Pasolini è l’eretico, l’agonista, un’anomalia. Non è assimilabile a niente. Intellettuale dissidente, critico dissonante, entra ed esce di continuo da ogni inquadramento ideologico, senza sporcarsene. Comunista, ma lo cacciano dal PCI; si avvicina al cristianesimo, ma non si uniforma all’ortodossia; interno alla cultura della società contemporanea, ma ne è la contestazione vivente; di famiglia borghese, ma di altro animo. È per questo che la sua vita persevera in ”un oscuro scandalo della coscienza.”
Un saggio sul testamento poetico Pasolini
Emiliano Ventura, nel suo saggio P.P.Pasolini, poeta in-civile (Il seme bianco, Roma), affianca la figura del poeta al mito di Socrate, anche lui un condannato esemplare della sua polis, per aver corrotto i giovani, per empietà e per aver introdotto nuovi dei, come il daimon socratico. Accuse molto simili, al netto di un differente contesto storicamente determinato. Come Socrate, e ancora di più come Diogene, Pasolini è in agone, in conflitto con la sua società e, pertanto, diviene il poeta in-civile, in quanto condannato dalla collettività e allontanato da qualsiasi contesto ideologico o di appartenenza. Pasolini, in altri termini, rappresenta la tipologia di poeta ed intellettuale che, lungi dall’essere in accordo con il suo tempo e la sua società – ne attesta anzi il “disaccordo” – è il supremo “agonista”, come riportato da Mario Luzi, altra figura cara all’autore. E poi, la cronaca di un omicidio: la morte violenta di Pasolini, considerata da Ventura come un trauma per la poesia italiana e l’intero panorama intellettuale, proprio come la morte di Socrate per la filosofia.
Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare l’autore ed approfondire così il tema del suo saggio. La figura del poeta corsaro, il contesto storico-sociale della sua attività e anche i riverberi che la sua morte – come la sua vita – ha avuto sulla poesia successiva; sin da quel 1979, quando ci fu il Festival di Castelporziano, a soli quattro anni dalla morte del poeta. Quella che segue è l’intervista integrale ad Emiliano Ventura, con riferimento agli approfondimenti del suo libro.
Intervista ad Emiliano Ventura: il corpo, il poeta, l’agone
Poeta, romanziere, saggista, regista, antropologo urbano. C’è chi lo considera tutto tranne che un poeta, perché accoglie tra i suoi versi elementi spuri e non tradizionali, alle volte dissonanti, pensiamo ad esempio a ‘Trasumanar e organizzar’; c’è chi, invece, lo considera solamente un poeta, un giudizio che è sia elogio che riserva. Ai suoi funerali a Campo De’ Fiori, Moravia, del resto, disse: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e il poeta dovrebbe esser sacro”. Eppure, si ha come la sensazione che la sua poesia sia una trascrizione in versi di un’ideologia, di un discorso, di una didattica e di una filosofia, allo stesso tempo vera e indimostrabile, perché ammantata dell’alone sacro delle immagini, al margine della definizione stessa di poesia. Ecco, credi che anche per la stessa categoria di poeta, Pasolini sia stato prima di tutto un diverso, un agonista?
Mario Luzi definisce Pasolini un supremo agonista. È una definizione che io riporto spesso, in quanto credo che sia molto adatta al poeta fiulano. La poesia moderna, da Leopardi a Baudelaire, si presenta con i tratti dell’agonismo, del contrapporsi ad uno stato di cose, ad un contesto culturale. Pasolini è un poeta che ha portato all’estremo questo agone, fino a testimoniarlo con il proprio corpo. Anche la categoria dell’alterità ne definisce bene sia l’opera che gli aspetti più autenticamente biografici. Nei confronti di Pasolini c’è stata una sorta di ‘espulsione’ o di ‘verdetto espulsivo’ (Carla Benedetti) da parte dei critici e dei letterati (Raboni, Sanguineti), soprattutto per le ultime opere come Divina Mimesis, Trasuman e organizzar e Petrolio. Sono sicuramente opere con una forte componente di ‘impurità’, frammentate, prosastiche, spesso vicino al pastiche, ma il tutto non è certo casuale. Pasolini, negli ultimi anni, aveva completamente superato l’idea di letteratura e di poesia come perfezione stilisitica o come adeguamento a un canone tradizionale, egli rifiuta in pratica di essere una bestia da stile, e lo dice chiaramente. È necessario leggere la lettera che scrive a Moravia quando, sottoponendogli Petrolio , afferma di non voler sottostare ad alcuna convenzione letteraria (accettare quella convenzionalità). Io aggiungerei che è convenzionale ciò che non accetta l’alterità.
Consideri nel tuo libro Pasolini come l’ultimo autore ad essersi occupato di poesia civile. Ma la chiusura nel proprio Io, da parte dei poeti successivi, si può considerare comunque un modo civile di fare poesia, almeno in termini di “effetto” che le vicende storiche hanno causato nell’animo di molti? Una poetica senza dubbio soggettiva, ma che si pone vicina all’esistenza comune, proprio perché tocca corde universali dell’intimità umana?
Non proprio l’ultimo ma è sicuramente la voce che si è maggiormente udita. Io gioco con l’ambiguita del termine in-civile, nel senso che la poesia di Pasolini ha sicuramente degli aspetti civili, nel momento in cui si adopera per esprime un dissenso verso la pòlis a favore dei cittadini, principalmente i più umili. Per questo l’ambivalenza oscilla tra una voce civile ma che ha i tratti della critica e dello scontro. Per intenderci, non è un poeta cortigiano, non è Ariosto, né Virgilio. Sicuramente dopo la sua morte si assiste, nella poesia italiana, a una sorta di elitismo, di autoreferenzialità che scava un po’ il solco tra il poeta e la pòlis, anche come pubblico. Dal Neo orfismo di Milo De Angelis al Mitomoternismo di Giuseppe Conte, nonostante i proclami pubblici; sono poetiche con una forte connotazione di aristocrazia del pensiero e della lingua. Ovviamente il fenomeno è complesso e non unitario, è sufficiente pensare ai titoli di Valerio Magrelli, Esercizi di Tiptologia (la tiptologia è la comunicazione che avviene durante una seduta spiritica con dei colpi sul tavolo) e Ora serrata retinae.
Scandalo e in-civiltà. Con Diogene la filosofia si fa scandalosa e incivile, esce dall’impegno politico e va oltre, estraniandosi anche dai costumi convenzionalmente riconosciuti dalla società. Allo stesso modo Pasolini è traversale a tutto ciò che tratta, scandalizzando la società, il PCI, la religione, lo Stato, la borghesia… Qual è l’opera pasoliniana che ritieni essere più incivile in questo senso?
La corrente dei cinici (Diogene) è una risposta alla criminalizzazione della filosofia, della condanna a morte di Socrate; se la pòlis manda a morte il suo cittadino migliore (o l’uomo più giusto commettendo la peggiore ingiustizia, come detto nella Repubblica platonica), la filosofia allora non potrà che rifiutare le norme della pòlis e divenire in-civile. Da qui gli atteggiamenti scandalosi di Diogene, dall’onanismo alla defecazione pubblica. Anche qui il fenomeno ovviamente non è unitario. Pasolini, nella mia interpretazione, si inserisce in questa corrente scandalosa, se così posso dire. L’opera più scandalosa, dal mio punto di vista, è sicuramente Salò; ciò che il potere può fare ai corpi (e di conseguenza alle persone) in quel film è veramente espresso con necessaria crudezza e crudeltà.
Pasolini disse più volte che la sua opera, seppur gli desse da vivere, era inconsumabile, inutile e, di conseguenza, invendibile (intervista curata e condotta da Enzo Biagi, durante la trasmissione “Terza B, facciamo l’appello”, 1971). Oggi è l’utilità che definisce l’inizio e la fine di un prodotto, e quindi la propria capacità di essere consumabile. Credi, a questo punto, che la poesia divenga “rifiuto” o lo è sempre stato, proprio perché, ontologicamente, non si inserisce all’interno di alcuna logica di mercato?
Mi fa piacere il vostro richiamo al rifiuto perché mi dà occasione di ricordare Guido Zingari che, su Pasolini, scrisse proprio un saggio dal titolo Ontologia del rifiuto. Naturalmente gioca sull’ambiguità del termine; rifiuto come capacità di dire no e come oggetto da eliminare, fino alle persone inamissimilabili alla società. La poesia non sarà mai utile, semmai necessaria, ma non avrà mai modo di declinarsi al positivo, le appartiene un negativo. La lingua nella poesia non ha la condizione della normale comunicazione tra parlanti, ma è sempre una lingua che tende a superare le regole della comunicazione, sia orale che scritta. In poesia la parola ha una temperatura e una carica diversa, di conseguenza non può essere né consumata né utile. Tornando a Pasolini, egli disse che la poesia (non solo la sua) è inconsumabile e, poiché non consumata, rimarrà, sopravviverà. Nel dire ciò, stava evidentemente richiamando anche gli aspetti testamentari dei suoi versi.
L’opera di Pasolini, in tutta la sua portata, manifesta apertamente anche un grande valore didattico: l’esperienza e la dimensione scolastica dell’insegnamento è sempre rimasto un elemento imprescindibile in lui. Non ci si rivolge all’Altro, ad un tu, per semplice referenza linguistica o espressiva, ma lo si fa per trasmettere un insegnamento, dei valori e delle idee. Vale lo stesso anche per il suo cinema? Davvero ha tentato una didattica nei confronti del pubblico di massa-borghese, oppure l’intento era un altro in quel caso?
Pasolini ha sempre avuto una fortissima spinta, o necessità, pedagogica. Fin dalla piccola scuola a Versuta nel Friuli, è poi stato un maestro a Ciampino per due anni. Poi l’insegnamento, la personale pedagogia, si è allargato al pubblico dei suoi lettori e poi degli spettatori dei film. Non a caso, Enzo Golino ha costruito la sua monografia su Pasolini proprio sul concetto di pedagogia, dell’essere un maestro naturale.
Nel tuo libro metti in relazione la figura dell’autore all’Altro, inteso come Diverso. Vorremmo citarti, a questo proposito, Petrolio, il romanzo che non comincia (e che non finisce) e, al tempo stesso, la summa del pensiero pasoliniano. Anche qui emerge fortemente l’Altro, in modo molto esasperato. Un Io, Carlo Valletti, che si scinde in due Altri, Carlo di Polis e Carlo di Tetis. Credi che questa scissione rappresenti semplicemente una contrapposizione tra “positivo” e “negativo” o sia, piuttosto, un modo per frantumare l’identità del protagonista? Due segni opposti, il cui prodotto non può che dare un risultato sottrattivo.
In Petrolio è presente la tematica del doppio, che potremmo accludere come alterità, ma la cosa interessante è che poi si presenta anche il transito dal maschile al femminile. Carlo diventa donna, ci sono riferimenti a Tiresia, infatti. La nota scena, che molti citano e che ha scandalizzato tanto, del rapporto omosessuale sul pratone della Casilina è, in realtà, una scena eterosessuale, Carlo è già divenuto donna. Condivido l’interpretazione di Emanuele Trevi che definsce Petrolio un romanzo iniziatico, i riferimenti mitici al vello d’oro e agli Argonauti, alcuni aspetti dell’Inferno dantesco, ne fanno un romanzo in cui emerge un’esperienza misterica. Parliamo sempre di un testo non ancora finito, incompiuto, non possiamo sapere come sarebbe divenuto se l’autore avesse continuato a lavorarci. È sicuramente un testo ‘impuro’, contaminato da diversi generi, non classificabile e non convenzionale, come afferma lo stesso autore.
In una lettera al direttore de “Il Mondo”, del 1975, Pasolini delinea un chiaro tracciato di come si muovevano al tempo gli esponenti della DC: “manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con petrolieri, industriali, banchieri, connivenza con la mafia, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), etc.”. Pasolini vede come unica soluzione per debellare questo sistema “che le file dei potenti democristiani sfilino ammanettate nelle aule di un tribunale”. Due anni dopo la sua morte, però, si assiste al tentativo di compromesso storico tra DC e PCI, due partiti non solo opposti, ma di cui uno avrebbe dovuto avviare, a detta di Pier Paolo, la condanna definitiva dell’altro. Come credi avrebbe giudicato Pasolini quella stretta di mano tra Berlinguer e Aldo Moro? E come avrebbe interpretato il conseguente sequestro dell’allora presidente della Democrazia Cristiana?
Domanda complessa e argomento molto aperto, provo a sintetizzare così. Aldo Moro fu l’unico a mandare le condoglianze a casa Pasolini dopo l’omicidio, mentre Andreotti disse che se l’era cercata. Non per nulla Pasolini considerava Moro il meno implicato in quella corruzione generale di cui chiedeva conto. Non credo che sarebbe stato a favore del compromesso storico. Sono sicuro che lo avrebbe osteggiato, e comunque anche il PCI non era del tutto convinto se votare a favore del compromesso, questo prima del rapimento del 16 marzo, poi, con Moro nelle mani delle BR, il governo si compattò, ma prima dell’evento criminoso non era scontata la votazione a favore. Naturalmente non possiamo dire come avrebbe giudicato il sequestro Moro, avrebbe deprecato la violenza, sicuramente avrebbe trovato una lettura non allineata degli eventi occorsi. Magari avrebbe fatto sua una frase che sarebbe stata detta anni dopo, ovvero che a Via Fani, al sequestro parteciparono ‘anche’ le Brigate Rosse, lasciando intuire una co-responsabilità atlantica. Non lo sapremo mai. Mi piace però ricordare che Leonardo Sciascia inzia il suo pamphlet su Moro ricordando, in un dialogo impossibile, proprio Pasolini e l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Lo scrittore siciliano non fece un testo giornalistico o di cronaca, né tanto meno un’apologia, ma fece un’analisi letteraria dell’evento basandosi sulle lettere di Moro (e chiamando in causa Pirandello e Borges), confutando così la vulgata che affermava che «Moro non era più lui», che scriveva sotto dettatura dei brigatisti. Sciascia dimostra la molteplicità di senso delle lettere di Moro, confermando le caratteristiche ben note del politico. Ecco, credo che Pasolini avrebbe fatto un discorso simile, con le dovute differenze, ma dello stesso spessore.
Ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia’. In questo passo, così come in altri, dell’articolo di Pasolini apparso sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974 (Cos’è questo golpe? Io so), sembra di assistere ad una parafrasi moderna dell’Apologia di Socrate: l’intellettuale/filosofo deve rimanere ai margini, senza mai entrare in politica, pena la corruzione dello spirito, dell’opera e quindi della verità stessa. Tuttavia, l’opera di Pasolini pretende un impatto civile e politico. Come si risolve questa ambiguità? Alla fine, la soluzione di Platone fu quella di mettere i Filosofi al governo…
Mi sembra sia stato Derrida a parlare di “Tentazione di Siracusa”, ogniqualvolta in cui un filosofo ha mire politiche. Platone, infatti, tentò per due volte con i tiranni di Siracusa di instaurare il proprio progetto politico e per poco non venne ucciso per questo. Temo che questa ambiguità o criticità non sia risolvibile, d’altronde già Machiavelli affermava che la politica non si fa con i “Pater Noster”, a significare l’inevitabilità del compromesso, dell’ambiguità, della ragione di stato. Insomma verità e politica non viaggiano insieme. Pasolini denuncia questo stato di cose, lo fa con lo scandalo e con una forma di contrapposizione costante. Aveva perfettamente colto quella dinamica che oggi si definisce sovranità limitata nel nostro paese, ovvero il fatto di essere stati sempre sotto il controllo statunitense in ottica anticomunista, per cui una vera e propria sovranità autonoma e libera non vi è mai stata. In Italia sono stati uccisi Enrico Mattei (autonomia energetica), Pasolini (autonomia intellettuale) e Moro (autonomia politica).
C’è stato un trauma evidente nel mondo degli intellettuali e della poesia dopo la sua morte. A quel Festival di Castelporziano del 1979, a soli quattro anni dalla sua morte, cos’era cambiato?
Devo ricollegarmi al discorso fatto in precedenza sulla poesia italiana egli ultimi anni. Io sostengo che negli anni ’70 ci sono stati due traumi per i nostri poeti, uno è l’omicidio Pasolini e l’altro il festival di Castel Porziano. Qui, infatti, in un clima da concerto, vennero fischiati i nostri poeti mentre gli unici a riscuotere consenso furono gli americani, soprattutto Allen Ginsberg, non certo per la qualità dei suoi versi ma per il fatto di aver presentato una performance tra il canto e la meditazione. In questo modo risultava in linea con il setting da concerto rock che il pubblico si aspettava. Questi eventi traumatici indirizzarono la poesia italiana, o una parte di essa, verso un’autoreferezialità che si manifesta con tematiche poco ‘civili’ e con forme non certo popolari. In questo senso parlo di similitudine con il trauma della morte di Socrate e la relativa risposta della filosofia.
Sull’omicidio Pasolini, ci sono tre ipotesi che vengono fatte, e che potrebbero essere confermate se l’inchiesta venisse riaperta. Tre ipotesi, e aggiungerei, una certezza: Pelosi non era solo quella sera all’Idroscalo (come aveva intuito anche il magistrato Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo Moro). La prima è l’ipotesi delle pizze di Salò; la seconda è l’ipotesi Petrolio, un libro in cui Pier Paolo si era forse infilato anche inconsapevolmente nelle vicende dell’Eni, fatti che grondavano corruzione da ogni parte, e che ruotavano intorno alla figura di Eugenio Cefis; e poi c’è l’ipotesi dell’assalto dei gruppi neofascisti: Pasolini era omosessuale, era comunista ed era quindi da tempo già nel loro mirino. Quale di queste tre è quella che ti convince di più?
Questo schema delle tre ipotesi è la vulgata che si presenta per spiegare questo omicidio, ma in questo modo le cose non si chiariscono, al contrario si confondono. Le tre ipotesi sono tre livelli dell’evento omicidiario. Semplifacando si potrebbe dire che il furto delle pizza sia stato l’esca, le indagini e le relazioni cha aveva intessuto per la stesura di Petrolio potrebbe essere il movente, mentre i fascisti sono la manovalanza criminale, o una parte di essa, che materialmente ha compito l’omicidio. Anche questo schema è però riduttivo perchè i protagonisti di questa ‘storia sbagliata’, come dice De Andrè, sono molteplici e coinvolgono vari livelli di Istituzioni. Inoltre, questi livelli non necessariamente hanno dialogato tra di loro, non apertamente. La dinamica dell’omicidio Pasolini porta la cifra di un continuo depistaggio che è la modalità di tutte le attività stragistiche messe in atto in Italia dagli anni ’60 fino a quelle degli anni ’90. Non posso presentare qui le caratteristiche, ma rimando ai lavori di Simona Zecchi e di Stefania Limiti.
C’è un tema costante nei tuoi libri, che corre come un filo rosso, attraversandoli: quello del pharmakon. Viene, infatti, spontaneo anche un parallelismo con Giordano Bruno (pharmakos), di cui hai ampiamente trattato in un altro tuo lavoro, anche lui ucciso in quanto capro espiatorio in senso stretto. Entrambe le loro morti sono state sacre, potremmo dire, nel senso di omicidi voluti da una collettività che ripudia e rigetta un corpo estraneo, e la cui morte la rende più unita e coesa, riassestandola. Credi, dunque, che anche Pasolini sia stato un pharmakos del suo tempo? Cosa è cambiato in quella collettività dopo la sua morte?
Avete colto molto bene uno degli aspetti del mio lavoro, Pasolini incarna perfettamente l’ambiguità del senso presentato dal pharmakon, la possibilità di essere sia rimedio che veleno. Pasolini vorrebbe essere una sorta di rimedio ma viene accolto come veleno, in qualche modo è la ripetizione della tragedia di Edipo. L’aggettivo sacro in questo senso va colto nella ritualità antropologica, nel senso di rito che propizia un evento purificatore per la tribù o la società. Allontanare o uccidere un capro (espiatorio) significa far ricadere su di esso il male o la malattia, per sanare una città o un villaggio. In termini platonici è l’uomo giusto ingiustamente condannato, che poi è alla base del mito crtistiano. Dopo la morte di Pasolini si assiste alla nascita dei pasoliniani. Tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno approfittato di una notorietà per riflesso, i sedicenti amici, i testimoni oggettivi, gli allievi, i sostenitori ad oltranza e via dicendo. Hanno fatto più danni che altro, presentando un santino svuotato di intelligenza e complessità.
Il tuo testo parte dalla morte dell’autore e si conclude ritornando alla morte. Riprendendo la citazione hegeliana “la nottola di minerva prende il volo sul far del crepuscolo” credi che ci potesse essere una fine diversa per un intellettuale del genere? O meglio: un processo si comprende solo per il fatto che è stato compiuto o anche per come è stato compiuto? Ti immagini un Pasolini morente di vecchiaia o vittima di un attacco di cuore? Credi che il mistero e la violenza della morte di Pasolini contribuiscano a rendere Sacra la sua esistenza, così come la sua opera?
Credo che quella morte giustifichi e dia senso a tutta la vita e l’opera di Pasolini. D’altronde lo aveva espresso anche lui, è la definizione della “morte come montaggio della vita”, è solo alla fine, e nella modalità della fine, che si assegna un significato definitivo al vissuto personale (non è molto originale come cosa, Kant e Heidegger lo avevano già detto). Il che non vuol dire che volesse morire, tutt’altro, era affamato di vita. Sicuramente Petrolio o anche il film su Salò, così come gli articoli del Corriere della Sera, se oggi vengono interpretati in un certo modo è in virtù di quella morte violenta. Se fosse vissuto e morto di vecchiaia probabilmente le interpretazioni sarebbero state diverse. In questo modo la morte diviene un atto ermeneutico, indirizza inevitabilmente un significato. È questo il senso della nottola di Minerva, la filosofia non è cronaca dell’attualità, ma interpretazione degli eventi accaduti, per questo arriva tardi, alla fine del giorno, di notte.
Intervista di
Lea Spanò e Claudio O. Menafra