The Glass Menagerie di Tennessee Williams – la presunta fragilità di una ragazza di vetro
1944, debutta a Chicago The Glass Menagerie tradotto in Lo zoo di vetro, opera teatrale di Tennessee Williams, tratta da un suo racconto scritto dieci anni prima, Ritratto di una ragazza di vetro. Questo atto unico – come spiega lo stesso autore nella sua prefazione – è un “dramma di memoria”: si tratta della messa in scena del ricordo che il narratore, Tom, ha di sua madre Amanda e di sua sorella Laura, la nostra ragazza di vetro. In apertura del dramma, Tom rivolge le sue prime battute direttamente agli spettatori, rompendo istantaneamente la quarta parete ed annunciando la sua intenzione di “riportare indietro il calendario” e trasportarli nei ricordi che si susseguiranno sulla scena. “Il dramma è memoria”, dice Tom. Questo spiega il sentimentalismo con cui i ricordi verranno rievocati, avvolti in un’atmosfera ovattata, illuminati da una luce soffusa e accompagnati da una melodia ricorrente, che sembra fare da tema alla vita dei protagonisti.
Il tutto amplifica, inoltre, la sensazione di distacco dalla realtà, come se questa famiglia vivesse in una bolla a parte. Tom, che deve mantenere la madre e la sorella a causa dell’abbandono da parte del padre, vive soffocato dalla banalità e dalla monotonia del lavoro in fabbrica e cerca costantemente rifugio nelle proiezioni del cinematografo, per evadere almeno con la fantasia. La madre, Amanda, è molto apprensiva nei confronti dei figli, dei quali monitora gli spostamenti, le abitudini e vorrebbe direzionare le sorti future. Rievoca in continuazione – e rimpiange, si intuisce – gli anni della sua gioventù, quando, per la sua bellezza, era circondata da decine di corteggiatori. Vorrebbe trovare un buon partito per la figlia, che, però, non ha mai avuto lo stesso successo della madre, sia per via di un difetto alla gamba, che la fa zoppicare, sia per via della sua timidezza. Laura, dal canto suo, non sembra essere particolarmente affranta per l’assenza di un uomo nella sua vita. Riempie le sue giornate dedicandosi ai suoi passatempi preferiti: ascoltare dischi in vinile e prendersi cura della sua collezione di animaletti di vetro, il suo piccolo zoo.
Una sera poi..
Una sera, Tom decide di accontentare le assillanti richieste della madre e invita a cena un suo vecchio compagno di scuola e collega, Jim, per presentargli la sorella. Laura rimane pietrificata alla vista di Jim, che altri non è che l’unico ragazzo per cui lei abbia mai provato interesse, ai tempi del liceo. Durante la cena salta improvvisamente la luce e Amanda trova prontamente un modo per far rimanere i due da soli, lasciandoli a chiacchierare a lume di candela. Gradualmente, Jim riesce a mettere Laura a suo agio e a farle capire che l’unica “patologia” che la ostacola è il suo complesso d’inferiorità. La ragazza fa crollare le proprie difese e lo fa entrare nella sua collezione di vetro, affidandogli simbolicamente uno degli animali dello zoo, il suo preferito, un unicorno. Lui la prende per mano e le insegna a ballare, ma, volteggiando, i due urtano il tavolo sui cui era poggiato l’unicorno, che cade a terra perdendo il suo segno distintivo. Così anche Laura diventa “un cavallino come gli altri”, non più un essere diverso, eccentrico, bizzarro, ma una creatura più simile alle altre, una ragazza come le altre ragazze, che danza spensieratamente nel proprio salotto e riceve baci fugaci.
Se da una parte Laura vive la rottura del corno quasi come un sollievo, come la sua chiave d’accesso al mondo “normale”, dall’altra Jim le confessa che è proprio la sua diversità ad attrarlo, anche se tra loro non potrà mai esserci nulla, perché è già promesso sposo ad un’altra donna. Allora Laura lo lascia andare via, porgendogli l’unicorno spezzato come dono di nozze. Non sentiremo più una parola dalla bocca di Laura, la vedremo soltanto incrociare gli occhi di sua madre – con uno sguardo illuminato da un sorriso – e chiudere il dramma, spegnendo le candele.
Agli occhi del resto della famiglia, Laura è una creatura fragile, un altro membro dello zoo di vetro, da accudire e proteggere da ogni cosa, come se la minima colluttazione potesse mandarla in frantumi. Ha pochissime battute, la conosciamo quasi esclusivamente attraverso gli occhi apprensivi della madre e del fratello, che ci restituiscono quest’unica immagine di una ragazza debole e indifesa. Ma la fragilità non è la sola qualità del vetro: anche la sua trasparenza è fondamentale, ed è forse questa la caratteristica che Laura incarna meglio. Quando finalmente è lei ad essere colpita direttamente dalla luce – e non la vediamo più soltanto attraverso il riflesso e i timori degli altri –, come un oggetto di vetro risplende in tutte le sue sfaccettature e crea nuovi giochi di colore.
Probabilmente, la battuta più espressiva di Laura sta nel non detto di quell’ultimo sorriso. Mi piace interpretarlo come una presa di coscienza, l’accettazione della propria fragilità, della debolezza non come qualcosa da rimuovere, della diversità come valore aggiunto, della rottura di un’illusione come occasione di ripartenza. Mi piace interpretare il vetro che va in frantumi come la possibilità di trovare nuova luce a partire dai riflessi di quei pezzi da raccogliere.