La libertà di essere complessi
Sfondo: Cracovia, i colori dell’autunno e la piazza del mercato piena di turisti. Il festival letterario dedicato allo scrittore Joseph Conrad, polacco di nascita, inglese per la letteratura, è uno dei maggiori eventi culturali del Paese. Quest’anno ha avuto l’onore di ospitare anche il premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk. La scrittrice dopo aver affermato di essere felice per il premio ottenuto, si è accorta di aver fatto un grosso errore: adesso le tocca capire e definire cos’è la felicità per l’essere umano.
Sempre a proposito di definizioni il giornalista Grzegorz Jankowicz, che come segno di riconoscimento porta un basco grigio, chiede all’ autrice nigeriana Chimamanda di darci una definizione del termine libertà. Chimamanda dopo qualche minuto di silenzio risponde: “Definition of Freedom? Don’t give a fuck”. L’ autrice di “Americanah”, romanzo in parte autobiografico pubblicato in Italia per la casa editrice Einaudi, ammette di avere un po’ di problemi con le definizioni. Non si sente a suo agio nei limiti della definizione e ogni definizione le sembra sbagliata. Dopo dieci minuti, ci ripensa e ha voglia di cambiarla. E quindi perché per l’autrice, che a 14 anni scopre di essere femminista, essere liberi significa anche fottersene? Ci racconta della sua esperienza nel Campus di Harvard, dove porta avanti la sua carriera accademica.
“single story”
Alcuni studenti le confessano che molte volte hanno paura di parlare, hanno paura di dire la propria opinione. In molte democrazie di facciata, ci spiega la story-teller, la libertà non ci viene tolta, siamo liberi ma desideriamo conformarci sempre di più all’ideologia dominante. Nelle università per esempio domina l’ideologia di sinistra e quindi questi studenti per non essere tacciati di banalità e di essere conformi al sistema evitano di esprimere la propria opinione. Ognuno di noi desidera conformarsi a ciò che Chimamanda chiama “single story”, raccontata per lo più dai media. In quanto scrittrice, e quindi story-teller, Chimamanda è interessata alla complessità della realtà, alla capacità di raccontare le emozioni che sente l’essere umano.
E l’essere umano non è semplice, regolare, ma è “messy”, complesso e confuso. Ecco perché è necessario introdurre in ogni discorso culturale e politico più storie, più prospettive differenti. Chimamanda si è accorta di essere nera soltanto quando è arrivata negli Stati Uniti. La sua coinquilina nel college americano si è accorta che la lingua ufficiale della Nigeria è l’inglese soltanto quando ha capito di essere compresa anche senza parlare a gesti. La nostra visione del mondo è limitata, c’è sempre un “over there” che pensiamo assolutamente migliore o peggiore, che tendiamo ad idealizzare. L’ “over there” di Chimamanda erano gli Stati Uniti, erano l’Occidente che aveva letto nei libri e visto in Tv.
Decostruire prospettive
Arrivata negli Usa si è accorta che quell’oltre non era poi così splendente e brillante come appariva in Tv. Si è accorta degli innumerevoli stereotipi che gli americani avevano sull’ Africa, un continente fatto solo di povertà, bimbi che muoiono, savana e safari. E si è accorta anche degli stereotipi che lei stessa aveva sugli shining USA. Ma l’autrice si chiede: “Come fa un americano ad immaginare l’Africa in modo diverso, se l’immagine veicolata dai media è sempre la stessa? Ecco che bisogna raccontare più storie che completino l’immagine di un continente estremamente vario.” Anche Chimamanda ammette di avere la sua “single story” sulla Polonia, una storia che si ferma al 1945, una storia che si ferma alla seconda guerra mondiale e all’olocausto. Una storia statica e immobile, come se la Polonia non fosse andata avanti, fosse rimasta ferma a mezzo secolo fa.
Adesso, ospite per la prima volta in Polonia, può decostruire la sua prospettiva a binario unico e cercare di aggiungere più storie alla storia dell’olocausto. Dalla Nigeria, passando per gli stai Uniti, con una breve sosta in Polonia, a dorso di un elefante ci giunge un invito alla complessità.