Nicola Paladin – letteratura angloamericana e la passione per il fumetto
Nicola Paladin, docente di lingua e traduzione inglese e americana, si è occupato nei suoi studi di war comics e in particolar modo delle opere di Joe Sacco, Will Eisner, and Frank Miller. Il suo intervento “Forme e contenuti dell’America di Hugo Pratt” in occasione della giornata “Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt” ha indagato la rivoluzione americana, il conseguente processo di “americanizzazione” dell’Italia ponendo l’accento sul fumetto americano e italiano. In questa intervista conosceremo meglio Nicola Paladin e la sua passione per il mondo del fumetto.
Hai avuto la passione per i fumetti fin da quando eri piccolo?
Da piccolo sono stato un accanito lettore di Topolino – a casa ne avrò ancora 300 –, Grandi Classici Disney, Mega 2000 e poi Mega 3000. A parte qualche sporadica lettura di Braccio di ferro la mia conoscenza sul mondo dei fumetti si limitava a questo, e ciò che più mi affascinava di questi fumetti erano le avventure che strutturavano le storie; ovviamente conoscevo Tex ma mi annoiava, conoscevo Dylan Dog ma mi spaventava. A differenza di molti miei coetanei invece, l’adolescenza ha coinciso con un grande allontanamento dal mondo dei fumetti: da un lato, probabilmente ritenevo Topolino ormai inadatto alla mia età e ai miei interessi, dall’altro non sapevo che il fumetto potesse presentarsi sotto così tante forme diverse, non conoscevo il fumetto d’autore e, soprattutto, non avevo la minima conoscenza del mondo del fumetto al di fuori di quello per ragazzi.
Quando e come hai deciso di avvicinarti agli studi sul mondo del fumetto?
Non sono stato io a decidere di riavvicinarmi a questo mondo ma è stato come se, in un certo senso, il fumetto si fosse riavvicinato a me. Nell’autunno del 2013 ho discusso la mia tesi di magistrale sul racconto di prigionia di un eroe della Rivoluzione Americana; poco dopo, il mio correlatore di laurea mi ha proposto di partecipare a una conferenza sul fumetto che stava organizzando, suggerendomi una piccola ricerca sulle raffigurazioni italiane della Rivoluzione.
All’epoca mi sono diretto senza esitazione su Il grande Blek e Il comandante Mark – peraltro, letture giovanili di mio padre; tuttavia, un giorno il mio professore mi ha suggerito con grande nonchalance di dare un’occhiata a Hugo Pratt – conoscevo giusto Corto Maltese. Dopo questa dritta ci ho messo poco a imbattermi in Wheeling e Ticonderoga, rimandone folgorato e risucchiato in una spirale tale per cui volevo leggere e scoprire sempre nuovi fumetti d’autore, sia italiani sia americani.
Quanto sono stati utili la tua laurea e il tuo dottorato per avvicinarti e capire il mondo di Hugo Pratt?
Diciamo che associo il mio percorso di studi alla mia graduale riscoperta dei fumetti: il fumetto non ha mai costituito il centro focale delle mie ricerche, ma un’attività che si accompagnava ad esse. Di conseguenza, l’ho esplorato sempre sotto l’influenza dei vari testi e teorie che ho approfondito nel corso del mio dottorato. Senza dubbio lavorare sulla letteratura americana ha aiutato questa mia passione, perché mano a mano che re-imparavo a leggere i fumetti, avevo la costante occasione di confrontarne temi e dinamiche con ciò che ritrovavo nella letteratura. Ad esempio, concentrare le mie ricerche sulla narrativa di guerra mi ha permesso di espandere l’orizzonte della raffigurazione dei conflitti dalla dimensione letteraria a quella visuale, e mi ha fatto appassionare ad autori come Will Eisner e Joe Sacco, ma anche a Jacques Tardi e Gipi.
“La rivoluzione americana in Italia: dagli EsseGesse a Hugo Pratt”, com è nata l’idea per questa pubblicazione?
Si tratta del mio primo e maldestro tentativo di confrontarmi con la scrittura di un saggio ed è confluito negli atti del convegno a cui ero stato invitato dal mio correlatore. Si tratta di una riflessione su due diverse modalità di rappresentazione dell’America rivoluzionaria, quelle del trio EsseGesse e quella invece di Hugo Pratt. Queste due esperienza, una d’autore e l’altra più popolare, raffigurano un’America selvaggia affine a quella rappresentata da romanzi come L’ultimo dei Mohicani, di James Fenimore Cooper.
Quello che propongo nel saggio è un confronto fra le diverse dinamiche testuali insite a due progetti: nel caso di EsseGesse, un fumetto seriale e pertanto caratterizzato da elementi ricorrenti, come ad esempio, la persistenza di uno schema buoni-cattivi facilmente riconoscibile nel conflitto fra inglesi e ribelli americani, o la ricorsività dei ruoli dei personaggi principali in ogni avventura. Dall’altro, nel caso di Pratt, un graphic novel, e quindi un’opera di respiro più ampio, che analizza e raffigura uno scenario simile, evidenziandone però gli elementi di maggiore ambiguità e non, invece, quelli più familiari.
Perché, secondo te, l’America suscita così tanto fascino per gli italiani?
Questa è una domanda molto complessa a cui si possono dare varie risposte che si intrecciano fra di loro. Ci provo, ma non prometto esaustività. Storicamente, penso che ci siano varie ondate di fascinazione che l’America ha provocato negli italiani e che l’hanno fatta percepire come un mito: nella seconda metà dell’Ottocento e tra le due guerre mondiali l’America era la meta degli italiani che fuggivano dalla fame e dalla povertà inseguendo il sogno di un mondo migliore. Anche per la mia famiglia è stato così, e lo stesso vale per un numero incredibile di famiglie italiane la cui storia si è articolata fra Italia e America; per certi versi, è come se l’America fosse in parte inscritta nel codice genetico italiano e viceversa: in epoche diverse, generazioni di migranti sono partite, a volte tornate, a volte rimaste oltreoceano, ma sempre lasciando un solco tra le terre d’origine e d’approdo, sempre generando un’inevitabile forma di magnetismo nelle generazione successive.
Questa attrazione è continuata dopo la Seconda Guerra Mondiale e per buona parte della seconda metà del Novecento, in quanto la cultura italiana è stata letteralmente invasa di manifestazioni dell’America, e sarò banale: cinema, musica, icone della controcultura, letteratura, e ovviamente fumetti. A partire dal Piano Marshall, l’americanizzazione dell’Italia si è strutturata senza dubbio su un riorientamento del mercato verso prodotti sia di consumo sia culturali americani; il mito dell’American way of life ha indubbiamente reso più appetibile questo scenario che si è consolidato nel corso dell’ultima parte del secolo. In altre parole – e semplificando molto – penso che tanto prima del Secondo Conflitto Mondiale, quanto dopo, l’America abbia rappresentato un mito stratificato: una terra delle opportunità dove il benessere è alla portata di tutti e nessuno è condannato alla povertà in modo predeterminato. Questi presupposti, aiutano a capire, credo, almeno in parte le ragioni per cui gli artefatti culturali americani abbiano affascinato e ancora affascinino noi italiani.
Senti di avere punti in comune con il protagonista principale e più celebre dei lavori di Hugo Pratt, Corto Maltese?
Per certi versi immagino che ognuno di noi vorrebbe essere Corto Maltese. Avventuroso, irriverente, empatico. Personalmente quello che invidio di più a Corto è la sua prontezza di risposta, la sua puntualità a utilizzare le mot just e il fatto che non soffra mai L’esprit d’escalier, cioè la risposta perfetta a una certa frase che viene in mente troppo tardi rispetto alla conversazione. Ciò per cui forse mi identifico maggiormente in lui – e so di non suonare originale – sono le sue prese di posizione sempre a favore dei deboli e dei ribelli. Per quanto romantico, non mi sembra una figura “donchisciottesca”: non affronta le sfide della storia in nome di ideali eroici e narrazioni epiche ma interpreta la realtà che vede in nome del buonsenso comune. Se oggi Corto vivesse in mezzo a noi, credo che piloterebbe una delle Sea Watch, o almeno, mi piace immaginarmelo così, pronto a forzare un blocco navale.
Cosa ha significato per te partecipare alla giornata “Gli orizzonti aperti di Hugo Pratt”?
Mi sono divertito molto! Partecipare mi ha permesso di avvicinarmi e interagire con altri appassionati di Hugo Pratt afferenti ad aree diverse imparando molto, e di entrare in dialogo con chi mi ha ascoltato. Trovo che l’iniziativa sia stata organizzata in modo molto efficiente e che sia riuscita a mantenere un’atmosfera piacevole per tutta la durata della giornata di studi. Ritengo inoltre che fosse decisamente il momento che Hugo Pratt entrasse all’università. Al di là della sua inequivocabile importanza nella storia del fumetto italiano, mi piacerebbe che questo evento fosse il primo di tanti e che potesse, in qualche modo, fare da apripista per nuovi percorsi di studio del medium nella nostra università; inoltre penso che, a livello didattico, un’evoluzione dello studio della visualità sia una tappa ormai necessaria nell’epoca in cui viviamo.
Intervista di
Erika Inderst