La continua ricerca di una suggestione che possa permetterci di entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose, Marco Steiner racconta Corto
In occasione della conferenza Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt, tenutasi in Sapienza nell’edificio di Ex poste il 19 giugno scorso, la redazione di The Serendipity Periodical ha avuto la possibilità di rivolgere delle domande ad alcune delle personalità che si sono susseguite con i loro interventi durante il convegno; tra queste, la figura di Marco Steiner, un nome che già di per sé varrebbe un intero viaggio fatto di avventure, magia e terre remote emerse dall’immaginario, alla ricerca forse di una suggestione che irrompa bruscamente nella linearità del già costruito impostoci dal reale. Andiamo allora facendo rotta verso l’immaginario letterario di Steiner, ed andiamocene così, tanto per andare..
Quando Dio creò tutte le creature, chiese poi all’uomo di dare un nome ad ognuna di esse, oltre che a se stesso. Le immagini bibliche hanno da sempre suggerito il fatto che il nome sia un qualcosa di più di una semplice etichetta per denominare e facilitare l’identificazione di un qualcosa a qualcuno; il nome rappresenta l’identità e l’essenza degli esseri viventi. Lo stesso principio credo sia valido anche per lo pseudonimo di un autore, che ne anticipa, in un certo senso, la sua arte, si può dire lo stesso del tuo?
Il mio pseudonimo l’ha inventato Hugo Pratt quando abbiamo iniziato a parlare insieme di un mio sogno: iniziare a scrivere seriamente.
- Hugo, ma posso scrivere storie di viaggio e avventura con il mio nome vero, Gianluigi Gasparini? Secondo me non funziona.
- Forse bisognerebbe trovare uno pseudonimo.
- Inventemolo…
- Quali sono i personaggi della letteratura a cui sei sempre stato legato?
- Marlowe il detective di Raymond Chandler e Corto Maltese.
- Ben, alora ti sarà Mar-Co da loro due.
- E il tuo scrittore preferito?
- John Steinbeck, su questo non ho dubbi, Hugo.
- Alora, visto che ti xe furlan, ti saràSteiner, uno Steinbeck mitteleuropeo, così la gente non capisce se sei tedesco, svizzero, ebreo, italiano e poi è breve, funzionerà…
- In effetti in questo pseudonimo ci sono la mie due passioni letterarie, l’avventura e il noir americano.
In quali circostanze hai conosciuto Pratt e in che modo successivamente ha contribuito alla tua produzione artistica?
L’ho conosciuto diventando per caso il suo dentista, abbiamo iniziato a parlare di viaggi, di musica, di cinema di tante altre cose meno che di denti. Poi scherzando mi chiese di fargli i denti d’acciaio come Squalo, un cattivo della serie dei film di 007 con James Bond, mi ha anche disegnato come avrebbe voluto che fosse il suo sorriso. Da quel momento ho iniziato a lasciare progressivamente il mio lavoro per diventare un suo “ragazzo di bottega”, andavo a cercare i libri che gli servivano, le carte geografiche, cercavo i colori giusti delle bandiere, dei gagliardetti, delle mostrine dei vari reparti militari, oppure le piante che crescevano in determinati territori, parlavamo di storie strampalate e di fatti reali. Poi ho iniziato a diventare il suo autista, nel frattempo ho visto centinaia di film con lui nelle più disparate lingue e agli orari più improbabili.
Un giorno, mentre facevamo un lungo viaggio in macchina mi ha chiesto di collaborare con lui e così ho iniziato scrivendo un articolo giornalistico su una teoria che riguardava i continenti scomparsi di Atlantide, Mū e Lemuria, era la teoria del colonnello Churchward, poi dopo altro tempo mi ha fatto lavorare intensamente a un libro a cui teneva molto, “Avevo un appuntamento” delle Edizioni Socrates. Pratt era appena rientrato da un lungo viaggio nel Pacifico alla ricerca dei suoi sogni giovanili a partire da un omaggio laico che aveva voluto rendere alla tomba di R. L. Stevenson ad Apia nelle Samoa. Facevamo lunghe passeggiate e lui mi raccontava le storie del veliero Yankee oppure mi parlava di “Pioggia” un romanzo di Somerset Maugham e di Emma Coe che aveva creato un suo impero nel Pacifico con il commercio della copra. Insomma mi raccontava i suoi sogni dei sui Mari del Sud e mi diceva di cercare e integrare quei ricordi con storie vere e immagini che sarebbero dovute scaturire da “tutte quelle isole che erano disseminate nell’Oceano come punti di sospensione messi lì solo per far immaginare e per continuare altre storie…” Queste furono le parole che innescarono la reale ricerca del sogno che avevo coltivato da sempre e quello fu il vero inizio di Marco Steiner scrittore.
Sono ormai passati anni sia dalla morte di Hugo Pratt, sia dalle ultime avventure esotiche di Corto Maltese; ma soprattutto è passato del tempo dalla pubblicazione di un romanzo prattiano rimasto incompiuto dal titolo Corte sconta detta Arcana; tu hai avuto il compito di terminare questo incompiuto prattiano; ecco vorrei entrare per un attimo nel tuo laboratorio di scrittore e capire in particolare cosa significa fare letteratura a partire da un tracciato diegetico-narrativo già iniziato e che tipo di ricadute ha sull’impegno intellettuale
La nostra collaborazione letteraria era iniziata già con la “Ballata del mare salato” nella versione romanzo edita da Einaudi. Questo può essere un buon inizio per parlare di questo argomento. Pratt mi fece notare che un romanzo non sarebbe potuto iniziare come nel fumetto con l’Oceano Pacifico che parla delle sue furie e di velieri distrutti e con il ritrovamento da parte di Rasputin sul suo catamarano figiani di un Corto Maltese barbuto e legato in croce su una zattera improvvisata.
In una delle nostre passeggiate mi guardò negli occhi come solo lui sapeva fare e mi domandò:
- Cosa ti succede quando resti legato per ore e ore in mezzo al mare?
- Sei disidratato, Hugo, le onde continuano a sbatterti addosso, hai la pelle incrostata, le labbra spaccate e gli occhi semichiusi per i cristalli di sale fra le ciglia.
- Perfetto! Allora possiamo immaginare che attraverso i cristalli di sale, i riflessi del sole creino degli abbagli, delle allucinazioni e che quelle mettano in moto dei ricordi…
- E poi aggiunse:
- Potremmo immaginare che Corto in quel momento così vicino all’abbandono o forse alla morte, si riveda ragazzino, nella luce abbagliante della sua gioventù a Cordoba. Prova a pensare a una situazione del genere, buttami giù qualcosa.
È così che ho iniziato a pensare e ad abbozzare il primo capitolo, poi abbiamo continuato insieme, serviva un contesto storico che spiegasse meglio i motivi della presenza di un sottomarino tedesco nelle lontane isole del Pacifico e così via. La stessa cosa e a maggior ragione, visto che Pratt non c’era più, è successa con Corte Sconta detta Arcana. Questa è una storia complessa e bisognava raccontare in maniera più approfondita certe situazioni storiche e delineare meglio personaggi del calibro del barone Roman von Ungern-Sternberg il comandante della Cavalleria Selvaggia. Sapevo bene dove trovare i libri di Ossendorwski come “Uomini, Bestie e dei” oppure quelli di Joseph Kessel e di tanti altri. Serve tanta ricerca, sempre, sia nel disegno che nella descrizione letteraria. Le fonti originali sono fondamentali per l’ossatura portante della storia. “Divertirsi seriamente” è l’insegnamento fondamentale che mi ha regalato Hugo Pratt.
In una pagina a fumetti Pratt disegnava una carica di cavalleria dove i movimenti dei cavalli, le armi dei cavalieri, i simboli delle bandiere, il terreno dove avveniva lo scontro erano illustrati con tecnica perfetta e con precisione di dettagli, nella stessa situazione raccontata in un romanzo, non si può descrivere e far sentire alla stessa maniera il movimento, ma ci saranno i rumori, gli odori del sudore dei cavalli, della terra, del fango o della neve alzata dagli zoccoli e poi le grida e il clangore del metallo delle spade e le esplosioni dei colpi di fucile. Scrivere e disegnare sono due mondi bellissimi che hanno tempi diversi, la lettura di una pagina disegnata Pratt riempie lo sguardo con un colpo d’occhio fulminante, quella di una pagina scritta e tratta dalla stessa situazione ha bisogno di un progressivo ingresso in quell’atmosfera, le parole dovrebbero lentamente riempire l’immaginazione.
È una piccola grande magia, è una tecnica diversa, a volte è possibile.
È curioso come tutti i tuoi romanzi abbiano come protagonista la giovinezza di Corto Maltese; di solito si preferisce continuare le storie già iniziate: a nessuno verrebbe mai in mente l’idea di scrivere sulla Bildung di Ulisse, mentre molti sono stati quelli che hanno immaginato una possibile prosecuzione delle sue avventure dopo il suo rientro ad Itaca. Nulla ti avrebbe vietato, nel nostro caso, di esplorare le vicende di Corto dopo l’ufficiale uscita di scena avvenuta intorno al 1926-27. Come mai questa decisione?
Dopo aver conosciuto abbastanza a lungo Hugo Pratt e il suo metodo di creazione delle storie, dopo aver tanto viaggiato sugli Itinerari di Corto Maltese, un personaggio che non esiste nella realtà, e aver cercato in giro per il mondo suggestioni del suo non-passaggio cento anni dopo, mi sembrava banale e non corretto “continuare” le sue storie. Hugo Pratt mi aveva sempre stimolato a “inventare” qualcosa di nuovo. Ha iniziato inventando con il mio nome, poi mi ha concesso di collaborare al suo fianco, in pratica mi ha invitato nel grande immaginario avventuroso che aveva sempre fatto parte del mio carattere, a quel punto, anche se più impegnativo e rischioso, sarebbe stato molto più stimolante e rispettoso provare a immaginare una giovinezza di Corto Maltese prima che diventasse il personaggio che Hugo Pratt ci ha fatto conoscere. Questo è stato il senso della mia grande avventura lungo gli itinerari di Corto. In fondo avevo iniziato immaginando insieme al mio Maestro il primo capitolo della Ballata con quel ragazzino che vaga nei vicoli assolati di Cordoba fra il profumo delle arance e quello dei gerani, mentre insegue una musica di flamenco intensa e malinconica.
Forse Pratt mi ha aiutato a entrare nella mente di quel ragazzino, era naturale continuare da quel momento. Sapevo da Hugo Pratt che il padre di Corto era un marinaio della Cornovaglia e che sua madre era una gitana andalusa amante di oroscopi e tarocchi, a quel punto ho provato a immaginare chi potessero essere gli amici da incontrare lungo la strada, mi serviva un marinaio esperto che gli insegnasse a navigare ed è nato il comandante Robart Kee e poi ho cercato di immaginare una serie di situazioni che iniziassero a forgiare il suo carattere. In fondo non mi sembrava corretto navigare nella stessa barca di Corto Maltese, sarebbe stato bellissimo viaggiare in vista del suo veliero e magari incontrarlo in qualche porto per parlare di tesori, di avventure o per restare insieme in silenzio a gustare un buon rum. È un buon amico Corto Maltese, ma ha bisogno di spazio.
Per scrivere i tuoi romanzi sulla gioventù di Corto hai dovuto viaggiare molto, ripercorrendo fisicamente gli itinerari ed i luoghi reali attraversati da un personaggio immaginario a distanza di quasi cent’anni dal suo fittizio passaggio; il connubio tra realtà ed immaginazione diventa quasi uno strumento propedeutico alla scrittura? Il viaggio mentale, da solo, non è sufficiente allora?
I miei viaggi nei luoghi reali delle avventure immaginarie di Corto Maltese mi hanno dato modo di seguire una specie di scia, solo dopo aver attraversato la Manciuria e la Mongolia si riesce a descrivere l’odore del vento e il colore della polvere di quelle piste; nella stessa maniera sarebbe difficile descrivere il rumore dei passi nelle notti veneziane senza aver vagabondato fino all’alba nelle zone più solitarie e meno frequentate dell’Arsenale o del Ghetto. Molte cose si possono immaginare, molte altre si possono ritrovare navigando in rete, ma seguire una storia prattiana nei luoghi dove si è svolta “realmente” aggiunge particolari e amplia un universo e consente, a volte, di entrare in un vero “straniamento”, un qualcosa che porta a vivere in maniera quasi reale le atmosfere disegnate o acquarellate. Ho provato a viaggiare in cerca del ricordo di qualcuno che non è mai esistito se non nella fantasia di un grande artista e queste derive, questi vagabondaggi non hanno solo formato la mia scrittura, ma anche il mio modo di vedere le cose. Lungo la strada, il viaggio mentale può intraprendere direzioni difficili da immaginare, è come entrare e vivere in un miraggio, i passi sono più leggeri e i profumi più intensi.
Hai spesso fatto riferimento, durante il tuo intervento alla conferenza Gli Orizzonti aperti di Hugo Pratt, alla letteratura prattiana come tentativo di produrre uno sradicamento del lettore dalla propria comfort zone culturale (to be uprooted); una letteratura che se ben accolta produce un distacco traumatico dal proprio mondo di preconcetti ed aspettative per incontrare il nuovo e l’inaspettato. Credi sia questo il compito costante della letteratura, cioè rinnovare le nostre sovrastrutture culturali? Aiutarci a dare sempre nuove prospettive ad un mondo storicamente pre-costruito?
La letteratura che amo è quella che racconta qualcosa che non conosco, quella che tende a superare la descrizione oggettiva. Non ho mai amato la letteratura d’intrattenimento, anche quella realizzata nella maniera migliore, ho sempre amato il fantastico e l’avventura perché racconta, come dice la parola stessa, l’advenirecioè quel qualcosa che non è ancora accaduto. Amo i viaggi non preorganizzati, quelli che non hanno una destinazione precisa perché consentono la scoperta, nella letteratura seguo lo stesso principio, penso a una storia possibile e poi inizio senza impostare rigidi cardini allo sviluppo della storia, quello che provo a immaginare subito è invece un buon finale. Il compito della letteratura credo sia quello di stimolare l’immaginazione, di scuotere dal torpore, di istigare alla curiosità, di sorprendere oppure di infilare il dito nella piaga delle problematiche di questo nostro mondo come fa “La strada” di Cormac McCarthy. Non ho mai amato i libri “carini”, i libri da spiaggia, i libri che una volta letti finiscono in uno scaffale e si dimenticano per sempre. Mi piacciono i libri da rileggere una seconda o una terza volta, non iniziando dall’inizio alla fine, ma leggendo a caso, per pescare qualcosa nel flusso delle parole. Ho un debito nei confronti di tutti quegli scrittori che hanno aperto il mio immaginario cambiandomi la vita, per questo cerco modestamente di restituire qualcosa.
Nell’economia di una storia, qual è il senso di proporsi un obiettivo, un telosdi ricerca anche se fittizio ed in fondo scarsamente rilevante? Il fantomatico tesoro, sempre anelato ma mai raggiunto, nelle vicende di Corto, è una semplice molla diegetica che produce intreccio oppure è indice di una condizione umana, quella di dove innestare per forza un orizzonte di senso nel vagabondare senza senso della vita?
Il senso è quello di partire e di muoversi, fisicamente, ma soprattutto intellettualmente, di non arenarsi in un porto sicuro e stantio, ma questo non vuol dire vagabondare senza senso, anzi al contrario, vagabondare serve a cercare un senso. L’inquietudine porta alla ricerca e la curiosità arriva nel corso del viaggio con gli incontri. Il “tesoro” potrebbe essere proprio il desiderio di non fermarsi per continuare a cercare.
In più battute hai definito Corto come un apritore di porte, che è in grado di generare incessantemente nuovi percorsi a partire da quelli già noti; è forse questa la grandezza di quei personaggi letterari che fanno ormai parte del nostro pantheon immaginario? La loro costante disponibilità ad imbarcarsi in sempre nuove storie; Ulisse ormai giunto nella sua comfort zone di Itaca è una sconfitta per la letteratura?
Il ritorno non è una sconfitta, ma l’inquietudine del viaggio e le derive necessarie per una vera ricerca, che non sia la spasmodica tensione al raggiungimento di un luogo o di un limite, sono la condizione necessaria per la vera libertà di movimento e questo deriva da un desiderio fisico e mentale, ma anche da una sorta di tentativo di percezione ulteriore: di fronte a due strade qual è il motivo che ci spinge a sceglierne una? Probabilmente non c’è, ma a volte capita che il superamento di un ostacolo o di un imprevisto casuale ci guidi verso qualcosa che non stavamo cercando e che diventa il vero “regalo del viaggio”, un incontro, un paesaggio, una luce, una musica, un qualcosa che non avremmo mai trovato lungo l’itinerario tranquillo e pianificato. Credo molto nelle sincronicità, negli appuntamenti apparentemente casuali. Un certo tipo di letteratura, un certo tipo di personaggi riescono a trasportarci fra le righe verso un piacevole e inatteso incanto. Posso dire senz’altro che viaggiando alla ricerca di Corto ho imparato a viaggiare non solo con le gambe ma anche con l’immaginazione ed è tutto un altro viaggiare. Corto Maltese, un archetipo dell’avventura, mi ha portato in un certo modo alla poesia e alla filosofia, forse il senso dell’evoluzione dell’intera opera di Pratt sta tutto in questa estrema sintesi: dalla Ballata e dalle storie caraibiche fino a Mū, c’è un lungo percorso di sottrazione progressiva. Dopo le ballate nell’oceano pacifico, oltre le sabbie di Samarcanda e la neve di Siberia e Manciuria, dopo il tango e i concerti per arpa e nitroglicerina si arriva alla musica del silenzio di Mū, il pianeta perduto e il disegno e i testi delle storie diventano progressivamente sempre più rarefatti.
Nel tuo recente progetto Itinerari di Viaggio, accompagnato dall’obiettivo scrutatore di Marco D’anna, hai cercato ancora una volta, come nel fumetto di Pratt, la contaminazione reciproca tra supporto visivo e scrittura; come interagiscono tra di loro nella narrazione immagini e parole, percezione e memoria?
Ho sempre letto storie che mi hanno aperto l’immaginazione e amato la fotografia e il cinema che mi hanno regalato suggestioni, sogni, emozioni profonde o sorrisi. Leggere, guardare, viaggiare e allo stesso tempo pensare e collegare quel determinato momento con altre situazioni legate alla memoria o alla fantasia è come entrare in un mondo diverso, toccare un’atmosfera in evoluzione, scendere nel profondo delle cose. Viaggiare con un fotografo regala la modulazione del tempo: una determinata immagine ha bisogno di una ricerca che vuol dire attesa, per un cambio di luce, un gioco di regolazione fra la velocità nel focalizzare l’attenzione su un determinato soggetto oppure la grande apertura del diaframma per dare spazio a tutto il paesaggio. Sfuocare o centrare, cogliere l’attimo o descrivere la scena, o ancora, regalare una suggestione impalpabile?
Le nuvole di un temporale portano un cambio di luce nell’immagine che stiamo vedendo, la pioggia probabilmente ci bagnerà o ci bloccherà nel fango o in un luogo protetto, ma dopo la pioggia, dopo quel cambio di luce arriverà il profumo dell’erba bagnata e quello della terra e i rumori saranno diversi. Quello che stiamo vedendo cambia continuamente, il restare fermi in attesa della fine di un temporale ci consente di vagare mentalmente pensando a qualcosa: ricordare una scena di “Rain” di Somerset Maughan o una sequenza del film con Rita Hayworth, oppure ci ritorna in mente quel lontano acquazzone che ci ha inzuppati in una città sconosciuta abbracciati a qualcuno che avevamo quasi dimenticato. Viaggiare seguendo una storia di Corto ci costringe a cercare qualcosa che non esiste, ma ci obbliga a tendere lo sguardo e l’attenzione per superare quel labile confine che c’è fra la vista e la visione, fra l’osservazione e l’immaginazione, oscillare fra presente, sogno e memoria.
In fondo questo tipo di atteggiamento è un ulteriore prolungamento del viaggio: il movimento fisico ci ha condotti in un luogo, il movimento mentale ci aiuterà a superare i confini del tempo e dello spazio portandoci in una dimensione diversa, una dimensione perfetta per raccontare e inventare oppure per fare come fa certe volte Corto Maltese, fermarci in una veranda a guardare il mare per gustare semplicemente il nulla o i racconti del vento fra le palme.
Se dovessi tracciare una costellazione di autori che maggiormente ti hanno influenzato e continuano ad aprire porte nella tua scrittura, quali citeresti?
Inizio con Emilio Salgari e con Stevenson perché sono loro che hanno aperto per primi il mio immaginario, Jack London mi ha fatto iniziare i viaggi mentali con uno dei miei libri preferiti “Il vagabondo delle stelle”, Conrad mi ha portato nelle zone di confine fra luce e ombra con “Cuore di Tenebra”, poi sono arrivati i sudamericani: Coloane, Soriano, Arlt e Borges. Ho già parlato del mondo dei vagabondi di John Steinbeck e dell’asciutta ironia di Raymond Chandler, ma poi ci vuole anche la potenza di Melville e il fantastico di E. A. Poe (un altro dei miei libri in cima alla lista è il suo “Le avventure di Gordon Pym”) e poi c’è altra grande letteratura e grande scrittura da Paul Auster a Saramago, da Simenon a J.C. Izzo e Leo Malet. Sicuramente i libri di Bruce Chatwin mi hanno spinto al viaggio e “La lunga rotta” di Moitessier mi ha spinto ad amare il mare e la vela intesa come una “Lunga rotta” esistenziale. Sto dimenticando sicuramente molti altri pilastri, ma non posso non nominare un piccolo libro perfetto di Haniel Long, “La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca”, lì c’è tutto.
Hai spesso avvicinato le avventure di Corto al genere letterario del Realismo Magico; cos’è che avvicina questi due mondi? Si tratta in tutti e due i casi di narrazioniatopiche, in grado cioè di spaesare e perturbare la regolarità simmetrica del reale attraverso l’inaspettato? È forse questa la cifra del nostro ‘900 letterario, intendo la sovrapposizione dell’assurdo nel convenzionale?
Mi piacciono molto le narrazioni atopiche, mi piace Calvino, Cortázar, Borges, Buzzati, Süskind, mi piacciono le sorprese, mi piace chi non scrive le solite storie, chi non segue i corsi di scrittura creativa, chi rischia inventando qualcosa senza seguire schemi usurati e ripetitivi, chi incita al sogno, chi non vuole inventare un ennesimo detective o commissario dal fiuto infallibile, mi piacciono dischi come “Atom Hearth Mother” dei Pink Floyd e l’assolo di batteria infinito di “Moby Dick” dei Led Zeppelin. Mi piace Leopardi che immagina l’Infinito dietro a una siepe e i film di Iñárritu, mi piace la chitarra di Ry Cooder con le sue note che vogliono perdersi verso un fantomatico “Paris Texas” senza curarsi se si perderanno in un deserto. Ma non voglio dare una risposta dotta a questa domanda e allora faccio un esempio:
Un giorno a Buenos Aires vicino a una stazione ferroviaria periferica ho visto un gruppo di ragazzi che stavano per iniziare a suonare, erano giovani, piuttosto stravaganti, pieni di anelli, tatuaggi, capelli rasta, dread, borchie, braccialetti di pelle e catene. Mi sono seduto in disparte e ho aspettato il primo pezzo, è uscito fuori un sorprendente “The days of wine and roses” un vecchio e romantico brano scritto da Harry Mancini negli anni ’60 e suonato da molti grandi autori fra i quali Dexter Gordon a cui s’ispirava sicuramente il bravissimo sassofonista, sono rimasto ad ascoltarli incantato. Poi sono salito sul treno, che fra l’altro era il Tren de la Costaquello che prendeva Hugo Pratt per andare a San Isidro dove viveva e giocava a rugby (fra l’altro il treno che passa anche per una stazione che si chiama Borges), e su quel treno c’era un venditore ambulante che non vendeva merendine, biglietti delle lotteria, penne o giocattoli inutili, no, lui vendeva lenti d’ingrandimento di vetro “per vedere meglio la vita”, diceva proprio così. Questo per me è incontrare qualcosa di diverso, qualcosa che “spaesa” e fa guardare le cose con occhi diversi e un mezzo sorriso sulla bocca, qualcosa che porta lontano, dove?
Verso il mondo della pura fantasia.
Per concludere, ad un narratore credo che la miglior richiesta che si possa fare, rispettando in pieno la sua natura, sia quella di farsi narrare un qualcosa di nuovo; hai qualche aneddoto in particolare che vorresti narrarci, magari dei tuoi viaggi sugli itinerari di Corto?
Hugo Pratt ha disegnato un ponte, un bellissimo piccolo ponte di pietre e ha anche specificato dov’era: Sligo, the musical bridge, in Bellacorick Cross Molina.
E poi ha aggiunto che quel ponte portava in un mondo magico e bellissimo.
Era un esplicito invito a cercare.
Di solito con Marco D’Anna non abbiamo mai cercato i veri luoghi disegnati nelle storie di Corto; lui con le foto, io con i miei testi cercavamo sempre la suggestione, mai la documentazione precisa, ma in questo caso la curiosità era troppo forte.
Non è difficile andare in Irlanda e trovare la tomba di Yeats, l’isola di Innisfree, le colline di Tara e Newgrange, ma non è facile trovare il ponte musicale di Sligo disegnato da Pratt.
Alla fine ce l’abbiamo fatta.
Il ponte è sulla strada che da Bellacorick va verso Bangor e attraversa il fiume Owenmore.
C’era molto vento quel giorno, abbiamo camminato, da una parte e dall’altra del ponte, abbiamo superato un filo spinato per guardarlo dal basso, per sentire qualcosa, un rumore, un suono speciale, ma niente. Si sentiva il sibilo del vento che spirava fra le quattro campate, lo sbattere dell’acqua fra sassi e pilastri scuri, lo stormire dei rami dei pini sulla fiancata del ponte…insomma, c’erano solo rumori, suoni, fascino, ma non si poteva certo definirla musica, perché allora quel nome: “The Musical Bridge”?
Ce ne siamo andati per guardare dalla distanza, per cercare un’angolazione diversa, per vedere un’altra immagine e in quel momento abbiamo visto una ragazza che passeggiava sul ponte, sembrava arrivata dal nulla. Andava e veniva. Da una parte e dall’altra. Aveva il passo di chi cerca qualcosa. Ci siamo avvicinati. Non volevamo disturbarla, ma alla fine ho chiesto se sapeva qualcosa di quel ponte.
- Perché lo chiedi proprio a me?
- Perché sei una ragazza irlandese. – Azzardai, ma la sentivo distante, a disagio.
- Io vivo a Londra.
Aveva una faccia davvero irlandese: ricci rossicci e ribelli sbucavano dalla lana marrone del suo berretto, lentiggini e fessure sospettose nascondevano i guizzi azzurri dei suoi occhi da gatta.
- Ti chiedevo soltanto se sapessi qualche storia legata al ponte…
- Siamo venuti solo per sapere perché si chiama Musical Bridge, non ti volevamo disturbare, scusa.
E lei sorride.
- Dicono che se si fa scorrere una pietra sul parapetto camminando velocemente il ponte emette note musicali e diventa come una specie di xilofono.
- Ricambiamo il sorriso.
- Lo potresti fare per noi?
- E’ una proposta strana…chissà cosa penserà mia nonna.
- Indica una piccola macchina verde seminascosta dietro a un cespuglio.
- È là in macchina.
- Noi restiamo a distanza, facciamo solo una foto e ascoltiamo il suono.
Lei si convince e parte.
E’ stato incredibile.
Quella sconosciuta banshee irlandese imbacuccata nel suo piumino azzurro, camminava spedita, faceva scorrere una pietra piatta lungo il parapetto irregolare del ponte e, invece di stridere, le pietre sprigionavano una magica e inattesa melodia di campanelle che veniva da uno strano mondo fatto di fiabe e leggende.
Ci vuole pazienza per trovare quel mondo, ci vuole curiosità, costanza e spesso, una guida, apparentemente casuale. Chissà cosa avrà detto la ragazza irlandese alla nonna rimasta in macchina? Forse era proprio la nonna la fata che un tempo aveva svelato quel segreto a lei, e adesso si stavano facendo un viaggio in macchina nel mondo dei loro ricordi regalando anche a noi un granello di quella magia. Ci sono due sassi sul parapetto, uno più piatto, l’altro più grosso e pesante. Stanno lì ad aspettare chi conosce quel trucco. Il ponte suona davvero e noi stavamo per desistere e accontentarci della risposta più banale e scontata, quella del vento.
Inseguire le note correndo è una sensazione di pura felicità. È un gioco inatteso, è la liberazione di una gioia pura e semplice, quasi antica. È come quando da bambini ci si sdraiava a terra e s’iniziava a rotolare scendendo da un pendio d’erba a braccia incrociate gridando di gioia. Il parapetto del ponte ha una lunga striscia consumata. Molta gente conosce quel suono, molta gente ha ancora voglia di giocare in Irlanda. Quel disegno di Pratt non racconta solamente quel ponte, è anche un ponte fra realtà e fantasia, leggende, cultura e immagini cinematografiche.
E non solo quel ponte.