Intervista a Luigi De Pascalis, l’autore de “Il signore delle furie danzanti” edito La Lepre
Luigi De Pascalis ha pubblicato numerosi racconti. Tanti sono legati al genere fantasy e fantascientifico. È infatti uno degli autori italiani di narrativa fantastica più apprezzati negli Stati Uniti. In Italia ha vinto i premi Tolkien e Courmayeur. Con la sua ultima pubblicazione, Il signore delle furie danzanti, edito La Lepre, si è cimentato nel giallo storico. Luigi De Pascalis è un autore eclettico; ha realizzato Pinocchio, graphic novel sul romanzo di Carlo Collodi, con cui ha vinto a Firenze il premio Carlo Lorenzini.
I suoi racconti sono inclusi in moltissime antologie del fantastico italiane e straniere. Prima di “Il mantello di porpora”, Luigi De Pascalis ha pubblicato con La Lepre Edizioni il giallo storico “Rosso Velabro”, i romanzi “La pazzia di Dio” e “Il labirinto dei Sarra”, il noir fantascientifico “Il Nido della Fenice” e la graphic novel Pinocchio. Inoltre nel 2016 il romanzo “Notturno bizantino” ha vinto il premio Acqui per il miglior romanzo storico dell’anno. Ma se volete conoscere di più l’autore, le sue scelte stilistiche e la sua storia, leggete di seguito l’intervista!
Come e quando capisci che la scrittura è la tua strada?
Non credo che accada la stessa cosa per tutti. Ero all’università quando un amico che collaborava a diverse testate giornalistiche (Gianfranco De Turris), mi chiese di scrivere un racconto per la terza pagina di un quotidiano. Allora lo facevano tutte le testate, oggi quasi nessuna, e gli inserti settimanali sono concepiti principalmente come raccoglitori di pubblicità. Non avevo mai scritto un racconto prima ma, pur essendo interessato a quell’epoca soprattutto alla pittura e alla Storia dell’Arte, la cosa mi piacque e continuai a scrivere piccole storie. Tuttavia solo decenni dopo, quando ho potuto dedicarmici a tempo pieno, ho capito che creare storie e mondi era quello che volevo fare davvero. Oggi lavoro almeno quattro o cinque ore tutti i giorni e quando non posso farlo sento di avere sprecato la giornata. Che la scrittura sia una raffinata forma di nevrosi?
Perché questo interesse per il mondo dell’antica Roma?
Uno dei primi racconti che pubblicai parlava del duello tra un romano e un barbaro. Era più o meno il 1965, dunque molto prima che l’antica Roma andasse di moda al cinema e in letteratura. Negli anni ’80 scrissi “Rosso Velabro”, con Caio Celso, lo stesso protagonista de “Il signore delle Furie Danzanti”, ma per molti anni nessuno volle pubblicarlo. La risposta era sempre: “A chi vuole che interessi oggi l’antica Roma?”. Poi le cose cambiarono grazie al successo mondiale del film “Il gladiatore”. Quanto a me, ho fatto studi classici e la storia mi ha sempre interessato. Fare ricerche storiche è appassionante. Anzi, per quanto mi riguarda, è la parte più divertente dello scrivere.
Perché scegliere il romanzo storico?
In parte ho già risposto – mi piace curiosare tra vecchi libri e documenti – ma devo aggiungere che oggi più che mai mi sembra necessario esercitare l’arte antica, nobile e perduta della memoria. Viviamo in un eterno, immemore e insignificante presente: il romanzo storico, se ben scritto e letto con partecipazione e curiosità, è un ottimo antidoto al troppo poco che ci circonda.
“Il signore delle furie danzanti”, cosa diresti a chi deve ancora leggere il tuo libro?
Gli direi che Caio Celso potrebbe essere il suo Virgilio, la sua guida, in un vero e proprio viaggio nel tempo alla scoperta, o riscoperta, di una civiltà che è alle radici della nostra, contraddizioni e storture comprese. Gli direi inoltre che anche la nostra è un’epoca di passaggio e che da questo punto di vista siamo un po’ tutti Caio Celso.
Ludus Mugnus, raccontaci di questa trilogia e del perché hai scelto di chiamarla così
Il Ludus Magnus (Il Grande Gioco) era la caserma dei gladiatori che sorgeva accanto al Colosseo. I giochi gladiatori, all’origine, avevano un carattere sacro e metaforico, poiché tutta la vita era vista come un grande gioco, ovvero una grande contesa, tra il buio e la luce, tra il bene e il male. Qualcosa di simile avviene ancora in Spagna dove un uomo in un abito scintillante, cioè letteralmente vestito di luce, affronta un toro nero che rappresenta il buio, la morte. Ecco, la mia trilogia vuole raccontare al lettore che l’esistenza era ed è ancora lotta tra Buio e Luce, tra Vita e Morte e che questo spietato duello va affrontato con coraggio, generosità, perizia, e perché no, con eleganza.
Questa tua citazione: “Come esistono molti dèi, così esistono molto verità. Chi crede in una sola verità è cieco, chi crede in un solo dio è pazzo”; come la commenteresti? Qual è la via per raggiungere la verità?
Il politeismo presupponeva la possibilità che un nuovo dio si aggiungesse senza traumi al pantheon esistente. Presupponeva cioè una mentalità aperta, inclusiva, possibilista rispetto alla grande varietà del mondo. Prima del Cristianesimo c’erano le guerre di conquista ma non quelle di religione, intese come contrapposizione feroce tra verità rivelate e non discutibili. Nel momento in cui si è inventato il Dio unico, ispiratore o, peggio, autore (differenza non da poco) di un libro che venendo da Lui era conclusivo, onnicomprensivo e immutabile, la storia della civiltà si è fermata, le conquiste scientifiche dell’ellenismo sono state dimenticate o negate (rotondità della terra, eliocentrismo, conquiste mediche, astronomiche ecc.) fino alla loro riscoperta dal Rinascimento in poi (pur non dimenticando Galilei, Tommaso Campanella, Giordano Bruno e tanti altri disgraziati finiti sul rogo per avere espresso idee difformi dalla Sacre Scritture). Il grande fiorire dell’arte e della civiltà rinascimentale è figlio della riscoperta e del rinnovato interesse per l’arte e la civiltà classica. Il mio Caio Celso ricorda ancora con il suo amato Seneca che le verità sono molte e varie, alcune in contraddizione tra loro, e sa anche che sceglierne una come unica e indiscutibile sarebbe un danno irreversibile. Secondo me l’unico modo per arrivare non alla verità assoluta (che forse non conosceremo mai per intero) ma a un briciolo, a un riflesso sbiadito di essa, è tenere cuore e mente aperti, mettendo definitivamente da parte una visione euro-centrica e cristiano-centrica della vita. Il mondo è figlio di molti dèi dimenticati che però ci sono rimasti dentro come archetipi, come chiavi di lettura dei tanti enigmi che ci circondano.
La morale dell’antica Roma potrebbe essere applicabile nella Roma di oggi?
Le cose che uniscono la Roma di ieri a quella di oggi sono molte di più di quelle che le separano. La mia trilogia tende anche a dimostrare questo.
Disincanto in amore; cos’è per te?
Gli antichi definivano se stessi “mortali”. Sapevano bene, insomma, che tutto finisce, che niente è per sempre. Neppure l’amore. Tuttavia l’amore dura più a lungo, anche tutta la vita, se non lo si idealizza ma lo si accetta per quello che è: un legame dinamico, che muta con il mutare di età e circostanze. E non sempre questi mutamenti si evolvono in uomo e donna allo stesso ritmo. In amore bisogna sapersi aspettare, bisogna saper gioire per ogni riavvicinamento e pazientare per ogni allontanamento. Disincanto significa sapere (e accettare) che io non sono il cavaliere sul bianco destriero, ma neppure il rospo da trasformare in principe con un bacio; e tu non sei la bella addormentata da destare con un bacio miracoloso (Ah, il potere magico dei baci!) ma non sei neppure la strega di Biancaneve. Io e te siamo umani, figli di molti dèi talvolta in conflitto tra loro. Il nostro privatissimo Olimpo non può che essere la conquista quotidiana di entrambi.
Scelte di stile: perché il ricorso al latino, sarebbe stata ugualmente efficace la narrazione senza?
Per essere credibile un personaggio deve ragionare e parlare secondo le credenze e gli usi del tempo in cui viene fatto vivere. Il pensiero di Seneca, ad esempio, mi ha aiutato a definire il carattere di Caio Celso. E l’uso di termini latini mi è servito quando le parole italiane non avrebbero avuto la stessa valenza e lo stesso sapore (es. speculum per lago, thermopulium per rosticceria, o Regio XIV Transtiberim per Trastevere). È un po’ lo stesso motivo della scelta del “siciliano” inventato da Camilleri.
Dalla narrativa fantastica al romanzo storico; cosa si cela dietro questa scelta?
A metà degli anni ’60 alcuni ragazzi (fra cui io) scrivevano racconti e si scambiavano lettere e pubblicazioni in merito – ma anche franchi insulti dovuti a divergenze politiche – pensando che si potessero raccontare storie fantastiche non facendo ricorso alla mitologia nordica, come gli americani, ma ricorrendo alla ricchissima tradizione di miti e leggende originari del nostro territorio. Quando non mi sono attenuto a tale canone ho ritenuto che il fantastico dovesse essere affrontato in chiave metaforica poiché questa spiega il mondo e le sue dinamiche meglio della letteratura realistica borghese in cui la maggior parte dei nostri ha discettato fino alla nausea del proprio insignificante ombelico o di argomenti politicamente “seri” che la critica dominante riteneva giusto raccontare. All’epoca, tutto ciò che esulava da quella logica era fortemente osteggiato (vedi tutta la letteratura di genere, dal fantastico al giallo, al noir; ma vedi anche “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa o “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, entrambi capolavori pubblicati postumi). Ebbene, scrivere di fantastico facendo ricerche di antropologia e storia dei miti e delle religioni antiche è molto vicino al procedimento di scrivere romanzi storici compulsando saggi e documenti antichi. Dunque ho vissuto il passaggio da un genere all’altro come una naturale prosecuzione.