‘Passi silenziosi nel bosco’ di Hugo Pratt, Marco Steiner e Nicola Magrin ed edito da Nuages è online – scoprite insieme a noi questo fantastico viaggio tra le terre d’Occidente
Un viaggio iniziato da Pratt che prosegue grazie alla penna di Marco Steiner e agli acquerelli di Nicola Magrin, nelle terre vaste e sconfinate del west, dove indiani, boschi, spiriti ed elementi parlano silenti al viandante che ha imparato a sognare. Edito da Nuages, ‘Passi silenziosi nel bosco’ è il viaggio dell’anima che ritorna ad essere Natura.
Un antico e maestoso pino in mezzo a una tormenta
Nelle sconfinate distese d’Occidente, solcate da venti piumati e attraversate da fiumi canori, il poeta lavora e intaglia le sue immagini con mano sapiente, ricavando la loro semantica dal morbido legno della parola; questa parola è il materiale inconsumabile della sua arte, pronta a farsi, a divenire sempre qualcos’altro. Affianco a lui, l’artista della figura compie il percorso inverso: invoca le parole attraverso sagome e forme dai contorni foschi, ambigui, mai definitivi; le sue immagini raccontano una storia sussurrata nel vento del Nord. Ambedue lavorano solitari all’ombra di un maestoso ed antico pino.
All’orizzonte, una tormenta annuncia la sua venuta. Il vento è forte e vigoroso, essi temono un imminente tracollo. Ma il grande pino, sapiente, non teme i suoi fendenti: ‘Guardatemi’ – sussurra loro – ‘le mie cime sembrano quasi spezzarsi e cedere alla furia del vento, ma se osservate il mio tronco vedrete che esso è forte, robusto, imperterrito ha sancito il suo legame con la Terra. Esso vi proteggerà’. Allora i due compagni si stringono tutt’intorno al legno robusto, lo abbracciano. Essi diventano pino, si fanno Natura, si sfaldano e scompaiono nella sua Ombra. Essi attendono pazienti di salpare di nuovo.
Così le due anime di Hugo Pratt trasmigrano nelle figure di Marco Steiner e Nicola Magrin, il poeta e l’artista, attraverso un’opera in cui l’immagine rincorre la parola sino a raggiungerla, e la parola, a sua volta, s’immerge dimentica di sé nell’immagine. Parole e immagini s’intrecciano continuamente, danzando senza sosta, sino a confondersi le une nelle altre, poiché esse non sono altro che due modi diversi di procedere e di tendere verso la medesima storia, incontrandosi a metà strada. L’epopea del west è appena iniziata. Un viaggio tra le foreste, i boschi, gli indiani d’America, le leggende selvatiche, l’odore forte ed aspro della paura che alterna con immensi paesaggi verdi senza sentiero alcuno. Gli animali e gli spiriti indomiti della selva sono i veri padroni di questo regno vasto e magico.
Una danza di immagini e parole
Il libro, o meglio l’opera, poiché definirlo un libro in senso classico è forse profondamente erroneo, ‘Passi silenziosi nel bosco’ recentemente pubblicato da Nuages, ci prende per mano strappandoci dall’aporia cittadina e catapultandoci direttamente in un viaggio fatto di odori, percezioni fugaci, estatiche visioni, spettri boschivi e animali che sono le vere guide spirituali di questa traversata. È una storia che prosegue da un’immagine già precedentemente sognata da Pratt e che ora trova la sua più piena e matura realizzazione. Tutto è significato, poiché tutto è segno. Ogni cosa è in grado di parlare a chi è disposto ad ascoltare; a chi è disposto ad abbandonarsi e perdersi, lasciando le redini illusorie di un ‘‘Io’’ fin troppo pesante. Bisognare viaggiare leggeri, senza la timorosa presenza di sé stessi. Ed ecco che ‘impalpabili essenze popolano l’alba’, ‘pietre sinuose’ indicano il cammino al viandante senza meta, attratto solamente da quel vago richiamo che lo trascina sempre più vicino al proprio essere. Sin dalle prime tavole, dalle prime parole sgorgate come da un ruscello in piena, l’opera ci offre la possibilità di annientare tutto ciò che ci separa da una Natura autentica. I due compagni di viaggio hanno forse lavorato in silenzio, sotto quel maestoso pino, in un continuo tentativo di raggiungersi, di ricongiungersi con l’Altro per approdare ad una medesima terra. Ambedue partecipavano silenti ed estasiati a quell’essenza misteriosa e così eloquente del loro immaginario. Essi sono esenti anche dal circolo voluttuoso del tempo, essi non appartengono a nessun altro all’infuori di loro stessi.
Il poeta
La scrittura di Marco Steiner segue un tragitto che è al tempo reale e fittizio; poiché l’atto stesso dello scrivere e del narrare deve costantemente nutrirsi del ‘vissuto’. Scrivere vuol dire essere avidi di esperienze ed essere disposti ad accogliere attivamente le increspature del mare senza remore. In questo caso è la vita stessa a riversarsi sul foglio creando tragitti e percorsi liberi, senza meta, senza imposizioni: lo scrittore segue i tragitti casuali del suo viaggio, egli è un testimone ancillare dell’imprevedibilità degli eventi disposti dinanzi ad una coscienza che non pratica alcuna violenza ermeneutica dinanzi ai fatti; bisogna viverli fino in fondo, non oggettivarli con teorie o programmi. Il mondo è sempre stato magico, lo è tutt’ora al di là della ratio tecnocratica dei nostri tempi e lo sarà in eterno. Lo scrittore è colui che intravede gli squarci di una presunta linearità del mondo, eternamente disposto ad accogliere le suggestioni in grado di sradicarlo dal suo tempo.
Egli è in cerca di suggestioni: ciò che gli interessa è la natura cangiante e magmatica del sogno e nient’altro. Tuttavia, il raggiungimento di queste non lo appaga. Steiner come Corto (come Pratt) non è mai definitivo, non si accontenta del confortevole, ogni approdo è vissuto con inquietudine, ogni arrivo non è che l’incipit di una nuova partenza. Qualche volta capita che bisogna approdare ad un porto, certo, riprendere le forze, passare qualche notte in attesa di venti migliori, ma ciò che non mancherà mai è proprio l’inquietudine di un’imminente partenza, vera condizione necessaria per la libertà. La logica è proprio quella di un viaggio non organizzato, l’unico in grado di consentire davvero la scoperta di un qualcosa di nuovo, non ancora previsto e quindi assolutamente fantastico. La letteratura per Steiner sembra avere un imperativo categorico ben preciso, una sorta di dedizione assoluta nei confronti dei propri lettori che consiste nell’incessante stimolazione dell’immaginazione; bisogna scuoterla dal torpore cronico a cui la costringe la realtà di tutti i giorni, sorprenderla costantemente; bisogna raccontarle qualcosa di ‘nuovo’.
Raccontare il già noto non è un vero raccontare
L’origine stessa del racconto potrebbe rintracciarsi in un desiderio recondito di volere rendere noto all’Altro l’ignoto, cioè qualcosa che non si sa ancora. Quel qualcosa di magico e non convenzionale che colpì, oggi come allora, l’esistenza dei nostri antenati durante le loro vite di caccia e raccolta; eventi fantastici ed inconsueti che ebbero la capacità di far breccia nella loro immaginazione sconvolgendo la ripetitività delle loro azioni. Eventi degni di essere raccontanti, rielaborati e ”rivissuti” alla sera, dinanzi alla fiamma eloquente a di un fuoco notturno.
Il viaggio rimane l’immagine più efficace di tutto questo, l’idea di un movimento costante senza fine che sradica l’autore dalla terra ferma. Il movimento è sia fisico sia mentale, ambedue le componenti sono consustanziali ed intimamente legate, l’una fomenta e rinvigorisce l’altra, per questo il viaggio è una componente essenziale tanto nella biografia quanto nella scrittura di Steiner. Nel caso di ‘Passi silenziosi nel bosco’ non c’è eccezione che tenga. Anche qui, come altrove, l’autore ha attraversato quei paesaggi e luoghi magici prima di intagliarli con le sue parole. Come mi disse una volta lo stesso Steiner in una inconsumabile intervista:
…Solo in questo modo si riesce a descrivere l’odore del vento e il colore della polvere […] nella stessa maniera sarebbe difficile descrivere il rumore dei passi nelle notti veneziane senza aver vagabondato fino all’alba nelle zone più solitarie e meno frequentate dell’Arsenale o del Ghetto. Molte cose si possono immaginare, molte altre si possono ritrovare navigando in rete, ma seguire una storia prattiana nei luoghi dove si è svolta “realmente” aggiunge particolari e amplia un universo e consente, a volte, di entrare in un vero “straniamento”, un qualcosa che porta a vivere in maniera quasi reale le atmosfere disegnate o acquarellate.
L’artista
Gli acquerelli di Nicola Magrin seguono con lo sguardo il corso di un ruscello che s’insinua tra le feritoie della roccia e gli interstizi della pietra. L’acqua ha una vita propria, non la si può trattenere e l’artista ne segue gli andamenti, lasciandosi stupire dalle nuove traiettorie che essa decide arbitrariamente di segnare sulla carta. L’acqua è un segno vivo, dotato di volontà propria. La sensibilità di Magrin è in grado di accogliere anche il capriccio, anche il caso e di meravigliarsi di volta, in volta del suo atto poietico. Forse è questo ciò che deve fare l’artista, riuscire a comprendere il significato recondito che gli elementi vogliono comunicargli; non si tratta di imporre una propria volontà sulla materia, chi lo fa è preda e vittima di un’illusione, una volontà di potenza che non ha nulla a che vedere con il gesto creativo. Nei suoi acquerelli, nelle chiazze, nei colori e nelle tonalità fredde del ruscello e nei giochi di colore è il ‘caso’ a farla da padrone. Bisogna ‘inciampare’, come ha dichiarato l’artista stesso in una nostra recente intervista, poiché è proprio la caduta, e cioè parafrasando l’inconsueto, l’inaspettato e l’errore a produrre diversità e quindi sconvolgere la percezione.
Una distonia nella regolarità, una piega nella linearità dei nostri mondi assonnati. Il concetto è ‘adattarsi e far danzare l’acqua sporca sulla carta’ cercando di intuirne il corso senza anticipare, senza forzarne l’andatura. La sensazione, sfogliando le tavole eloquenti di quest’opera, è proprio quella di trovarsi in un regno acqueo ed evanescente, nessuna rigidità, nessuna imposizione, ma una continua disposizione ad ascoltare e accogliere l’imprevisto da cui può nascere l’intuizione di una forma o di una visione. La sua è una vera e propria poetica del ‘vago’ e dell’indefinito, forse la stessa ricercata da Hugo Pratt nei suoi ultimi lavori, in cui la linea del disegno si assottiglia, si affievolisce, diventa indistinta, fioca e quasi sparisce: anche in questo caso tutto nasce dalla disposizione ad accogliere, a far lavorare l’immaginazione, poiché minore è la presenza del tratto (del significante) e maggiore dovrà essere il lavoro dell’immaginazione (significato) per riempire i vuoti, accompagnare la linea, creare storie ed aggiungere elementi, dettagli. ‘Chi è vago è immaginoso’, affermava Leopardi, questa capacità di comunicare per immagini indefinite come i fanciulli. Questo è letteralmente assumere la prospettiva della Natura. Anche qui l’obiettivo è riavvicinarsi ad essa, ricongiungersi in un abbraccio con il Tutto.
La disponibilità a partire di nuovo
Ne è emersa a poco a poco una parola d’ordine essenziale per avvicinarsi sempre più all’intimo significato di queste pagine: ‘estraniamento’. Diventare estranei (anche a sé stessi), inconsueti, rifuggire il noto e il già conosciuto, in altre parole sradicarsi continuamente dalla propria condizione statica (e storica) di uomo ‘arrivato’; la disponibilità a perdere tutto ciò che si ha a portata di mano, tutto ciò che ci si è conquistati, per ritrovarlo altrove. L’archetipo del viaggio è riassuntivo di tutto questo ed è l’immagine perfetta dello spirito libero che naviga a bordo di una fregata, un legno in balia delle onde, che vive e si alimenta del caso (il vento), e del caso riesce a fare la propria ventura e possibilità. Nel sogno, vero regno della possibilità di tutte le possibilità, qual è la differenza tra un’immagine onirica e le parole evocate? Nessuna, la differenza si annienta e i limiti si dissolvono sotto la soglia della ragione, scomparendo nell’indefinito Altro. Questo sente colui che è disposto a rinunciare a sé stesso, chi è disponibile a morire e rinascere di continuo, a salpare ad ogni vento favorevole:
Quello che sentono
è il respiro del bosco
che sa trasmettere il sogno
che popola il sogno
che concede una nuova possibilità.
(Marco Steiner)
articolo di
Claudio O. Menafra