Privacy Policy Antonia Pozzi - Mi sento in un destino- Pt1 - The Serendipity Periodical
Antonia Pozzi - La vita sognata

Antonia Pozzi – Mi sento in un destino- Pt1

Antonia Pozzi: la vita sognata attraverso le sue parole e la scelta di un destino.

Quando a guardarsi allo specchio è una poeta nel pieno dell’adolescenza, non può che riversarsi in poesia tutta la coscienza della propria fragilità e, al contempo, della propria energia.

Per troppa vita che ho nel sangue

tremo

nel vasto inverno

Sono questi i versi che Antonia Pozzi, a ventitré anni, sigilla nel suo taccuino e che diventeranno emblema della sua poetica. Ma Antonia dissemina in molte altre pagine dei suoi scritti, nei diari e nelle lettere, riflessioni sulla propria fisicità: il corpo di una donna che ama scalare le montagne più ripide, e che pure si dimostra piccolo e impotente di fronte al dramma della vita.

Antonia Pozzi

Nata a Milano nel 1912 da un avvocato e una contessa, Antonia Pozzi conduce da giovane la vita di una comune ragazza altolocata: studia al liceo classico, frequenta i migliori ambienti lombardi, trascorre le vacanze in campagna e pratica sport, innamorandosi della scalata. «La montagna è una palestra insuperabile per l’anima e per il corpo», scrive alla nonna nell’agosto 1929, inerpicandosi sulle Alpi per la prima volta: «un’ebbrezza folle ti invade e l’adorazione selvaggia della tua fragilezza ardente che vince la materia». Come racconterà anni dopo al compagno Dino, Antonia ha tutto quello che si possa desiderare dalla vita. «Ma lei ha tutto, ha visto tutto, ha goduto tutto: che cosa può desiderare ancora nella vita?», le chiede un sacerdote osservando le sue fotografie. «Che cosa posso ancora desiderare? — Avrei voluto rispondergli —: Ma precisamente il contrario di quel tutto: spogliarmi di tutto il superfluo».

Antonia Pozzi, Monte Rosa, 1933

L’amore per Antonio Maria Cervi

Il dolore esistenziale di Antonia Pozzi pervade la sua intera opera poetica. È quello che Enrico Fusco chiama, nella sua Storia della lirica, «un permanente ineffabile tormento: ansia di vivere e senso dell’ignoto». Gli studi critici hanno cercato di rintracciare le cause di questo male nelle coordinate biografiche della poeta. Antonia si innamora infatti, ancora sedicenne, del suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi, e la prima delusione arriva quando l’insegnante viene trasferito a Roma:

È stato atroce: non ho saputo che piangere, e piangere, e piangere per due giorni che sono finora i più bui ch’io abbia avuti nella mia vita

confida sempre alla nonna. La relazione viene mantenuta segreta dai due, procedendo attraverso incontri furtivi, corrispondenze epistolari, scambi di libri, finché Cervi non chiede a Roberto Pozzi la mano della figlia nel marzo 1933. La proposta trova la ferma opposizione dell’avvocato e Antonia, rispettando la decisione del padre, non vuole insistere. Alcuni giorni dopo scriverà all’amico Tullio: «io ho perduto i miei occhi di un tempo e la primavera non ha più voci per me che non siano di strazio».

Il figlio mai nato

La giovane poeta non rinuncia comunque ad incontrare nuovamente il suo Antonello e, in un viaggio verso Napoli, fa tappa a Roma, davanti alla casa dell’uomo: «mi pareva di deporre sulla soglia della tua casa tutta la mia anima, tutta la mia vita, come un pesante fardello […] pensavo che — proprio — avevo toccato il fondo, che più niente avevo da rinunciare — che Dio non mi chiedeva di più, perché di più non potevo — non potevo scavare su dall’anima per darglielo». Il rapporto fra i due si scioglierà lentamente, con dolore, e Antonia porterà per sempre sulle spalle il lutto di un figlio mai nato, che avrebbe voluto chiamare Annunzio come il fratello del professore, prematuramente scomparso.

La vita sognata

È sempre nel 1933 che confeziona La vita sognata, una suite di dieci poesie in cui racconta la propria rinuncia alla realtà («Tuffarmi nella realtà sarebbe un perdere il mio di me stessa e smarrire completamente il senso della mia vita», scrive all’amica Alba); la breve raccolta comprende per l’appunto una poesia dedicata al bambino mai avuto, per il quale la madre mancata immagina un’«invisibile bara»: «In te sarebbero ritornati i morti / e vissuti i non nati, / sgorgate le acque / sepolte».

Antonia Pozzi, Angelus della sera (Pasturo, estate 1938)

Di qui nasce un nuovo motivo di disagio esistenziale, che la critica ha spesso ricollegato alla condizione della donna in epoca fascista. Graziella Bernabò, una delle più autorevoli studiose di Antonia Pozzi, osserva come

l’emancipazione apparente a cui Roberto Pozzi aveva spinto la figlia attraverso un’educazione raffinatamente moderna strideva in modo evidente con la situazione d’inferiorità della donna in età fascista e con le continue sollecitazioni alla maternità biologica allora rivolta alle bambine fin dalla più tenera età. In effetti Antonia, come altre ragazze del suo tempo intellettualmente dotate, si sentiva stretta tra l’aspirazione a un protagonismo culturale e letterario (quello sociale non le interessò mai) e il desiderio, invece, di un’esistenza più semplice, all’insegna di un sogno di felicità domestica in quanto sposa e madre. […] Contrasti di questo tipo possono produrre nelle giovani donne […] forme significative di disagio, rendendo difficile ai loro medesimi occhi l’assunzione di una precisa fisionomia […]. È in tale chiave che si può forse spiegare l’inquietante emergere in Antonia, già all’alba della giovinezza, di una problematica rispetto alla consapevolezza di sé in precedenza non presente in lei.

Bibliografia

  • Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Àncora, 2014;
  • Antonia Pozzi, Poesie, lettere e altri scritti, a cura di Alessandra Cenni, Mondadori, 2021;
  • Graziella Bernabò, Antonia Pozzi e la poesia del corpo, in Dialogoi. Rivista di studi comparatistici, anno 7/2020, pp. 155-172;
  • G.A. Pellegrinetti, Antonia Pozzi, in Un secolo di poesia, Petrini, 1960, pp. 468-570.

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