Un romanzo paradossale per riflettere sul peso dell’intelligenza
Fiori per Algernon è un romanzo scritto nel 1959 da Daniel Keyes, autore di fantascienza, che con quest’opera (nata come racconto e diventata romanzo) vinse dapprima il Premio Hugo e, successivamente, il Premio Nebula. L’autore, dopo essersi laureato in Psicologia, ha insegnato a lungo, soprattutto a ragazzi con difficoltà di apprendimento. Proprio questo lavoro gli ha fornito lo spunto per il suo esordio narrativo, “Fiori per Algernon”, divenuto successo mondiale.
Fiori per Algernon
Il protagonista Charlie Gordon è un uomo mentalmente ritardato che sogna di diventare intelligente per poter ricordare, immaginare, pensare e, soprattutto, per poter essere amato. Attraverso la sua insegnante, la signorina Kinian, incontra il dottor Strauss e il professor Nemur, che gli offrono la possibilità di toccar con mano il suo desiderio più grande. Così, Charlie accetta di subire un’operazione al cervello a cui, fino ad allora, era stato sottoposto soltanto un topo, il piccolo Algernon.
Lo stile e il tempo di Fiori per Algernon
Lo stile iniziale del libro affascina subito aderendo all’analfabetismo di Charlie e creando, quindi, una specie di lingua nuova, o meglio, parallela. Per chi legge, la sensazione è quella di una clessidra: gli occhi galoppano tra tutti i primi “rapporti sui progressi”, così viene scaglionato il procedere degli eventi; poi, il tempo della narrazione e quello della lettura rallentano nelle pagine centrali e il finale arriva a cascata, in pochi secondi, così come si era sfacciatamente presentato l’inizio.
Che cos’è l’intelligenza?
Il tema centrale è l’intelligenza; la sua assenza, il suo eccesso e, tra questi due poli, il suo significato. È frequente parlare dell’amore come di qualcosa di difficile da definire, eppure l’intelligenza lo è altrettanto. Cos’è l’intelligenza? È una provetta da riempire con tutte quelle conoscenze che ci rendono interessanti? Se così fosse, allora solo gli intelligenti sarebbero degni di essere ascoltati, compresi, amati. Questo è ciò che Charlie crede all’inizio del libro e che gli tornerà indietro come un boomerang colpendolo con la potenza di una menzogna.
Ma ho imparato che la sola intelligenza, la cultura, la conoscenza sono diventate tutte grandi idoli. Ma io so adesso che voi tutti avete trascurato una cosa: l’intelligenza e l’educazione che non siano temprate dall’affetto umano non valgono nulla. […] L’intelligenza senza la capacità di dare e ricevere affetto porta ad un tracollo mentale e morale, alla nevrosi e forse anche alla psicosi. E io dico che la mente assorta e chiusa in sé stessa come un fine centrato nell’io, a esclusione dei rapporti umani, può condurre soltanto alla violenza e al dolore
Un’esistenza da correggere
Se un alto quoziente intellettivo non corrisponde alle aspettative di felicità e amore agognate da Charlie Gordon, qualcos’altro, dopo l’operazione, si rivela conseguenza frustrante ma necessaria di quell’intelligenza che niente ha a che fare con la competenza. Ricordare. Accanto ad un’ortografia perfetta, a un ricco vocabolario e alla consapevolezza di essere stato deriso per tutta la vita, Charlie è assalito dai ricordi della sua infanzia. Il padre che cercava invano di proteggerlo da una madre che, sempre alla ricerca di un medico, non mancava di rimproverargli e di voler correggere la sua esistenza. E una sorella, finalmente normale, che non faceva che rendere quest’esistenza ancora più miserabile.
Soltanto quando Norma le ebbe dimostrato che era capace di mettere al mondo figli normali e che io ero uno scherzo di natura, smise di tentar di rimediare al fatto, ma io, suppongo, non smisi mai di desiderare di essere il bambino intelligente che lei avrebbe voluto, affinché potesse amarmi.
Vale la pena di conoscere il passato?
Se conoscerlo vuol dire portare in vita ricordi remoti, dar loro un nome e una dimensione, scoprire che ci hanno letteralmente modellati come argilla nelle mani di uno scultore? Charlie Gordon risponde a tale quesito e vi risponde. La sua vita, particolare nei dettagli biografici, in una lente più sfocata, appare come quella di tutti noi. Una vita nata, data, e poi scelta. Ma si può scegliere nella gabbia di una demenza? E si può scegliere nella gabbia della saccenza?
Ora capisco che la via ch’io scelgo nel labirinto fa di me quello che sono. Non sono soltanto una cosa, ma anche un modo di essere, uno dei tanti modi, e conoscere le vie che ho seguito e quelle che non ho preso mi aiuterà a capire che cosa sto diventando.