Capitolo V
Di come Hector rimane affascinato dal libro misterioso di Brunette
Era la prima volta che mi accingevo a leggere un libro simile, un’autobiografia ragionata, direi, con intento antropologico. O meglio, si trattava di un diario intimo. Si trattava di resoconti di uno studio sul campo avvenuto durante una spedizione in Congo per parte di un eminente cattedratico, o almeno così suggeriva il tono di quelle argomentazioni. Lo studioso aveva però più volte sottolineato, nella prefazione all’opera, che la narrazione avrebbe avuto un carattere volutamente soggettivo nella valutazione dei fatti, constatazioni personali bilanciate, in ogni caso, da un’accurata osservazione dei fenomeni. Si trattava, a detta dell’autore, di un nuovo metodo d’indagine antropologica attraverso un continuo confronto con il foglio bianco della confessione diaristica: bisognava sperimentare in prima persona i fenomeni, lasciarseli passare addosso e rielaborarli nella coscienza; infine li si sarebbe messi per iscritto nella forma di un diario intimo e personale, annotando minuziosamente le sensazioni e le pulsioni che i fatti vissuti avrebbero innescato nell’osservatore. Questo nuovo metodo era tutto incentrato sull’immedesimazione del soggetto nell’oggetto, nell’intento di produrre dati antropologici il più possibile fedeli, cosa che sarebbe risultata impossibile con l’osservazione esterna oggettivante tipica dell’etologia. L’autore considerava l’osservazione esterna ed oggettivante possibile con tutte le specie animali fuorché l’uomo, dal momento che, in tal caso, osservante ed osservato coincidevano, essendo entrambi funzionari della medesima specie di cui si voleva tracciare i comportamenti. Il diario è una questione di metodo, ribadiva.
Lo studioso argomentava partendo dalla constatazione che la prima funzione di un diario consiste nell’avere una memoria riflessiva dei fatti esterni osservati; si tratta, in un certo senso, di afferrare gli eventi del vissuto strappandoli alla corrente del tempo e ingrandirli, catturarli. Ma da quella lettura, mi resi conto che c’era molto di più. Fui certamente molto colpito dall’impostazione e dal metodo proposto, ma lo fui ancora di più quando iniziai a leggere le sue pagine più fitte. Mi resi conto che il criterio d’indagine era progressivamente sfuggito di mano allo studioso, il quale lasciò l’opera incompiuta e completamente asistematica. Introduzione a parte, tutto il resto aveva la forma del frammento, del pensiero annotato fugacemente su carta e della sensazione trascritta. Tutta la scrittura e la personalità dell’autore mutarono.
Ne trascrivo qualche pagina per ricordare a me stesso che non fui mai solo, in questo mondo, nella lotta al delirio.
Diario di Richard Hillman
20 aprile, 1893
Congo, villaggio di Abil Kikwit sul promontorio nord
Siamo giunti nel villaggio di Abil Kikwit dopo aver risalito il grande serpente fluviale che sbuca dai monti Tebet e Kulab. Siamo stati lasciati al nostro destino sulle rive aride di questo immenso fiume. La motolancia che ci ha portato sin qui si sottraeva sempre di più ai nostri sguardi, si allontanava indefinitamente, mentre nuovi odori e sensazioni già violentavano le molli carni di noi civili.
Siamo partiti dal nostro campo base, dopo aver disposto tutta l’attrezzatura per una trasferta di almeno quaranta giorni. Ho con me tutto il necessario e posso iniziare ad annotare gli avvenimenti che da qui in poi caratterizzeranno il viaggio. La traversata fino al villaggio è durata nove giorni, ma non è stata particolarmente dura; ho annotato anche alcuni riferimenti del tragitto, magari ne farò una mappa, qui non esistono riferimenti e qualcuno potrebbe essermene riconoscente.
Il villaggio è piccolo e indaffarato.
Al nostro arrivo ho notato da subito che le abitazioni sono a ridosso delle attività artigianali, semplici ma spaziose, in legno e bambù con un piccolo ingresso inaugurato da quello che mi è sembrato un tappeto con dei simboli ricamati. Una ventina di capanne riunite in cerchio irregolare che fungono da perimetro ad uno spazio centrale polveroso e scomposto; qui avvengono gli scambi commerciali e le riunioni dei clan alla sera, poche ore prima della battura di caccia mattutina. I clan sono dieci, ognuno di essi ha il proprio leader e portano tutti un nome intraducibile, il cui significato mi è ancora oscuro; le radici di tali parole non mi sono ben chiare e gli abitanti non danno spiegazioni; sono curiosi, osservano con cura ma senza timore o avidità di sguardo.
Un evento in particolare ha colpito la mia attenzione durante i primi incerti contatti. Uno di loro dopo essersi avvicinato con cautela, è stato profondamente attratto dai nostri oggetti personali ed ha iniziato ad analizzarli con cura e meraviglia. Lo specchio, però, ha avuto un effetto devastante sul soggetto. Ha cominciato a urlare e battersi la testa con un sasso come un indemoniato; non la finiva più, gli altri assistevano quasi stregati finché il mio assistente non ha deciso di sottrargli violentemente l’oggetto. L’uomo aveva continuato a reggerlo duramente per tutto il tempo tra le mani insanguinate. Solo a quel punto si è calmato, ma aveva già il cranio mezzo fracassato per i colpi, e credo abbia perduto i sensi subito dopo, per molto tempo.
Ipotizzo che l’accadimento sia da ricondursi ad una certa concezione animistica della loro religione, per cui l’anima di un individuo non è che un doppio del suo corpo (cosa comune a molte tribù), come lo è l’ombra che il corpo proietta sul terreno di giorno, durante le ore di luce. L’anima diventa così un’immagine indistricabile al di fuori del proprio campo di percezione; se così fosse, allora il povero Kikwit potrebbe aver scambiato l’immagine riflessa per la sua anima, potrebbe averla ritenuta intrappolata in quell’oggetto stregato, e questo l’avrebbe ridotto all’autodistruzione.
Ricordo, a tal proposito, un appunto recente del dott. Franzen sulle manie ossessive del Medio Oriente che colpiscono in particolare le donne: il collega ha dimostrato come le donne musulmane si tengano debitamente alla larga nei mercati dalle ombre proiettate dagli altri uomini sul terreno, una specie di disturbo ossessivo compulsivo per cui cui non bisogna mai incrociare le ombre maschili, per non esserne ingravidate. A tal proposito un sottile collegamento si potrebbe scorgerlo anche nelle leggende folkloristiche di alcuni paesi dell’Italia meridionale, per cui lo specchio deve essere coperto in caso di funerale, pena l’intrappolamento dell’anima del defunto in esso per sempre. Ma si tratta comunque di congetture che, per il momento, mi limito ad annotare come spunti per direzionare le mie ricerche.
Ricordarsi di approfondire il rapporto specchio-anima-imago mortis- doppio.
Verso sera, dopo esserci sistemati, ci hanno presentati al capo Kabil Ub che ci ha accolti senza troppo entusiasmo ma curioso della nostra iniziativa li; non ha fatto molte domande, ci ha gentilmente invitati a restare per tutto il tempo, con l’unico monito di non abbandonare troppo spesso il villaggio, perché l’odore di nuovi arrivati nella giungla avrebbe potuto indispettire alcuni abitanti che cacciano e dimorano al di fuori del perimetro del villaggio; da queste parti non sono abituati all’acqua di colonia e neppure al troppo rumore.
Ho preso posto nella capanna a noi riservata, ho un piccolo letto di paglia e foglie, mi basterà.
Diario di Richard Hillman
15 maggio, 1893
Congo, villaggio di Abil Kikwit sul promontorio nord
Lo spettacolo offertomi dalla cerimonia matrimoniale tra un membro del clan Wuibla e una vergine del clan Kananga, credo possa gettare le fondamenta di una prima soluzione provvisoria al mio enigma. Innanzitutto, come già avevo constatato anche nelle tribù Doruma settentrionali, la cerimonia deve avvenire in una notte di luna crescente, perché il ‘germoglio della vita’ possa concordarsi armoniosamente con il ciclo degli eventi. Dopo la cerimonia e la preghiera unanime agli dei ctoni della tribù, l’unione dei corpi deve essere consacrata mediante il coito assistito, sotto gli occhi dei rappresentanti dei rispettivi clan di appartenenza, ognuno dei quali prende parte attiva attraverso una masturbazione corale accompagnata dai mantra di Upa Malik, il sacerdote della Madre che continua a recitare sino alla fine del gesto. Purtroppo non ho potuto assistere alla cerimonia completa, è un privilegio riservato solo ai membri del clan, ho dovuto quindi battere in ritirata poco prima dell’inizio.
Forse avrei dovuto prendere parte alla masturbazione corale.
Ho avuto il tempo però di osservare che il giovane uomo veniva successivamente accompagnato in una tenda più grande, nella quale però non vidi entrare la vergine; lui solo era entrato accompagnato dal sacerdote che continuava ad offrirgli una bevanda, forse frutto di qualche bacca fermentata di cui ancora non ho avuto notizie; sino ad ora ho creduto che l’alcool non facesse parte del modus vivendi queste tribù. Credo che quella tenda in cui si è consumato l’ultimo rituale possa svelarmi qualcosa in più sulla Madre Bianca.
Quando sono rientrato nel mio accampamento avevo ancora le immagini di quelle donne che continuavano a muoversi convulsamente, strusciando il loro sesso sul terreno che le lasciava sporche e intrise di fogliame; la scena ha esercitato una profonda attrattiva su di me. Ho sentito la necessità di masturbarmi su quei corpi.
Diario di Richard Hillman
7 luglio, 1893
Congo, villaggio di Abil Kikwit sul promontorio nord
Oggi, un lunedì opaco della mia esistenza e…della mia ricerca!
Percepisco una strana ed inconsueta chiusura negli atteggiamenti degli aborigeni.
Comincio a smarrire il senso della mia presenza tra questa gente che sembra, si, avermi accolto con tutta l’apertura mentale possibile, ma il loro comportamento mi spinge ogni giorno alla reclusione. Non amo i loro modi, non amo la loro natura. Mi manca la civiltà! Passeggiare tra i loro sguardi persi mi fa sentire come un’ombra, uno spettro che semplicemente loro non scacciano né accolgono completamente. Sono una presenza e null’altro. Il loro cuore mi rimane celato.
Diario di Richard Hillman
13 settembre, 1893
Congo, villaggio di Abil Kikwit, alle rive del fiume Gwain
Ho fatto uno stano sogno questa notte, a causa del quale ho sentito il tremendo desiderio di isolarmi da tutto e da tutti. Credevo che il mio viaggio significasse anzitutto isolarsi dalla civiltà.
Ma ne ho subito incontrato un’altra, con nuove immagini e diversi idoli. Anche questo tipo di collettività schiaccia il mio essere.
Ho sognato di avere un rapporto omosessuale con il mio stesso doppio. Ho scopato me stesso. Sentimenti stranamente autoerotici. Ho avuto l’esatta impressione che mi sarebbe piaciuto percepire dall’esterno la mia bocca.
Diario di Richard Hillman
25 novembre, 1893
Congo, villaggio di Abil Kikwit sul promontorio nord
Domani parto.
Devo andarmene di qui.
Le cose sono diventate insostenibili, gli abitanti mi guardano con sospetto. Dopo il tremendo accadimento qualcosa si è rotto ed è insanabile, in me come in loro.
Ho paura anche a mangiare dai piatti che mi vengono ancora gentilmente concessi; la mia dimora è stata spostata al limitare della foresta, non sono più il benvenuto da quando ho infranto l’unica e sola regola che mi fosse stata dettata.
Me ne vado col rimpianto di non aver trovato spiegazione alcuna, solo altre domande e migliaia di fantasmi ed incubi.
La mia vita, e la loro, non sarà mai più la stessa!
Credo che eliminerò le pagine che precedono questa, nessuno deve sapere, nessuno. Di solito uno scienziato ha il dovere il ‘scoprire’ nuove realtà e porgerle all’umanità intera che proprio questo si aspetta dal suo lavoro; in questo caso il mio compito sarà quello di celare.