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Il socialismo liberale di Saragat: ‘una scelta di civiltà’ contro lo stalinismo e la reazione

Il socialismo liberale di Saragat: ‘una scelta di civiltà’ contro lo stalinismo e la reazione

La naturale dedizione al divisionismo

C’è stata sin da sempre, all’interno del Partito Socialista Italiano, una componente congenita volta alla formazione di gruppi politici autonomi. Una tendenza al divisionismo interno, e questo a partire, soprattutto, dall’emergere delle correnti massimaliste rivoluzionarie e minimaliste riformiste che definirono di volta in volta il destino del partito. Questa indole emerse con maggior vigore all’indomani del primo dopoguerra, quando scoppiò l’emergenza dinanzi alle violenze che il fascismo cominciava a dichiarare più o meno apertamente. Una prima svolta in questo senso, innescata dalla radicata instabilità interna e strutturale del partito, si manifestò la sera del 3 ottobre 1922. Pochi giorni prima della ‘fatale’ Marcia su Roma di Mussolini, proprio durante il XIX Congresso del Partito Socialista Italiano. In questa occasione, i riformisti capeggiati dall’eminente figura di Filippo Turati furono espulsi dal partito con l’accusa di aver ceduto alle lusinghe della borghesia liberale, violando quel categorico divieto di collaborazione da sempre osservato[1]. Il leader riformista si era, di fatto, presentato alle consultazioni regie per la costituzione del nuovo governo, quelle stesse che videro la disfatta definitiva del ministero di Giolitti ed il nuovo incarico per Luigi Facta. Il giorno seguente, in piena clandestinità politica, nasceva il Partito Socialista Unitario per opera dei riformisti Turati, Matteotti, Modigliani e Treves[2].

Il tentativo di riunificazione all’estero

La componente riformista fu, pertanto, definitivamente allontanata dal movimento e così quelle che un tempo furono delle fisiologiche correnti di partito, divennero partiti autonomi con una propria organizzazione. Nel frattempo, il governo fascista iniziò ad emanare i primi provvedimenti liberticidi che prevedevano la soppressione dei giornali e dei partiti ostili. Si inaugurò, così, lo stato totalitario, che costrinse i partiti d’opposizione a ripiegare all’estero. Da questo momento, l’unione delle due componenti del PSI non potrà più avvenire in territorio italiano, almeno fino alla fine del secondo conflitto mondiale[3]. Per tali ragioni fu a Parigi, nel luglio 1930, che si tenne il ‘Congresso dell’unificazione’, a cui avrebbero preso parte sia i socialisti nenniani del PSI, sia quelli turatiani del PSULI, costituitosi nel 1927. Le lunghe discussioni di quell’anno culminarono nella ‘Carta dell’Unità’ che riconfermava l’adesione unanime all’ideologia marxista, l’unica in grado di conciliare l’esigenza di libertà e lotta di classe[4].

Una rivoluzione democratica

È interessante notare come nello storico documento non comparisse mai la formula ‘dittatura del proletariato’, di chiara matrice comunista. Mentre tutta l’argomentazione era in perfetta armonia con l’ideale socialdemocratico riformista di conquista rivoluzionaria della democrazia attraverso una costruzione graduale del socialismo; il documento mostrava l’esile equilibrio di una decisione tanto cagionevole quanto provvisoria. Sin da allora, Saragat e larghe fazioni del partito non fecero riferimento alcuno ad una possibile alleanza con il Partito Comunista, esaltando si la liberazione del proletariato ma attraverso un sistema democratico[5]; la posizione del partito, pertanto, era quella di un comunismo non ortodosso, ma positivamente contaminato dai valori della democrazia liberale, in aperto contrasto anche con le posizioni di Carlo Rosselli[6] espresse circa trent’anni prima[7].

La scissione di Palazzo Barberini

Date tali premesse, la scissione di Palazzo Barberini del 1947 appare come l’epilogo coerente di una direzione già imboccata da tempo. L’unità durò poco. Il tempo di buttar fuori l’intera classe dirigente fascista dal governo e di inaugurare la Prima Repubblica. Il PSIUP che si vantava di esser riuscito a riunire al suo interno tutte le ‘anime’ del socialismo italiano (22-25 agosto, 1943) era destinato, in realtà, a spaccarsi nuovamente. La breve esperienza dell’unità socialista fu certamente agevolata dalla lotta al nemico comune e, di fatto, nelle file del PSIUP vi confluì una parte consistente della sinistra italiana antifascista, tra cui Pertini, Vassalli, Basso e lo scrittore Ignazio Silone. Tuttavia, agli albori della Guerra Fredda, e con la disfatta del regime, venne meno questo minimo comun denominatore, e si ripresentò lo spettro del divisionismo. Fu allora che i socialisti di Saragat si allontanarono definitivamente dalla controparte nenniana che si era autoproclamata apertamente una sezione ancillare del PCI.

Il socialismo alla Saragat

I riformisti che aderirono alla scissione accettarono così il sistema di governo occidentale e gli aiuti americani, condividendo le posizioni democratiche ed europeiste fondamentali del socialismo francese, dei social-democratici tedeschi e dei laburisti inglesi. Una presa di posizione che ebbe il grande merito di una lungimiranza profetica, alla quale contribuirono sia le esperienze di Saragat a contatto con l’austromarxismo, sia le sue letture durante l’esilio francese, in particolare del socialista Léon Blum. L’obiettivo era chiaramente delineato, e con una lucidità sconvolgente: l’elaborazione di un socialismo italiano ed internazionale[8] che, per sua natura, avesse poco a che vedere con il comunismo sovietista, che coniugasse libertà e democrazia, ripudiando qualsiasi forma di totalitarismo, anche quello in cui, a causa della ormai degenerata situazione storica, stava convertendosi l’URSS. Ma l’intuizione di Saragat rimase un caso isolato e l’opinione pubblica, così come la classe intellettuale e dirigente italiana, non ebbero la stessa sensibilità storico-politica.

Le tre reazioni anti-capitalistiche

I massimalisti di Nenni, così come l’intera opinione pubblica italiana di quel tempo, soffrivano i forti ritardi culturali che due decenni di fascismo avevano comportato. Venti anni di regime totalitario che avevano, cioè, impedito agli italiani di scorgere chiaramente il vero corso che la Storia stava prendendo. L’ideologia post-bellica che ne conseguì e che dominò l’intera vicenda politica era, dunque, lontanissima dal capire fino a qual punto la rivoluzione capitalistica fosse vittoriosa nel mondo. Non si comprese a fondo il fatto che il regime di Mussolini, alla pari di quello di Hitler, e quello comunista di Lenin e Stalin avevano in realtà rappresentato tre differenti forme di reazione al capitalismo incombente, e tutti e tre i regimi avrebbero incontrato inevitabilmente il fallimento.

Una posizione ”troppo” moderata

Le tre reazioni anti-capitalistiche capitolarono nel loro tentativo di opposizione al nuovo modello socio-economico mondiale. L’errore di Saragat fu, tuttavia, quello di mostrare delle prese di posizione piuttosto timide, temendo l’isolamento totale. Di fatto, nei primi mesi del 1947, benché separato da Nenni, Saragat non osò ostentare un atteggiamento netto nei confronti del PCI, dichiarando semplicemente che non avrebbe assunto un’attitudine apertamente ostile nei confronti dei comunisti. La posizione moderata di Saragat, come la Storia ha mostrato successivamente, si rivelò un enorme errore politico e non sarà perdonata dai tempi.

L’idolo sovietico

Parallelamente, i comunisti ed i socialisti di Nenni fecero errori ancora più gravi poiché esaltavano anche in Parlamento i grandi meriti della dittatura sovietica, così come la figura di Stalin, ignorando il cupo destino che gravava sulle loro teste[9]. L’intimo desiderio di Nenni, che animò sin da subito la sua alleanza con il PCI, era quello di poter, in qualche modo, riuscire a strumentalizzare il partito comunista sino ad indirizzarne le scelte politiche. Credendo che i propri voti fossero determinanti per la vittoria del Fronte. Ancora un errore di ermeneutica storica. Poiché la strumentalizzazione del comunismo italiano era resa impossibile dalla quella stessa divisione del mondo in blocchi e dalla diffidenza che il PCI gli manifestò da sempre. Contrariamente a quanto prospettato, fu il PCI a strumentalizzare il fronte di Nenni e a dissolverlo, portandolo con sé nella disfatta. Il partito socialista finì per dipendere, oltre che ideologicamente, anche economicamente dal PCI, mentre la devozione di Nenni per la causa sovietica continuava imperterrita. Nenni non si limitava, infatti, a celebrare Stalin in Parlamento, ma si incontrò a più riprese a Praga con il vice di Stalin, Malenkov[10], in una atmosfera cospirativa che lo stesso Nenni descrisse come tale nei suoi diari.

Le conseguenze storiche della scissione

Quando avvenne la scissione, Saragat definì la sua posizione una ‘scelta di civiltà’, avendo in mente modelli di riferimento che erano senz’altro quelli delle socialdemocrazie europee. Nella sua idea il nuovo agglomerato socialdemocratico doveva essere un partito che enucleasse il PSI dall’inconcludente frontismo con il PCI.  Questa posizione non poté se non incontrare più volte il sarcasmo, la beffa nonché, alle volte, la violenza che dominavano l’atteggiamento comunista; la beffa si risolse nella definizione di ‘pisello’ (PSLI)[11] che i comunisti diedero ai socialisti liberali, i quali furono definiti anche, qui con minor sarcasmo, social-fascisti, social-traditori, amici del capitalismo e servi dell’America. Non solo il comunismo italiano, ma anche una certa storiografia superficiale non ha mancato di giudicare aspramente le scelte di Saragat. Un insieme di pregiudizi ideologici, luoghi comuni storiografici e posizioni di propaganda che confluirono in una sorta di damnatio memoriae la quale finì per accusare Saragat di aver compromesso il Fronte Popolare. A cui si aggiungeva l’accusa di aver consegnato così l’Italia a decenni di governo democristiano incontrastato.

L’ascesa della DC e il socialismo diviso

Con il socialismo diviso ed il PCI interdetto al governo a causa dei suoi legami internazionali, il peso della responsabilità storica gravò, certamente, sulla Democrazia Cristiana, che seppe riconoscere quale suo interesse politico favorire il primato del partito comunista all’opposizione, garanzia medesima del suo potere[12]; il famoso fattore k di Alberto Ronchey[13], e cioè l’impossibilità di un’alternanza di governo quando l’unica alternativa era, appunto, quella comunista. Da un lato, Nenni abbracciò mortalmente il comunismo, dall’altro Saragat tramutò il suo in un partito governativo di supporto alla Democrazia Cristiana; ambedue i leader diluirono le loro posizioni nella diarchia catto-comunista che dominò per decenni gli scenari politici italiani successivi. Infine, la disfatta progressiva del comunismo avrebbe, poi, irrimediabilmente comportato anche il crollo di quel socialismo massimalista che vincolò ad esso il suo destino. Entrambe le sezioni si ammalarono presto di un certo burocratismo. Una viscerale simpatia per la burocrazia funzionario-amministrativa che ha impedito e, forse, impedisce tutt’oggi, uno sviluppo propulsivo tecnologico e digitale dell’Italia. Si è così consumata la vicenda di un politico italiano, Saragat, il cui unico peccato fu quello di indovinare il giusto corso della Storia, quando l’Italia non era ancora pronta, e che, avendo rivendicato la superiorità di una civiltà liberale all’indomani della Repubblica, è stato linciato e buttato fuori, prim’ancora che i suoi avversari lo fossero dalla Storia e dagli uomini.

Claudio O. Menafra

Foto in copertina da avantilive.it


[1][1] All’epoca di questa previa scissione, Giuseppe Saragat aveva 24 anni e aderì senza remore al riformismo uscente. La sua idea di partito era già ben salda: un socialismo gradualista e democratico, lontano dalla rivoluzione marxista e leninista.

[2] È proprio a Treves che Saragat, successivamente, attribuirà la paternità del suo pensiero politico e della relativa visione socialista; in particolare, ne apprezzava l’impegno a favore di una politica di respiro internazionalista, coniugando nazionalità e collaborazionismo tra popoli così come prospettato in C. Treves, Per la pace e per il socialismo, in “Critica Sociale”, 16 dicembre 1892; Cfr. A. Casali, Socialismo e internazionalismo nella storia d’Italia. Claudio Treves 1869-1939, Napoli, 1985; anche Id., Claudio Treves dalla giovinezza torinese alla guerra di Libia, Milano, 1989.

[3] Le due componenti socialiste furono costrette a riorganizzarsi all’estero, stabilendo a Parigi la loro sede centrale; alla fine del 1927 il PSI contava pressappoco 1500 iscritti divisi in diverse federazioni e gruppi sparsi in tutto il mondo, tra cui Francia, Svizzera, Belgio, Argentina e Stati Uniti.

[4] Fu lo stesso Treves a considerare il documento essenzialmente ‘marxista’, in cui erano ‘fusi socialismo e democrazia, libertà e giustizia sociale’, Cfr. F. Pedone, Franco, Novant’ anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del Psi, voll. II, 1917-1937, e III, 1942-1955, Padova 1983; cfr. anche B. Tobia, I socialisti nell’emigrazione. Dalla Concentrazione antifascista ai fronti popolari (1926-1934), in AA.VV., Storia del socialismo italiano, vol. 4, cit. p. 146.

[5] A. Sabatini, Saragat e l’idea del socialismo democratico riformista, in AA.VV., Giuseppe Saragat 1898-1998, atti del convegno organizzato dalle Fondazioni Brodoloni, Matteotti, Modigliani, Nenni Turati, Roma 11-12 novembre 1998, Lacaita, Mandria 2000.

[6] C. Rosselli, Italia e Europa, in “Quaderni di Giustizia e Libertà”, II serie, giugno 1933.

[7] Saragat era convinto che il programma di Rosselli fosse depositario di una mentalità piccolo borghese. Una mentalità in cui il proletario perdeva il ruolo di guida della rivoluzione sociale. Mentre la borghesia continuava a mantenere intatto il suo primato in ambito sociale, economico e, soprattutto, culturale.

[8] Saragat scrisse molti editoriali, anche nel periodo di collaborazione con Nenni in qualità di co-direttore dell’Avanti!, in cui sosteneva la necessità di demarcare con vigore il carattere democratico del socialismo, si veda a riguardo l’opuscolo G. Saragat, Socialismo e libertà, Roma, febbraio-marzo 1944.

[9] Melograni, Piero, La scissione di Palazzo Barberini, intervento dell’11 gennaio 2007 su Radio Radicale, link: https://www.radioradicale.it/scheda/215139/la-scissione-di-palazzo-barberini-11-gennaio-1947-11-gennaio-2007.

[10] Georgij Maksimilianovič Malenkov, è stato attivo collaboratore di Stalin durante il suo governo. Divenne per breve tempo anche il leader dell’Unione Sovietica alla sua morte, dal 1953 al 1955.

[11] Uno dei motivi principali per cui il partito, qualche anno dopo, mutò il proprio nome in Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI).

[12] De Marchi, Luigi, La scissione di Palazzo Barberini, intervento dell’11 gennaio 2007 su Radio Radicale, link: https://www.radioradicale.it/scheda/215139/la-scissione-di-palazzo-barberini-11-gennaio-1947-11-gennaio-2007.

[13] Fattore k – dal russo Kommunizm – impiegato per la prima volta da Ronchey in un editoriale del Corriere della Sera il 30 marzo 1979.

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