Francesco Boille, giornalista de L’Internazionale, critico di cinema ed esperto di fumetto racconta Hugo Pratt
Il fumetto è una forma d’arte duttile e difficilmente incasellabile, poiché mescola linguaggi e generi raggiungendo risultati inaspettati. Durante la giornata organizzata da Serendipity dedicata a uno dei più importanti autori del fumetto, Hugo Pratt, si è portato il fumetto tra le aule dell’università La Sapienza di Roma. Raccontare di uno dei maestri del fumetto italiano e internazionale in un contesto accademico ha mostrato come questa forma d’arte relativamente giovane sia in realtà in costante dialogo con le sue sorelle quali la poesia, il romanzo, la pittura.
Cosa ti lega a Hugo Pratt e ai suoi fumetti?
Un infinità di cose. Ho scoperto Pratt proprio con la Ballata e all’inizio dell’adolescenza. Mi ha fatto scoprire l’incanto, la contemplazione per il bel disegno, quindi per l’arte, insieme a quella per i luoghi, i paesaggi. Mi ha fatto capire che la grande arte o il grande disegno può passare anche da disegni minimali. Mi ha fatto capire e amare l’astrazione e suscitato una forte attrazione per l’infinito nel finito dei paesaggi del pianeta. Per la bellezza e l’intensità dei volti e dei tratti somatici delle popolazioni indigene e a non dare alcuna importanza all’apparenza: bei vestiti firmati, buoni o cattivi odori, ecc. Pratt è un autore eminentemente formativo su innumerevoli aspetti e penso che andrebbe studiato a scuola.
Nel tuo intervento durante la giornata “Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt” racconti de “La Ballata del mare salato” e in generale dell’opera di Pratt come un addio alla bellezza, all’epica, alla poesia. Escondida diviene metafora dell’ultimo luogo dove alberga la bellezza, che infine viene violata. Secondo te questo vuol dire che la bellezza della poesia e l’epica sono qualcosa di finito? Qualcosa che nel mondo contemporaneo non esiste più?
È una questione molto complessa. Soprattutto per un intervista. Ne ho trattato a lungo in un saggio ora in uscita in Francia per l’editore Gallimard e avrei potuto parlarne più a lungo ancora. Comunque, ritengo che Pratt fin dalla Ballata – ma una forma di languore è già presente in Fort Wheeling – abbia percepito e messo in scena la fine di un certo modo di intendere il mondo, di vederlo, guardarlo e sentirlo, della cultura romantica in senso ampio. E che la sua opera sia il teatro di uno scontro tra una cultura della modernità asettica, forse anche postmodernità, e la cultura romantica del settecento e ottocento. E primo Novecento. Questo lo si ravvisa praticamente in tutte le opere di Pratt autore completo, dalle storie di Corto Maltese, a quelle, straordinarie e profondissime, per la collana Un uomo un’avventura della Bonelli, a tante storie di guerra, tra cui il capolavoro su Saint Exupéry, e soprattutto il ciclo degli Scorpioni del Deserto, in modo particolare le prime tre storie. Come ha messo in evidenza a suo tempo lo scrittore Oreste del Buono, Corto Maltese è ancora figlio della cultura romantica, è ancora figlio dell’Ottocento, cultura che si spegnerà tra la fine della prima guerra mondiale – che, lo ricordo, nelle assolate e tranquille isole del Pacifico fa da sfondo (e rombo, tuono persistente) alla Ballata – e seconda guerra mondiale. In effetti il capitano Koinsky ha un cinismo, almeno nelle prime tre storie, che è quello della modernità. Penso, dal canto mio, che quello di Corto sia un cinismo soft, che pur preannunciando forse quello più hard di Koinsky ( e Gesuita Joe), si risolve in un’ironia sostanzialmente gentile, espressione di chi è ancora un cavaliere idealista, ma non vuole darlo a vedere, perché come strutturalmente allergico alla retorica. Comunque, Pratt preannuncia anche la crisi o la fine dell’immaginario e delle sue mitologie, nel fumetto e nel cinema. C’è già qualcosa di questo nell’opera più matura di cineasti come Sergio Leone e Sam Peckinpah.
Ma che poi deflagrerà nei trent’anni successivi, nel fumetto in particolare con la rivisitazione dei supereroi in chiave psicopatica, nel cinema, oltre al western, quella sostanziale del gangster movie, e soprattutto del noir, quasi scomparso. Come critico cinematografico trovo che sia nel cinema di Martin Scorsese che questa cesura, questa fine del romanticismo e delle mitologie, o di ogni “ingenuità”, sia detto tra virgolette, del sogno americano, malgrado la sua crudeltà, sia più evidente. Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990), immerso in una luce vivida, solare, è ancora pieno di energia nel guardare con affetto quasi alla follia psicopatica, ma gioiosa e spensierata in qualche modo, dei gangster Italo-americani.
Non si riesce quasi più a sognare in maniera profonda con i classici generi cinematografici. Anche nei casi migliori, al di là che anche numericamente i titoli sono molto di meno rispetto al passato, sono sempre dei simulacri rispetto a quanto fatto per decenni a Hollywood prima, e con la New Hollywood degli anni sessanta-settanta, poi. Casinò (1995), immerso in una luce scura, tetra quasi, tutto girato dall’alto, con uno sguardo distaccato, se non da entomologo, inizia con un’esplosione – con la quale ci viene detto fin dall’inizio che tutto è (già) finito – e risale poi all’indietro di questo inizio della fine. E il finale, con un De Niro stanco e sconsolato, che commenta “E questo è quanto”, nella sua mestizia non ha nulla della grandezza epica del passato di questi film. C’è solo un grigiore indefinito. Un’opera di grande poesia, impressionistica ma di notevole intensità, di memoria quasi proustiana di un mondo ormai fatto di vestigia della grandezza che fu, è 5 il numero perfetto di Igort. Un capolavoro assoluto che ci ha riservato il fumetto degli anni duemila e che arriva ora trasposto al cinema dal suo stesso autore. Staremo a vedere come. Pratt, già nel suo primo ciclo di racconti brevi, quelli di Anna nella giungla – come ho cercato di evidenziare in un saggio pubblicato nello scorso gennaio sul sito di Fumettologica e ampliato per il catalogo edito dalle edizioni Comicon in occasione dell’esposizione inaugurata a fine aprile al Museo Archeologico di Napoli –, parlando, per primo, di stanchezza del colonialismo comincia anche a parlare di stanchezza dell’immaginario avventuroso coloniale…
Pratt nelle sue opere mostra un’incredibile sensibilità postcoloniale ritraendo personaggi non europei in modo concreto, non stereotipato e non racchiuso negli schemi dell’ideologia razzista e coloniale che li vuole inferiori e passivi. Personaggi come Kush, Tarao o Cranio sono forti, indipendenti e spesso e volentieri salvano i bianchi. Secondo te questi personaggi in che modo possono parlare alla nostra contemporaneità?
Ecco, appunto, quanto abbozzato in Anna nella giungla, si concretizza grandemente nella Ballata. Anche se poi non avesse fatto i racconti brevi di Corto, tra cui quelli africani con Cush, e poi tutti gli altri romanzi lunghi con Corto, quanto fatto in quell’opera, in quel singolo romanzo a fumetti, basterebbe per metterlo nella categoria dei grandi, di coloro che creano in un mezzo d’espressione delle opere spartiacque, un po’ come quegli scrittori che passano alla storia della letteratura come dei grandi, pur avendo scritto uno o due libri. Ed è grande anche perché Tarao, Cranio, Cush ci sembrano molto moderni, anticonformisti e autentici pur essendo anche legati alla tradizione, ma senza esserne malati. E stravolgendo gli stereotipi che abbiamo su di loro. Soprattutto Cush, che potrebbe sembrare un fondamentalista, o un predone, mentre invece è come Corto un individualista ironico, che non vuole dare l’impressione di esserlo, ma che non dimentica le battaglie della sua gente e gli orrori del colonialismo. Particolarmente vero quando, nel secondo episodio degli Scorpioni, uccide all’improvviso Stella, il “simpaticissimo” tenente fascista. Proprio perché “simpatico”, sentenzia Cush, era il più pericoloso di tutti. Era infatti stato lui ad aver compiuto una terribile strage di conterranei di Cush, per inseguire la sua avidità seppur ammantata da una forma di romanticismo. Eppure, nessun dubbio che fino a quando non arrivò il colpo secco di Cush, le più grandi simpatie dei lettori della rivista “comunista” Linus, dove il racconto venne prepubblicato nel 1976, andassero al fascista Stella. Vero esempio del genio diabolico e un po’ perfido di un Pratt!
“Perché la poesia è sintetica e procede per immagini. Quando leggo, queste immagini le vedo, le sento epidermicamente. Dietro la poesia si nasconde una ” profondità che capto quasi istantaneamente”. Partendo da queste parole di Pratt, potremmo dire che la connessione più forte della sua opera con la poesia è data dai silenzi? Questi ultimi esprimono, tramite vignette mute, la prosodia dei versi; a tuo avviso possiamo dire che i silenzi a livello semiotico convogliano il ritmo, fluido come il mare, che caratterizza la narrazione?
Bellissima e giustissima citazione di Pratt. Per lui la poesia era l’arte suprema, benché non amasse granché le gerarchie. L’inizio di quella citazione, però, va ricordato che lui la legava al fumetto. Cioè il fumetto, come la poesia, è sintetico e procede per immagini. È strutturalmente così, come linguaggio. Poi dipende dal talento del singolo autore che questa poesia sia più o meno grande. E questo è importante, tanto più che Pratt era un alfiere, come il suo maestro Milton Caniff, del concetto di disegno-scrittura – storicamente così importante nella storia del fumetto, basti pensare ai Peanuts di Schulz –, e nel suo senso calligrafico più strettamente orientale, un approccio che peraltro ha influenzato non poca pittura moderna, basti pensare a Matisse. Ciò significa che nel fumetto questa poesia sintetica per immagini è in gran parte dovuta alla qualità del disegno, al segno grafico, perfino ai suoi singoli movimenti, ai suoi volteggi, di cui Pratt era maestro.
Di conseguenza i silenzi, quei straordinari silenzi che Pratt è il primo in assoluto ad inserire nel fumetto, sono così forti, espressivi, “poetici”, prima di tutto per la qualità del suo disegno, e non soltanto per il découpage o montaggio dell’architettura della tavola. Se fosse stato un altro disegnatore a farli, anche con la stessa “regia”, non sarebbe stato la stessa cosa epocale. In Francia gira un celebre esempio, in questo senso: Goscinny, il talentuoso sceneggiatore di Asterix e Lucky Luke, scrisse una volta lo script di una tavola a fumetti western. E la diede a due disegnatori opposti, ma entrambi specialisti dell’ambientazione western. Uno era Morris, disegnatore tra l’umoristico e il caricaturale proprio di Lucky Luke. L’altro era Jean Giraud, futuro Moebius, disegnatore che ha innovato moltissimo nel realismo western con la saga di grande successo del tenente Blueberry, sceneggiata da Jean-Michel Charlier. Stesse inquadrature, stessi dialoghi, eppure due interpretazioni grafiche opposte e due letture antitetiche, lampanti per ogni lettore. Due “sapori” molto diversi. Per rispondere alle vostre domanda, quindi si, i silenzi effettivamente convogliano il ritmo, fluido come il mare, come dite con splendida formula, si deve considerare la parte visiva nella sua totalità. Apparizione dei silenzi all’interno della tavola, tagli delle inquadrature, qualità del segno grafico nella visualizzazione.
Parlando dell’ambientazione delle opere di Pratt, potremmo dire che l’autore per ritrovare la poesia perduta dall’uomo moderno isola i mondi in cui si svolgono le vicende di Corto estraniando così i suoi personaggi dalla banalità del contesto urbano e andando a scavare in un uomo archetipico?
Senza dubbio. Ma è tutto molto complesso è sfaccettato, mai univoco, in Pratt. Per esempio la quantità di personaggi assimilabili alla follia è continua, molto ampia. Ed hanno, anche costoro, una connotazione più o meno archetipica, ma al tempo stesso sono molto moderni, anche quando giocano appoggiandosi alla commedia dell’arte, primo tra tutti Rasputin. Si pensi per esempio al personaggio di Gesuita Joe. Per ammissione dello stesso Pratt potrebbe essere tranquillamente un personaggio delle nostre periferie asettiche suburbane che ottundono pedantemente l’empatia tra esseri umani fino talvolta ad annichilirla del tutto diventando così luoghi di risentimento e frustrazione strutturali. La rabbia fredda di Gesuita Joe, la più disumana mai rappresentata da Pratt, è quella di un bastian contrario e psicopatico insieme, anaffettivo e sovvertitore, frutto di un’educazione deviata o comunque di un ambiente deviato.
Cosa pensi di Corto Maltese, è forse l’unico dei personaggi che nelle vicende de “La Ballata del mare salato” non mostra un’evoluzione psicologica? Cain, Pandora, Tarao, persino Rasputin cambiano nel corso della storia, mentre Corto è come se restasse lo stesso personaggio dall’inizio alla fine. Credi che questa sia una scelta che limiti l’espressività de La Ballata? Oppure ne libera le potenzialità?
In realtà anche Corto cambia nel corso della Ballata, si addolcisce e diventa sempre meno cinico e si implica agli altri. È lui il trait d’union tra la maturazione dei due ragazzi, Slutter e gli indigeni. Gli altri bianchi, Il Monaco, Rasputin, sono pazzi. Inoltre, cambia anche dopo e diventa molte altre cose, sempre più idealista ma senza volerlo ammettere, come gli dice affettuosamente Bocca Dorata. Un fiancheggiatore dei rivoluzionari pur inseguendo formalmente sempre un nuovo tesoro. Poi dopo, da Sirat, diventa sempre più dolce, onirico, quasi evanescente come il segno prattiano, un sognante e quasi sonnambulo deambulatore in un mondo immerso nella magia dei segni nascosti, che dietro l’esoterismo celano in realtà poesia, interiorità.
Un commento su “Labilità tra confini dell’opera prattiana: intervista a Francesco Boille”