Sono scrittore in lingua italiana: quanto devo litigare con i consulenti editoriali ‒ anzi gli “editor” ‒ che senza nemmeno consultarmi mi correggono nebulizzatore in spray, tassì in taxi, o mi bocciano le parole che vanno oltre le cinquecento del lettore medio (che chiamo “mèdiocre”). Quello che pratico io lo chiamo ecologia linguistica, nel senso che la lingua ‒ e i dialetti ‒, per come la vedo, fanno parte dell’ambiente e pertanto hanno diritto allo stesso rispetto che tributiamo a mari, fiumi, foreste e paesaggi in generale. Insomma, sono assolutamente convito – e milito per questo – che la lingua italiana sia fin troppo corrosa dal dilagante itanglese degli ultimi anni, una moda sconsiderata che non ha alcun senso se non quello di svilire una certa identità linguistica e culturale. Quello che potrei definire un vero e proprio ‘morbus anglicus’.
Non pretendo “leggi”, né tantomeno “sanzioni” per chi preferisca esprimersi in itanglese. Siamo in democrazia e ognuno deve essere libero di parlare come meglio ritiene. Il linguaggio rientra nei fenomeni di moda: vanno, vengono, spariscono, ritornano, e soprattutto cambiano con il tempo. Ma esistono mode ridicole (come di recente il dilagante car* tutt*). La mia non è altro che una militanza che suggerisco ai tanti che la pensano come me. Infatti so bene di non essere l’unico, ma ci percepiamo come una minoranza indesiderata che fa meglio a tacere in quanto tacciata di macchiettista.
Il ketchup sui maccheroni
Trovo stomachevoli:
- devolution “decentramento istituzionale”,
- newtown “piano di ricostruzione edile provvisoria”,
- ticket “tassa sulle prestazioni sanitarie”,
- austerity “austerità”,
- spending review “tagli sulla spesa pubblica”,
- JOBS act (acronimo di Jumpstart Our Business Startups Act) “riforma del diritto del lavoro” ‒ spesso scritto Job’s act“ atto di [un misterioso] Giobbe” ‒, per non parlare di un:
- recovery fund “fondo di recuperi” di cui molti non capiscono neppure il significato.
Eh, ma troppo lungo, in italiano!
Allora viva la neologia e gli scorciamenti: decentramento, neocittà, sanitassa, austerità, tagli, e visto che DPCM non ci spaventa perché non RDL? No, non si tratta di una “battaglia di retroguardia”, ma di un atteggiamento didattico condito da un indispensabile pizzico di autoironia.
Mi dispiace, ma quest’itanglofilia strisciante e ormai proliferante è una sindrome, preoccupante, di depauperamento di una cultura italiana sempre più mèdiocre, e i tanti che difendono l’itanglese come necessario, inevitabile, ormai irrinunciabile mi fanno soltanto cagare. E ai tanti che mi riferiscono di aver tradotto un testo inglese di cento parole con centocinquanta italiane, mi rincresce, ma questo è il primo sintomo di chi non sa tradurre. La traduzione è un mestiere, che occorre imparare.
Gli argomenti degli itanglofili: sfatiamo i falsi miti
Quante volte sento dire che, eh sì, l’inglese è più “stringato” dell’italiano, ricorre a meno parole per dire le stesse cose… Che lingua agile e sciolta…! Facciamo un esempio. Salgo su un qualsiasi aeromobile di Alitalia, e mi siedo al posto assegnatomi. Sullo schienale della poltrona di fronte a me leggo la seguente scritta bilingue:
Life jacket under seat
Il giubbotto salvagente si trova sotto la propria poltrona
Ebbe’, sì… quattro parole inglesi contro nove italiane… bisogna riconoscere… in effetti… Qui ci vuole un excursus storico e linguistico. In base a direttive rivolte alla lotta contro l’analfabetismo, sin dagli inizi del Novecento gli Stati Uniti hanno deciso di ricorrere il meno possibile a segnali, preferendo loro ingiunzioni scritte. Laddove in Italia abbiamo un cartello circolare azzurro con una freccia bianca rivolta verso destra, in America troviamo la scritta “turn right”. Ora, turn right si legge e assimila in fretta. Ma un’indicazione più articolata, come Attenzione al pericolo di smottamenti improvvisi, tenersi rigorosamente sulla destra e moderare la velocità, può rivelarsi controproducente, in quanto l’automobilista intento a decriptare tutto con attenzione si distrae dalla guida e fa largamente in tempo a finire contro un palo o in fondo al burrone. Questo ha portato gli americani a “limare” quanto più possibile le segnalazioni, stradali o altre. Life jacket under seat, letteralmente “salvagente sotto sedile”, non è inglese né letterario né colloquiale, che direbbero piuttosto the life jacket is under your seat, sette parole: sempre meno di nove… In Italia non siamo abituati a queste potature sintattiche. Bisogna spiegarci tutto. Del salvagente viene precisato che si tratta di un giubbotto salvagente, affinché qualcuno magari non immagini una ciambella con la papera. Si trova, nel senso che occorre cercarlo. Sotto la propria poltrona, altrimenti l’italiano lo va a prendere d’istinto sotto il sedile che ha davanti a sé.
È così che, alcuni anni fa, apparve sulle portiere posteriori dei tassì italiani, in corrispondenza della maniglia, la scritta bilingue:
Chiudere piano
Close soft
All’attenzione di quei clienti zelanti che sbattono la portiera come se dovessero schiaffeggiare un ippopotamo. Ora, a parte il fatto che close soft in inglese significherebbe “chiudere con dolcezza”, o “delicatezza”, premura tutto sommato eccessiva nei confronti di una carrozzeria d’acciaio temprato, sulle portiere dei tassì britannici leggo:
Please, do not bang the door
Con tanto di please, di virgola e di do not anziché don’t: questa volta, due a sei per l’italiano.
Gli studenti che non sanno il francese (lasciamo stare il tedesco) non soltanto non lo sanno ma sono ben determinati a non saperlo mai. Ora, in Russia, Cina, Giappone, Corea non accettano l’inglese come esperanto (chiamiamolo a questo punto esperanglo): o ti impari russo, cinese, giapponese, coreano o te ne torni a casa. In Francia, poi, provate a ordinare in inglese in un negozio o ristorante, udirete le male parole. Appartengo alla comunità di italiani di origine straniera: tra di noi parliamo in varie lingue, anche italiano, va da sé, e assistiamo al proliferare dell’itanglofilia tra incomprensione e sonore sghignazzate, perché il fenomeno è caricaturale e a momenti avvilente.
La “sostituzione etnica”
In questi ultimi tempi si fa un gran parlare di una paventata “sostituzione etnica”, che al dire di alcuni nostri eminenti politici riguarderà l’Italia nei pochissimi decenni a venire. Secondo la logica ‒ populistica ‒ dell’uno più uno fa due, a forza di accogliere migranti africani e vicino/mediorientali, tra vent’anni in Italia saremo tutti marroncini, musulmani (anzi “islamici”) e parleremo tutti arabo.
Ha senso vederla in questo modo?
Detto tra noi, in Africa e Vicino e Medio Oriente, vengono parlate numerose lingue che nulla hanno a che vedere con l’arabo: berbero, somalo, yoruba, igbo, bambara, wolof, persiano, curdo, urdu, pashto e tant’altro. Per capirsi tra di loro avranno pur bisogno di una lingua comune, come ad esempio quella di Dante, a portata di tutti, che scuola e mezzi di massa (ma anche narrativa e canzonette) italiani continueranno a veicolare come hanno sempre fatto.
Sono padre di un ragazzo, oggi trentunenne, nato in Marocco da genitori sconosciuti, che da anni porta il mio cognome. Sono un ebreo vicino all’ateismo puro e duro, idem la mia ex moglie nata cattolica: nostro figlio è cresciuto privo di religione, è perfettamente bilingue con italiano e francese, parla benissimo inglese e tedesco, e ha studiato in Italia. Una mia figliastra acquisita polacca ha sposato un marocchino e hanno un bambino che sta crescendo in tre lingue: hanno tutti e tre cittadinanza e passaporti italiani.
Abbiamo sostituito qualcuno o qualcosa?
In quanto mezzo francese posso assicurare che la Francia è da decenni piena di neri e mulatti di ogni sfumatura, musulmani ma anche induisti e buddhisti, che si rivelano pienamente integrati da un punto di vista culturale e linguistico, si esprimono in un francese da parlanti natii e vanno fierissimi del proprio passaporto francese. Certo, questo non esclude ricorrenti rigurgiti di razzismo dichiarato conditi di “sporco negro/ebreo/cinese/islamico” eccetera. Gli imbecilli rimangono la percentuale predominante del genere umano, a questo possiamo soltanto rassegnarci. Questo i nostri eminenti politici lo sanno benissimo, e lo sfruttano spudoratamente per ottenere consensi. Redimere gli imbecilli è, non impossibile, ma molto difficile, reclutarli invece è facilissimo: vogliamo far parte dell’esercito di Franceschiello degli imbecilli, o imporci di riflettere?
Ora anche il Regno Unito e la Germania ‒ per non parlare degli Stati Uniti! ‒ straripano di negroidi/islamoidi orgogliosi delle proprie cittadinanze acquisite. E vorrei soltanto ricordare che il tanto atteso vaccino anti-covid è stato scoperto dai due turco-tedeschi Uğur Şahin e Özlem Türeci (leggi uùr shahìn e özlèm türegì). Chi vive, cresce, magari è nato, in Italia, diventa italiano, che lo Stato lo ammetta o meno, anche se a casa parla arabo, turco, persiano o francese, e anche se si riconosce in una religione diversa da quelle cristiana o ebraica. Si chiama ius soli“ diritto del suolo”, ius culturae “diritto della cultura” o addirittura ius scholae “diritto della scuola! Ho tanti studenti arabi, o semiarabi, che “si sentono” italiani quanto arabi, anche se musulmani di scrupolosa osservanza. Se sono nati o cresciuti in Italia, non è colpa loro!
Multiculturalismo di facciata
Più in generale si fanno grandi discorsi sul “multiculturalismo” senza in realtà capirne il significato. Nel senso che io, aperto e democratico, ti concedo, a te straniero, di restare in Italia, ci salutiamo con cortesia la mattina e la sera, e non ci diamo fastidio a vicenda. Questo non è multiculturalismo, è ghettizzazione! Qualche giorno fa, in televisione, hanno fatto vedere un filmato su Tor Pignattara, come per dire “guardate che fatiscenza”! A me è sembrato di vedere un quartiere londinese, e neanche di quelli degradati…
Molti ignorano a quanto pare che:
1. La legge Mancino del 25 giugno 1993, n. 205 sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, alla violenza, la discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
2. L’art. 403 del Codice Penale sancisce che «Chiunque pubblicamente offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da 1000€ a 5000€».
Insomma ce lo vogliamo ficcare in testa che, in Italia, il razzismo è reato?
In Israele si fa un gran parlare di un futuro doppio stato: israeliano e palestinese. Nella vagheggiata ‒ quanto disarmante ‒ illusione che tra i due nuovi stati si instaurino progressivamente confederazione, moneta unica e cordiali relazioni diplomatiche. Per quanto mi riguarda, sono per lo stato binazionale, che abbia due nomi, Israele e Palestina, due lingue ufficiali, ebraico e arabo, e parità di diritti e di doveri. Ma uno stato binazionale, argomentano i fautori della doppio stato, diventerebbe unicamente arabo nel giro di due decenni: gli ebrei si sforzano di sfornare tra quattro o cinque figli ‒ per patriottismo ma anche per l’elevatissima mortalità, non infantile ma adulta, dovuta a guerre e attentati quotidiani ‒, mente gli arabi ne scodellano in media da otto a dodici. Sono ormai diversi anni, però, che gli arabi nati e cresciuti in Israele si dichiarano “arabi israeliani”, consentendo in tal modo agli ebrei progressisti di dirsi “ebrei israeliani”. Questi arabi israeliani sono perfetti bilingui arabo-ebraico, e ben due di loro, Anton Shammas (n. 1950) e Sayed Kashua (n. 1975) sono diventati scrittori in lingua ebraica. Devo forse ricordare il franco-marocchino Tahar Ben Jelloun (nato in Marocco nel 1944), scrittore in lingua francese tra i più tradotti nel mondo?
Alieni anglosassoni
Chi è che, a questo punto, sostituisce davvero l’italianità di questo Paese? Alieni anglosassoni che invadono l’Italia? Quanti anglicizzano a più non posso? O rimbecilliti di purissima etnia italica?
Quei tanti che temono di vedersi sostituire etnicamente, ebbene sono soltanto insicuri nel profondo della propria italianità. Se “essere italiano” è aver paura di vedere il proprio vicino di casa senegalese o pakistano acquisire la sua stessa cittadinanza, ma essere fiero di dire step, trend, team, voucher, gate per “passo, tendenza, squadra, tagliando, imbarco” significa aver perso ogni consapevolezza di appartenere a un popolo da sempre generoso e aperto allo straniero. E che non mi piace più.
(Foto in copertina di Gabriele Scassaioli)
Articolo di
Olivier Durand