C’era una volta “un Paese lontano” e piccolo così che tutti volevano invadere
Qualche domenica fa presso l’Auditorium Parco della Musica a Roma, all’ interno del festival “libri come”, Olga Tokarczuk ha presentato il suo nuovo libro “I vagabondi” edito da Bompiani. L’ autrice polacca, pur provenendo da questo Paese lontano, sembra proprio che non sia l’ultima ruota del carro nell’ attuale panorama editoriale internazionale.
Vincitrice del Booker Prize nel 2018 Olga Tocarczuk fa capo alla generazione di scrittori post ’89, post cortina di ferro. Ma la cortina di ferro non escludeva lo sguardo sul mondo solo a quei poveri popoli oppressi da Stalin e dal comunismo. Escludeva anche il nostro sguardo di europei occidentali. Eravamo soliti salire sul podio della democrazia, si allungava un po’ lo sguardo oltrecortina e ci si compiaceva della nostra società così libera e civile. Dopo la caduta dei sistemi politici monologici ormai non è più possibile leggere questi autori e questa letteratura elevandoci sulle colonne di Ercole.
Per Olga Tokarczuk, che ha studiato psicologia all’università di Varsavia, la caduta del comunismo in Polonia dà avvio ad un processo conoscitivo. In principio esplora empiricamente il mondo che la realtà comunista le impediva di conoscere e inizia a viaggiare per l’Europa. Il viaggio viene inteso dall’autrice come un processo conoscitivo che ha dato avvio alla sua attività di scrittrice. Attraverso il viaggio la donna, non ancora scrittrice, accede ad una prospettiva altra da sé, riesce a guardare la sua realtà adottando un punto di vista esterno. Viaggiare significa uscire fuori dal nostro misero punto di vista, dai confini della nostra lingua materna, dai confini della nostra quotidianità appresa nel nucleo familiare e ripetuta sino alla morte.
Ecco che questo processo conoscitivo diventa per Olga Tokarczuk, scrittrice di romanzi, una strategia narrativa, ecco che la letteratura viene intesa come l’apertura, la frattura attraverso la quale intravediamo uno spazio immaginario, una sorta di traslazione del reale fatto di innumerevoli prospettive. Il focus della narrazione in Tokarczuk non è l’autore che scrive, non sono di certo le vicende che narra, ma è il lettore. Il lettore è continuamente sbalzato fra isole e costellazioni, che non sono mai luoghi astratti, hanno sempre un legame concreto e fisico con la realtà. La scrittrice afferma che nel suo romanzo “I vagabondi” – “Bieguni” uscito in Polonia nel 2007- voleva riprodurre un’azione molto concreta che tutti noi facciamo ogni giorno davanti al nostro televisore: lo zapping.
Saltando da un canale all’altro, da una costellazione all’altra, il lettore viene privato del suo punto di vista univoco e immutabile. Ulteriormente da indagare è la sua teoria del romanzo-costellazione, che sicuramente in parte è frutto dell’attività di terapeuta che Olga Tokarczuk ha svolto prima di diventare scrittrice a tempo pieno. E questo romanzo costellazione, nel quale confluiscono più mondi, non può non ricordarci i romanzi di uno dei tre pazzi del novecento polacco Staisław Ignacy Witkiewicz definiti dall’ autore stesso romanzi-sacco, romanzi nei quali dovevano confluire tutti i generi letterari.
Ecco che il lettore ideale prende in mano un romanzo di Witkiewicz e se riesce leggerlo fino alla fine avrà assistito ad un dramma teatrale, ad un simposio filosofico, sarà entrato in un noioso romanzo realista, avrà fatto un viaggio ai tropici che a tratti ricordano le montagne della Polonia, avrà assistito ad un film porno e avrà letto un romanzetto rosa. L’ altro pilastro fondamentale nei romanzi di Olga Tokarczuk è la voce del narratore. Non è affatto una voce astratta e superiore. È un narratore vivente e mortale. Dice l’autrice: “con cosa facciamo esperienza del mondo esterno? Con il nostro corpo, allora anche il narratore dei miei romanzi è dotato di un corpo umano”.
In una sua intervista sul giornale “Gazeta Wyborcza” afferma che “la Polonia non è un paese per eretici”. Dal suo punto di vista lo scrittore ha sempre svolto il ruolo di eretico nella società?
Sì, in parte lo scrittore svolge questo ruolo nella società. Intendo la scrittura come una prospettiva sul mondo che vuole essere singolare e fuori dall’ordinario. E il ruolo dello scrittore è proprio quello di sfidare e contrastare le prospettive fisse, i punti di vista dogmatici. Inoltre, penso che il ruolo della letteratura non sia quello di spiegare e chiarire il mondo che ci circonda, ma la letteratura ha il compito di far sorgere in noi delle questioni, ci deve mettere in discussione. Come scrittore mi sento in dovere di instillare nel lettore dei dubbi sull’esistenza e sull’esistente, non di chiarificarne la natura.
Distinguersi come scrittori nella società di massa non è semplice. Alcuni autori decidono di arrivare ai propri lettori tramite i social, esponendo al pubblico la loro vita privata. Altri, come per esempio Elena Ferrante, decidono di rimanere anonimi, forse proprio per emergere proteggendosi nella cultura di massa. Lei quale strategia usa?
Sono d’accordo con lei, penso che l’anonimato sia una sorta di protezione contro il pubblico, che oggi tramite i nuovi media facilmente può accedere alla vita privata. Ma penso anche che dipenda dall’indole di ogni scrittore. Conosco molti scrittori che dialogano con i propri lettori attraverso i nuovi media. Ciò naturalmente significa anche esporre al pubblico una parte della loro vita privata. Ma con me non funziona, perché avverto subito una sensazione di stress e mi sento sotto pressione e non mi piace esporre troppo la mia vita privata. Penso che sia una questione più che altro psicologica e dipende dal nostro carattere.
Cosa pensa della mia generazione? Pensa che sia diversa dalla sua?
Penso che la vostra generazione sia molto diversa dalla mia e a volte ho l’impressione di non comprendervi. Ma penso che questo sia abbastanza normale nel passaggio fra due generazioni diverse. Ho come l’impressione che la vostra generazione non riesca a prendere la parola su importanti tematiche, ma sono anche consapevole del fatto che stiamo vivendo in un’epoca diversa dalla mia. Posso dirmi ottimista perché vedo che in questi giorni in tutta Europa si stanno svolgendo manifestazioni per il clima e questo è un buon inizio, affinché la vostra generazione prenda parte attiva nel dibattito su tematiche che riguardano il futuro.
Quali grandi autori della letteratura polacca ha letto e apprezzato da adolescente?
Fra tutti gli autori polacchi il mio preferito è Stanisław Lem, scrittore di romanzi fantascientifici, tradotto e letto in tutto il mondo. Poi ho amato molto “Il manoscritto trovato a Saragozza” di Potocki che pur non essendo scritto in polacco, ma in francese, è un testo capitale per la cultura e letteratura polacca. E poi aggiungerei Bruno Schulz con il quale ho un rapporto ambivalente di odio e amore. Questo autore ebreo-polacco dello Sztetl orientale ha portato la lingua polacca ad un livello così alto, nel XX secolo, che mi fa invidia e rabbia perché so che non arriverò mai al suo livello come scrittrice.
È faticoso essere scrittori di professione? E in più qual è il rapporto che lei come scrittrice ha con la lettura?
Quando si è scrittori di professione la scrittura non è solo un piacere estemporaneo, ma è un lavoro creativo che a volte stanca e consuma. E il problema più grande è che la scrittura occupa un ampio spazio nella mia vita quotidiana, un frammento di tempo che non è limitato. Non si è scrittori solo nel proprio turno di lavoro, ma si è scrittori sempre. Non c’ è possibilità di evasione nel lavoro di scrittore ecco perché è un lavoro sia faticoso che usurante. La lettura per ogni scrittore è fondamentale. Per ogni pagina che scrivo, ho letto minimo mille pagine di altri autori, questa è la proporzione.
Qual è la genesi dei suoi nuovi romanzi?
Penso che il mio lavoro sia una raccolta di energie e di stimoli, a volte differenti far loro. Di solito il processo di scrittura del romanzo dura due o tre anni. Ma sento di non essere io a scegliere il tema, solitamente l’argomento mi capita per caso fra le mani e sento che su quel preciso argomento devo realizzare qualcosa. E inizio ad intessere la trama del romanzo.
Brava Benedetta,
in poche frasi e poche domande/risposte ha colto molto dell’opera di Olga Tokarczuk, scrittrice “di frontiera” polacca, ora anche di grande successo internazionale, ma soprattutto di grande talento. Ne sentiremo parlar molto anche nei prossimi anni.
Mi piace anche l’accostamento a Witkiewicz (chissà cosa ne penserebbe Olga?), scrittore “totale” di romanzi-mondo come la Tokarczuk, la quale in più ha dalla sua – cosa nient’affatto scontata pur trattandosi di una scrittrice – una comprensione vera e profonda della diversità femminile.
Un caro saluto a tutta la Redazione.