L’ultima estate di Hiroshima di Hara Tamiki, edito da Marotta&Cafiero
Il racconto di Hara Tamiki,edito in Italia da Marotta&Cafiero, “L’ultima estate di Hiroshima”, ci accompagna per tappe verso la realizzazione dell’infausto presagio che aleggia sulla città di Hiroshima. Nella lettura del “Preludio alla devastazione”, Tamiki tratteggia velocemente la bizzarra quotidianità che anima le giornate degli abitanti di Hiroshima, perpetuamente indaffarati nel fare e disfare i bagagli, nomadi prima ancora di aver perso la propria casa. Discorsi, gesti, pensieri, personaggi non emergono chiaramente dallo sfondo della città, sembrano piuttosto il vagheggiamento di un’epoca vissuta e filtrata dal ricordo dell’autore, che si nasconde neanche troppo velatamente tra i personaggi di queste pagine.
Nulla è significativo
Niente è veramente importante di ciò che viene narrato fin qui, nessun discorso particolarmente significativo. E’ persino difficoltoso per il lettore seguire le trame dei personaggi, che sono inconsistenti, come del resto risultano esili i personaggi stessi, che non sono particolarmente caratterizzati e spesso identificati da un solo gesto, una sola battuta. Sembra proprio che nulla sia significativo, perché la vera protagonista di queste giornate dell’ultima estate di Hiroshima è il senso di attesa che le pervade.
“Tutti, ma proprio tutti, stavano cambiando di fronte al pericolo che, giorno dopo giorno, si avvicinava inesorabile. E sarebbero cambiati ancora, ne era certo. Bisognava stare a guardare fino alla fine”
L’attesa ha paralizzato la città ed è talmente snervante che l’accendersi dell’allarme antiaereo non è solo fonte di terrore, ma sorprendentemente motivo di eccitazione generale. Significativo il discorso dei due fratelli Shōzō e Seiji:
Beh, allora questo vuol dire che Hiroshima è in ritardo di tre mesi rispetto a Tōkyō.” Shōzō pronunciò queste parole senza intenzione, come tra sé e sé, ma Seiji gli rispose con durezza, gli occhi fissi su di lui: «E non dovremmo essere contenti per questo ritardo di Hiroshima?»
Del resto, ciò che caratterizza l’attesa sono piccolezze, battibecchi da poco, pettegolezzi. Assistiamo alle preoccupazioni di Yasuko per la riparazione della sua specchiera e allo sdegno procuratole dalla reazione del fratello, che dà poca importanza a quelle che definisce le sue “cianfrusaglie”.
Quelle che chiamava cianfrusaglie erano ridotte in quel modo a causa dei continui spostamenti, ed erano oggetti che la madre le aveva donato per il suo matrimonio, quando era ancora in vita. Come poteva Jun’ichi non capire cosa provava?
Lo stesso lettore, forse annoiato da questa quotidianità inutile, può avvertire il desiderio di una svolta, paradossalmente speranzoso che quello che storicamente è avvenuto non abbia mai luogo, almeno nella finzione letteraria.
“Fiori d’estate” e “Dalle rovine”
Le sezioni “Fiori d’estate” e “Dalle rovine” sono maggiormente focalizzate su Shōzō, che a questo punto del racconto emerge definitivamente come tragico protagonista e spettatore di un paesaggio che questa volta risulta tutt’altro che rarefatto. Sono queste le pagine più intense, dove poco o nulla è concesso al sentimentalismo. Se la prima parte dell’opera non cattura particolarmente, che sia per scelta stilistica dell’autore o meno, qui si sente invece la necessità urgente di raccontare la fiumana dei sopravvissuti che dilaga per le vie della città fantasma. Ma non c’è spazio per il melodramma, perché l’umanità ha abbandonato questi luoghi. I silenziosi personaggi di questo secondo tempo, sono descritti molto dettagliatamente, più di quanto non faccia piacere sentire, e sono i protagonisti di uno scenario aberrante che nessuno aveva previsto.
Articolo di
Deborah Cherchi