Un cambiamento ‘importato’
Possiamo largamente condividere quanto gli interventi sulla questione della lingua italiana abbiano attraversato secoli e pagine di storia e come, ancora oggi, continuino – seppur in veste prettamente scientifica che “nazional-letteraria” – a delinearne i percorsi di sviluppo. Ebbene, siamo alla fine del 1964 e sul periodico “Rinascita”, Pasolini affronta nuovamente il problema della lingua. Lo affronta all’interno di un percorso ben preciso: i prodromi di un cambiamento importato dalla nuova società capitalistica e il conseguente rapporto dei letterati con la “neo-lingua”. Dietro a questo tema vediamo impiegate da una parte le formulazioni critico-stilistiche riprese da Spitzer e Auerbach, dall’altra le tesi gramsciane per cui il linguaggio rappresenta il grado più basso (poiché più diretto) dell’espressione culturale di un individuo e, allo stesso tempo, l’anello propulsivo attraverso il quale l’individuo riesce sviluppare una concezione critica del mondo.
La lingua italiana nella seconda metà del ‘900
L’autore parte dal presupposto che in Italia non esiste una vera e propria lingua nazionale; quel che esiste è, di fatto, un dualismo, dato da: lingua parlata e lingua letteraria. Se si cerca l’unità, dunque, è possibile trovarla ex lingua, all’interno dell’individuo che si serve contemporaneamente di queste due tipologie: il piccolo/medio borghese. La lingua italiana, continua Pasolini, è la lingua della borghesia; una lingua identificabile, dunque, non tanto con la Nazione, quanto più con la classe sociale. A questo punto, a voler delineare un quadro descrittivo del rapporto lingua/letteratura in pieno ‘900 bisogna ben distinguere l’obiettivo di tale percorso. E cioè, se si vuol delineare una storia “media” (in termini linguistici diremmo “non marcata”) allora potremmo dire che il rapporto dei letterati con la lingua è pressoché normale. Non c’è nulla di palingenetico. Diverso è il discorso se si vuol individuare, attraverso questo rapporto, un reticolato di valori. In questo caso, l’italiano = lingua della borghesia è, a detta di Pasolini, infrequentabile.
Il rapporto con la letteratura
L’autore definisce, quindi, una sorta di schema che mette in stretta relazione lingua e letteratura a più livelli. Sulla linea media colloca tutte le opere tradizionalistiche (di retorica fascista e clericale), di evasione ed intrattenimento. Sulla linea bassa le opere dialettali e il continuum naturalista/verista/verghiano. Sulla linea alta, che demarca a più livelli, quasi tutti i letterati del ‘900. Tra questi pone gli ermetici al livello più alto, nella zona che chiama “delle torri d’avorio”, fatta della lingua impenetrabile della poesia. Procedendo leggermente verso il basso, ma sempre sulla linea alta, troviamo le opere “iperscritte” (riconducibili ad autori come Vittorini, Banti, Roversi), cioè quella letteratura che ideologicamente è fatta più di stile che di poesia. A seguito vi è la zona delle feluche, quella che definisce “dannunzianesimo ironizzato”, dove si accetta il parlato come preziosismo letterario. Più giù troviamo “la lingua nostalgica” di Cassola e Bassani che rievocano strascichi di stile sublime mescolato alla lingua borghese, e ancora in basso, la lingua del nuovo sperimentalismo.
Una sovversione dall’interno
Esclude da una classificazione precisa autori come Moravia, Calvino e Elsa Morante. Essi, in qualche modo, scompigliano l’architettura precedentemente esposta, rimanendone al di fuori. Moravia nutre un profondo disprezzo per la condizione borghese, ma allo stesso tempo ne ripropone la lingua, come se, accettandola, volesse escogitare una sorta di sovversione dall’interno. Calvino si trova leggermente al di là da questo panorama per le sue influenze di tipo europeo. E poi c’è l’italiano di Elsa Morante, che in qualche modo sfiora tutti gli stili al di sopra della linea media. La sua lingua è strumento di connessione con lo spirito e, come tale, non può che eludere da ogni tipo di classificazione. Nel bel mezzo di queste linee ideali e parallele, troviamo, infine, la lingua di Gadda. Per descriverla l’autore traccia una linea a serpentina che interseca tutti e tre i livelli. Parte dall’alto e scende verso la più bassa koiné dialettale, raccogliendo materiale che non viene elaborato sulla linea media, ma risale, spinto da una forza centrifuga, direttamente al piano più alto[1].
Il nuovo decennio
Veniamo adesso al punto: tutto quello che finora è stato descritto è rigorosamente circoscritto entro i limiti degli anni Cinquanta. Già alla fine di questo periodo cominciava a delinearsi un cambiamento che Pasolini, riprendendo Fortini, riassume con le parole di Majakovskij: “fine del mandato” dello scrittore. Il nuovo decennio inquadra un cambiamento che, a detta dell’autore, “non rappresenta la solita crisi, ma un fatto del tutto nuovo“. È nato l’italiano nazionale e “la causa” non è letteraria, come un secolo prima, ma tecnica. Il centro d’irradiazione non è più Firenze, ma l’asse Milano-Torino. La figura dell’intellettuale si trova a fare i conti con un linguaggio che prescinde dalla tradizione letteraria e filologica e si avvicina sempre di più ad una realtà industriale.
I prodromi di questo cambiamento si troverebbero in un principio di differenziazione che vede il linguaggio critico non più in osmosi con il latino, ma con il linguaggio scientifico. Il conseguente rafforzamento di tale differenza si acuisce con i mass media, che mirano a strumentalizzare la lingua a favore delle idee in auge. Viene fatto riferimento al linguaggio giornalistico, a quello politico e televisivo; macro-aree differenziate, ma tendenti all’omologazione, che fanno della lingua “il ritaglio solo di quegli elementi che servono alla comunicazione“. Se da una parte, come si può logicamente pensare, alcuni programmi televisivi possono utilizzare tutte le parole, dall’altra, una gran parte di questi lessemi viene esclusa. In soldoni, per l’autore, sul piatto della bilancia la comunicazione ha assunto un peso più rilevante rispetto all’espressione.Il fatto che la lingua nazionale sia il riflesso di una realtà scientifico-politica mette in evidenza almeno due fattori degni di nota. Socialmente, e richiamando la ben nota “filosofia della prassi” gramsciana, emerge quanto l’unico modo per arrivare a comprendere tale realtà sia impadronirsi di tale lingua e farla propria; culturalmente, emerge il più grande problema della poesia: un problema culturale.
La critica
Diverse furono le critiche rivolte a Pasolini, specialmente da parte di linguisti. Segre riferisce un uso improprio della terminologia linguistica. De Mauro mette in evidenza un processo di cambiamento inverso: non si trattava tanto di un’omologazione proveniente “dall’alto”, quanto più della “crescente convergenza dell’uso dei parlanti verso l’italiano”[2]. Oltre al fatto che sarebbe stato impossibile far attecchire in così poco tempo un rinnovamento di tal genere, così come è impensabile creare un dualismo netto fra lingua e socioeconomia, che escluda a priori altre forze convergenti, per esempio, come sottolineava Calvino, i rapporti con le altre lingue europee[3]. Quel che stava accadendo era frutto di una serie di fattori, che Pasolini aveva genuinamente riportato su sfondo politico. Il suo problema più che linguistico era sociale e l’errore di fondo stava nell’aver tentato di affibbiare una morale a qualcosa che di per sé ne è esente. Tuttavia, e nonostante alcuni errori di prospettiva nelle sue teorie, si può senz’altro concordare con linguisti quali De Mauro o Marazzini che, a dispetto delle critiche rivolte al poeta, hanno riconosciuto alle sue formulazioni una prematura intuizione:
L’affiorare nella nostra cultura intellettuale della coscienza di un mutamento linguistico di tale portata[4].
Mutamento e contemporaneità
I cambiamenti linguistici si muovono con noi. Oggi, rispetto a decenni fa, il nostro linguaggio è profondamente rinnovato. La crescente digitalizzazione ci porta ad utilizzare termini che fino a qualche anno fa non avremmo mai immaginato di adoperare. Un gran numero di anglismi è entrato a far parte della comunicazione lavorativa. Senza andare troppo lontano, lo stesso aggettivo “pandemica” in associazione a “crisi” è più che mai nuovo per noi; il verbo “tamponare” è diventato ambivalente e nuovi lessemi sono entrati a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Ritornando agli anni Sessanta, ma guardando in generale a tutte le epoche: tutto questo è migliore o peggiore rispetto ad una situazione antecedente? Potremmo rispondere come rispose Pasolini qualche anno dopo, durante un’intervista Rai per la rubrica Sapere – l’uomo e la società: tutto questo “non è né migliore né peggiore, è la realtà.”
Note
- [1] Pasolini, Pier Paolo, Nuove questioni linguistiche, in “Rinascita”, 1964.
- [2] De Mauro, Tullio, L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1987, citato in “Treccani”.
- [3] www.treccani.it
- [4] De Mauro, Tullio, L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1987.
Articolo di
Lea Spanò