Nel bestiario poetico di Paola Silvia Dolci
Paola Silvia Dolci, nata e residente a Cremona, è ingegnere civile. Si è diplomata presso il Centro Nazionale di Drammaturgia. È armatrice e comandante dello sloop Noix de Coco. È giornalista, e collabora con diverse riviste letterarie e testate nazionali. È autrice, traduttrice, e direttrice responsabile della rivista indipendente di poesia e cultura Niederngasse.
In quest’intervista ci occuperemo delle sue ultime due pubblicazioni: Diario del sonno (Le Lettere, 2021) e Dinosauri Psicopompi (Anterem, 2022). Il primo un diario, pastiche fra prosa e poesia, in cui l’autrice ripercorre i ricordi emersi durante alcune sedute di psicanalisi. Il secondo una raccolta di calligrammi, in cui il verso si affianca a disegni di dinosauri realizzati dalla stessa Dolci. L’opera, pubblicata da Anterem, è arrivata finalista al XXXV Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano.
Fra le altre pubblicazioni dell’autrice, si ricordano: Bagarre (Lietocolle, 2007), NuàdeCocò (Manni, 2011), Amiral Bragueton (Italic Pequod, 2013), I processi di ingrandimento delle immagini (Oèdipus, 2017), bestiario metamorfosi (Gattomerlino Superstripes, 2019), Portolano (Mattioli1885, 2019), un libro segreto sotto pseudonimo (2021).
«I miei mostri seminano angoscia, io li adoro»
La tua poesia prende forma su scheletri di dinosauri. Pensieri su qualcosa di estinto, forse, il cui peso riemerge e sopravvive nel presente. Come sono nati i tuoi dinosauri?
I dinosauri mi piacciono perché non fanno parte della mia esperienza concreta, ma sono esistiti. «Quando ero un dinosauro, quando eravamo dinosauri», dicevo da bambina, e lo penso ancora. Mi identifico con i vari dinosauri, e acquisto caratteristiche che sono sempre nuove: così, posso inventare un numero infinito di storie. I dinosauri sono i mostri. I simboli delle mie paure. Qualcosa, prima da distruggere, e poi da adorare. Sono attratta dai personaggi pericolosi. I dinosauri non sono così diversi dalla strega, dall’orco, eccetera. Gli psicopompi sono quelle figure che svolgono la funzione di condurre le anime dei morti nell’oltretomba.
Se penso alla morte, ho paura della solitudine.
Ho un cane, posso capire il motivo per cui in molte culture sia il cane ad accompagnare i defunti. E perché i faraoni si facessero mummificare insieme ai loro levrieri. Io mi faccio accompagnare dai mostri pericolosi con i quali provo a giocare. Per quanto riguarda la forma, ho scelto il calligramma. Il contenuto di quasi ogni testo rappresenta un elemento onirico, sono quasi tutti sogni o elementi di sogno, mentre il disegno del dinosauro incarna un elemento dell’inconscio.
Ho venticinque anni.
Dopo due mesi di astinenza da quando mi sono ammalata Luca ha ripreso a fumare tutte le sere prima di andare a letto. Al mio primo attacco di panico, mentre arrivava l’ambulanza, si era convinto che fossi un licantropo che si stava trasformando in un lupo.
La nottata è stata terribile, fredda, il naso ghiacciato. Tentavo di scaldarmelo con la testa sotto le coperte. Dodici ore a letto per sopportare la temperatura, in casa ci sono undici gradi.
Io lo sapevo che venire al lago sarebbe stato così.
Dottore io voglio essere aiutata.
Paola Silvia Dolci, Diario del sonno (Le Lettere, 2021), p. 56
Ho vent’anni.
Da casa ci spostiamo in ditta, sembra un ospedale.
Paola Silvia Dolci, Diario del sonno (Le Lettere, 2021), p. 75
Il mio lavoro consiste nel testare la qualità di medicinali che inducono una morte apparente. Presa la pillola devo infilarmi in una cabina bianca e orizzontale, Maddalena, la responsabile dell’ufficio commerciale, viene a controllare, con grande tranquillità e attenzione, tutte le cavie. Io soffro tantissimo. Non è una buona medicina. Non allevia i dolori. Si sta male e non lo si può nemmeno comunicare. Siamo in due, cavie. Finisce l’effetto e vedo che l’altra è Chiara, una mia collega universitaria. Molto onestamente, le chiedo: «come mai, tu così ambiziosa, che avevi già la strada spianata, tu così ambiziosa e con un ottimo lavoro, vieni a prestare questo servizio così umiliante?».
Nella tua opera è sempre presente un’indagine di tipo psicologico che tu compi su te stessa, ripercorrendo diari, lettere, ricordi. Non posso fare a meno di pensare al precedente di Lalla Romano, che ne Le parole tra noi leggere (1969) interpreta psicanaliticamente il rapporto con il figlio attraverso tutti i materiali disponibili. Eppure, scrive, «temo di avere appena scalfito il blocco della sua personalità. Temo di avergli girato intorno. Come nella vita». È capitato anche a te?
Tutta la mia vita è lettura, leggo moltissimo ogni giorno, e riverso la lettura nella scrittura. In una recensione ad alcuni miei testi, il critico Daniele Barbieri ha scritto che le mie citazioni non sono famose, più spesso sembrano parole pronunciate a margine, colte quasi per caso. Che parlo con la bocca di altri scrittori che citano altri scrittori, poeti e pittori, ma non con l’aria di dire grandi cose. È la minuzia del quotidiano a colpirmi, lo sconcerto per la normalità delle piccole cose nel loro apparire improvvisamente singolari, improvvisamente spostate, viste da fuori, attraverso una nuova voce.
Nella psicanalisi, come nella poesia, sembra non possa esserci altro che un fantasmagorico gioco di specchi, in cui l’io si riflette mille volte senza permetterci mai di sapere quale sia l’immagine reale, o anche solo se ce ne sia un’immagine reale, o se reali non siano piuttosto tutte.
Perché gli altri parlano attraverso me, e io parlo attraverso gli altri. Per questo ho inanellato una serie di citazioni false, o di attribuzioni sbagliate, all’interno di questo libro.
Scrivi: «Più geometria, più spigoli, più tagli». Paola Silvia Dolci è poetessa e ingegnere civile. Quanto questi due aspetti della tua vita si compenetrano?
Dice il mio biografo, il settecentista Trasciatti, che «l’ingegneria è raziocinio, misurazione, calcolo. La poesia, che da almeno centocinquant’anni ha smesso di avere regole precise, è un terreno dove vige l’analogia, il linguaggio associativo, in un certo senso siamo agli antipodi delle applicazioni razionali del pensiero. Quindi ingegneria e poesia si compenetrano nella misura in cui ognuna fa i cazzi suoi».
Ho ventisei anni, torna Luca. Mi scrive, ci incontriamo, ci baciamo. Non provo nulla e voglio vendicarmi. Mi piace. Mentre sono al lavoro mia madre va a trovarlo e dice che è sincero e che mi posso fidare. Lascio gli altri due. All’inizio ha paura. Non vuole fare l’amore con me, pensa che io lo voglia ma non sono pronta nemmeno io. Fa cilecca. Mi sento responsabile. Credo di non piacergli. Poi il sesso funziona. Abbiamo rapporti quotidiani, salvo i giorni in cui io sto male, ho mal di pancia. Raggiungo sempre l’orgasmo e lui pure.
Ho ventotto anni, Luca soffre di eiaculazione precoce, se invece si trattiene non riesce più ad avere orgasmi. Mi sento sola. Non voglio più fare l’amore con lui.
Paola Silvia Dolci, Diario del sonno (Le Lettere, 2021), p. 45
Ho quattro anni.
Mi ama così tanto che si è fatto un calco della mia figa, dice che mi ama così tanto che non riesce solo a baciarla, a mangiarla ma deve sputarci dentro il cibo.
Paola Silvia Dolci, Diario del sonno (Le Lettere, 2021), p. 48
In Diario del sonno compaiono molti uomini, ma, dici, «ne ho amati due o tre». Maschi insoddisfacenti, spesso feticci sessuali di cui vendicarsi. Emerge il desiderio di una donna, senza filtri moralistici, che reclama per sé il diritto al piacere. Si tratta di una presa di posizione volutamente femminista?
Si tratta di una presa di posizione volutamente amazzone, sessantanove, e anche missionaria. Porresti mai la stessa domanda a uno scrittore? Chiederesti a un uomo se l’espressione di un desiderio sessuale e del conseguente piacere siano “prese di posizione”?
La superficie oleosa del mare,
un lombrico,
una pelle di maiale.
Questo corpo è un animale
che mi sento gettato addosso.“Così ho riunito tutti i cani che potevo
Paola Silvia Dolci, Dinosauri Psicopompi (Anterem, 2022), p. 20
perché venissero nel letto con me;
e i topi hanno mangiato le colombe
durante la notte.”
Nella tua poesia sembra che il tema “più insistente”, come lo chiamerebbe Starobinski, sia quello dell’animalità. E così, oltreché di dinosauri, scrivi di lupi, farfalle, maiali. «C’è un grosso rettile […] e io lo blocco tra la testa e il corpo, sul collo, con una mano. Non diventa innocuo ma non può nemmeno farmi male. Il pericolo è scongiurato ma non posso restare in questa situazione in eterno». Alla fine, meglio sopprimere questi animali o addomesticarli?
Né l’una, né l’altra opzione. Sono mostri che seminano angoscia, ma che io adoro: totem. Credo che dovrei pensare un po’ ogni giorno alla mia morte. Provo a ucciderli, ma non ne ho la forza, e so che se ci riuscissi dovrei prendere io il posto del mostro. Ma io voglio che la vita continui. Io li venero, e loro mi divorano.
Postilla dell’intervistatore: Riguardo alla quarta domanda, l’avrei rivolta ugualmente a un uomo, come a una persona non binaria, in quanto, a mio modesto parere, ogni cosa che si scrive implica un posizionamento, già per il semplice motivo che essa potrebbe essere presentata in termini diversi, nel suo esatto contrario, o del tutto omessa. Abbiamo un canone letterario quasi interamente maschile, fallogocentrico, in cui non c’è stato spazio per voci diverse da quelle eteronormate. I modi in cui si parla di sessualità esprimono perciò anch’essi una visione della realtà e un posizionamento nei confronti della tradizione. Se avessi davanti Charles Perrault e Angela Carter, che nel 1979 riscrisse i racconti del primo, chiederei all’uno e all’altra il perché della loro narrazione.