Ecco, ora la luce febbricitante che proviene da quella lampada posta all’angolo della mia camera mi fissa in un’istantanea color seppia, proiettando tutt’intorno ombre sulle pareti giallastre, che ramificano in figure insolite e stranianti. In alcune credo di vedere dei volti, in altre sagome di animali, come in una pittura rupestre, ma poi mi batto la testa con la mano e mi volto dall’altro lato.
Un vociare filiforme s’insinua e trasale nella mia mente, invadendo tutto il mio spazio interiore. Le voci sono la dimensione in cui viviamo, le coordinate entro cui si srotola l’intreccio della nostra vita. Richiami da un altro mondo, che vogliono la mia attenzione. Ascoltare è rinunciare a tutto il resto per darsi all’altro, diventare l’altro, morire per l’altro.
L’ultimo sbuffo di sigaretta traccia nell’aria un pulviscolo grigio e caotico che vola verso l’alto, dissipandosi in disegni inconsistenti. Filamenti che s’aprono fino a sfaldarsi, fino ad annientarsi e confondersi col vuoto in cui galleggiano gli elementi.
Ecco, proprio ora, il sonno comincia la sua inesorabile discesa su di me, e il mio corpo, tutto, è avvolto da un tepore pervasivo. Non mi appartiene più.
Non ci sono immagini particolari che ne anticipano la venuta, ma tutto intorno diventa confuso, si mescola, si scardina, scricchiola, la realtà perde di consistenza e, da rigida che era, si fa acquea, mobile e instabile. Vedo forse mia madre, sento la sua voce in fondo, chiamarmi.
Non sono più sicuro di esser sveglio perché ogni cosa mi appare estranea: l’aria calda e umida formatasi nella stanza si deposita come uno straccio unto sulle mie braccia.
C’è vita sulla mia pelle, a mia insaputa.
Il mondo si agita e si trasforma, i ricordi si fanno indistinti.
Ora, non ho più alcun dubbio: sto certamente sognando.
Si tratta di un pensiero deleterio, ad ogni modo. Il fatto stesso di essere consapevoli di qualcosa, rende quell’azione meccanica, impacciata e ne aumenta il margine di errore. Sto sognando, e il saperlo mi infastidisce, limita la mia fantasia. Il pensiero è, appunto, un’inibizione.
Intanto, poi, quella nuvola di fumo è sparita, e a stento cerco di individuare le ultime tracce che ha lasciato nell’aria. Ma senza risultati. Ormai è un tutt’uno con l’ambiente intorno. Sto sognando, dovrei essere tranquillo, ma invece non lo sono. L’appartamento ha preso vita: un’acuta percezione della realtà. Tutto si muove, bruca, trema e si riposiziona.
Mentre la mia mente cerca di vincere la liquidità del sogno, invocando il dominio del vecchio Re, il mio sguardo, ora svincolato dalla volontà, si muove con libero sfogo.
Il mio sguardo è avido, vuole conoscere questa nuova realtà che gli si presenta davanti. Così, decido di seguirlo, ed è lui a condurmi su nuove vie. Era tutto già visto, ma ora quelle stesse cose si ridestano, prendono nuova vita e narrano storie diverse. Storie che non sono mie, non appartengono ai miei ricordi. Il buio vorrebbe fagocitare il barlume della mia lampada, ma non vi riesce del tutto: si sforza di farlo, avanzando, ma è tutto inutile. Il mio sguardo rinnovato si è ormai abituato all’oscurità, tutto è più chiaro, al buio. Più avanza, più si fa forte e più la mia fantasia si sbroglia e continua a dipingere con i colori del sogno.
Dall’oblio, arriva un’immagine: viva, chiara, distinta, ma allo stesso tempo caduca, potrebbe svanire da un momento all’altro. Mi chiama, mi avvicino, e mi accoglie. Una visione che è come un universo, la si può percorrere, girare e rigirare, guardandola da diverse angolature. I particolari si affollano su di essa. Il mondo si schiude, così, su di un letto bianco, irrorato da un fascio di luce che rivela la vita pulviscolare dell’ambiente. Le lenzuola appena sfatte dal passaggio del vento: l’aria soffia morbida ma decisa da una finestra che è rimasta aperta.
Seguo con avidità le pieghe di quelle lenzuola, le vedo comporre dei tragitti inconsueti, il loro stropicciarsi crea dei vuoti d’aria, dei canali dentro i quali affondo il mio sguardo e striscio al loro interno, avvolto dal profumo della primavera. Continuo a sbucare da un canale all’altro, finché non trovo la luce, ed esco fuori.
A poco a poco, quelle coperte prendono una forma sinuosa ma delicata: al di sotto, un corpo caldo, tremante. Un respiro denso. Una gamba che diventa busto, un braccio che si radica nel materasso con le sue dita attraversate da minuscole vene azzurrine.
Lei è lì. Come una traccia di significato inesprimibile. Il suo sguardo mi inchioda, scava dentro la memoria e non consente obiezioni. Sul suo petto, un fiore smorto e appassito: bianco, ancora integro, ma prossimo alla morte. Mi fissa con distacco e non riesco a sfuggirle. Non c’è parola tra di noi, non c’è complicità. Eppure lei è lì per me e osserva con pacatezza il mio raccapezzarmi in questa nuova e sconosciuta realtà.
Quando mi accorgo che il mio sguardo la sfiora, il suo corpo prende nuovamente vita e si fa tremante, mentre le sue morbide articolazioni diafane mi cingono in un abbraccio sottile, impercettibile. La sua vita pulsa sotto le lenzuola e le sue forme mi invitano a scendere nuovamente su di lei, ma non devo farlo. Non posso farlo.
C’è un timore sordo che m’inquieta e getta una tensione su tutto la visione.
Non appena decido di infrangere quella distanza, allora lei, trasognata e inerte, comincia a sbiadire, a dissiparsi, rivelando l’inconsistenza dell’immagine. Più la desidero e più si fa lontana: fermati! Non andare oltre. Rispetta il delicato equilibrio di quella distanza.
Mi rimane lo sguardo, però: segreto, avido e indagatore, si spinge sempre più a fondo in lei, su di lei, fino ad un ultimo spasmo.
Ci sono solo due verità a cui posso essere fedele: il dolore e la voluttà, ed entrambe si concentrano in lei. Dolore della distanza implacabile e irriducibile che ci separa. Desiderio di infrangere tutti gli spazi che impongono la tirannia dell’assenza ai nostri corpi.
Concentrati!
Non lasciarti andare! Tutto potrebbe svanire, mantieni l’equilibrio e dosa la tua avidità…Ma è implacabile il desiderio, non lo si può soffocare, non lo si può vincere.
Lentamente dal suo petto si stacca una perla dalla superficie di quel fiore smorto e decadente, che prende luce e dissipa le ombre intorno. Quella pietra brilla in superficie ma porta con sé via tutto il resto intorno: non posso scegliere, il mio sguardo comanda la visione. Ad un tratto è lei che mi si fa vicino, e io istintivamente mi allontano per paura di trasgredire il mandato degli spazi che ci separano.
Potrei perderla se si avvicinasse troppo!
Si avvicina, mi chiede qualcosa di indistinto che non riesco a trattenere, forse vuole donarmi quella perla, oppure il fiore smorto intriso del suo odore: lo ha tenuto per tutta la notte accanto alla sua pelle, sotto il tepore del suo respiro. Si avvicina.
Finché tutto ciò che sta dietro quel fiore comincia a sbriciolarsi, a dissolversi nell’ombra. La luce della perla si spegne e bruscamente cala di nuovo la notte. Intanto lo sguardo lotta, cerca e fiuta ovunque tracce di ciò che è ormai perso, senza risultati. Tutto dilegua. Tutto finisce. Con un balzo della mano cerco di arraffare almeno quel fiore, ma mi accorgo che non ha consistenza e sfiorisce proprio nel distacco da lei. Ciò che lo manteneva in vita era il suo corpo, ora lontano.
Tutta la visione finisce in un sol colpo e fa ritorno nella stessa oscurità che l’aveva partorita.
Un soffio d’aria leggera ritorna anche in me, mi riempie nuovamente i polmoni. Sono stato in apnea per tutto il tempo. Ritorno al consueto ritmo e noto che è ancora tutto come l’avevo lasciato: la lampada, gli scaffali, persino il fumo della sigaretta ancora integra si distingue nettamente dal resto, pur essendosi disperso nell’aria. Ma qualcosa è cambiato.
Ora, mentre la mia schiena affonda sempre di più nel materasso solitario del mio letto, mi rendo conto di essere stato in estrema tensione per tutto il tempo. Mi lascio andare nel vuoto, la memoria mi pesa. Ma un colpo bussa al mio petto, come una fitta che brucia, come un ricordo riemerso.
E capisco tutto quello che non ho mai capito sino a questo momento.
Ti amavo, e non lo sapevo. Mi amavi, e non lo capivo.
Per questo posso ora annegare nelle mie lacrime e al pianto sordo di una notte di rivelazioni.