsi una skin care e leggersi un saggio di filosofia. Siamo tante cose insieme e in giro si vedono solo rappresentazioni monolitiche di donne. E questo è il tipo di rappresentazione che fa comodo al mantenimento dello status quo patriarcale. Le donne che ho scelto di raccontare sono tutte delle Überdonne, ma in una maniera antitetica rispetto a questi modelli monolitici. Per esempio, Miuccia Prada che fa una moda politica, ma comunque fa moda. Credo in una rivoluzione che si declini attraverso la rottura dello stereotipo.
Il grande tema di questo festival di Sanremo, declinato in varie salse, è la fluidità di genere. Il maschile e il femminile sono delle categorie in declino?
Il superamento di questa divisione binaria dei generi deve per forza passare attraverso un’accettazione del femminile. La cosa grave che emerge anche da tutta la polemica fra direttore e direttrice è che le donne stesse percepiscano come sminuente l’uso del femminile. Allora perché accettiamo di buon grado l’uso di segretaria ma rifiutiamo di definirci direttrice? Io non sono una nazi della lingua, non sono molto Butleriana. Nell’evidenza della vita pratica, della vita activa per dirla alla Arendt, esiste la differenza di genere, banalmente gli uomini sono più forti delle donne e ti possono mettere le mani addosso. Poi esiste anche una supremazia biologica, della quale oggi si parla poco. Weinstein ha stuprato Asia Argento perché era più forte, ha esercitato su di lei un’egemonia sia fisica che culturale. Come macrosistema tutte le disparità derivano da una disparità fisica di genere che gli asterischi non penso possano cambiare. Quindi il primo passo è a mio parere l’accettazione del femminile.
Vuoi regalarci un finale pazzo dei tuoi? Uno zuccherino immaginifico solo per The Serendipity?
Siamo io e Zingaretti davanti al muro di Berlino nell’East Side Gallery e io gli chiedo: «Sei uno più da Berlino Est o da Berlino Ovest?». E lui mi dice «Da Berlino Ovest. Per questo me ne sono andato».
Giada Biaggi
Anche la sua geografia personale sembra abbastanza articolata. Studia Filosofia alla Humboldt di Berlino, dopo aver concluso una triennale in lingue e letterature straniere presso la Cattolica di Milano – aggiungo, solo una formazione cattolicissima e gesuita ti può portare alla costruzione di una metafora fra filosofia e pornografia, non a caso l’estasi di Santa Teresa viene scolpita nel periodo di massimo splendore della Compagnia di Gesù (vedi Foucault). Conclude un dottorato in filosofia all’Università di Venezia, ma il suo destino non si realizzerà intramoenia Universitatis. Fugge dall’ambiente accademico e inizia la sua carriera da giornalista e web editor per Elle, Cosmopolitan, DRepubblica, Zero. Non ci resta che ascoltare direttamente la nostra filosofa preferita, ma prima dobbiamo creare la giusta atmosfera. Abbandoniamoci pure alle nostre sedie di velluto rosso dai braccioli dorati – anche se in realtà sono delle sedie color panna Ikea dal design minimal –, giriamo la manopola della nostra radio vintage anni ’30 che sta sul comò intarsiato dai piedi traballanti, poggiamo i piedi sul tavolinetto placcato d’oro, facendo attenzione a non far cadere con un gesto molesto il nostro Manhattan, rilassiamoci e ascoltiamo cos’ha da raccontarci Giada Biaggi nella nostra stanza roccocò.