Cosa c’è dopo la morte? Il racconto di chi ci è stato
Attraverso il mito di Er, Platone ci racconta la prima NDE (Near Death Experience) della storia. A Er – giovane soldato caduto in battaglia, risvegliatosi dal sonno mortale al momento della sua cremazione –, viene infatti data l’occasione di conoscere l’aldilà e raccontarne il funzionamento. Dopo un percorso di purificazione all’interno di questo luogo ultraterreno, alle anime è concesso di raggiungere un fascio di luce intensissima e purissima e di incontrare Ananke – dea del destino – e le sue figlie, le Moire. A questo punto, le anime possono scegliere le proprie sorti per una nuova vita, cercando di trarre insegnamento dalle esperienze terrene precedenti. Ricevono anche un daimon (vi ricorda qualcosa?), una sorta di spirito guida che ha il compito di assicurarsi che l’anima adempia il destino scelto.
Ed ecco il suo racconto. Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le loro azioni passate.
Platone, Repubblica, X, 614
Neuroscienza o paranormale?
Le NDE – o esperienze ai confini della morte, o esperienze pre-morte – sono fenomeni testimoniati da soggetti che si sono trovati a stretto contatto con la morte e le cui funzioni vitali, nella maggior parte dei casi, si sono momentaneamente interrotte. Man mano che le tecniche e gli strumenti in mano alla medicina per salvare vite migliorano, si è registrato un aumento anche nei resoconti di esperienze pre-morte. Questi racconti sono accomunati da diversi elementi ricorrenti: consapevolezza del morire, sensazioni di extra-corporalità, presenza di sorgenti luminose molto intense alla fine di spazi o tunnel bui, idea di viaggio, visioni della propria vita passata e incontro di cari defunti in veste di guide. Spesso e volentieri, nell’opinione comune, questi resoconti sono visti con estremo scetticismo e ritenuti delle fantasiose invenzioni o folli vaneggiamenti. Per questo motivo, molti reduci di NDE evitano di far parola di queste esperienze – e anche di ammetterle a se stessi – proprio per paura di non essere creduti.
In fondo, viviamo nell’era della razionalità, e ciò che si sottrae a un’immediata interpretazione scientifica, l’occulto e il trascendentale, incontrano parecchie reticenze in questo scenario culturale. Le spiegazioni scientifiche di questo fenomeno riguardano soprattutto il campo delle neuroscienze e vengono attribuite principalmente ad un’alterazione transitoria dell’equilibrio chimico-fisiologico all’interno del cervello. Alcuni studi dimostrano, infatti, una forte somiglianza fra le percezioni subite in questo stato e quello indotto dall’assunzione di sostanze psicoattive – come la DMT –, che hanno effetti allucinogeni legati alla stessa sensazione di trascendenza del proprio corpo e di ingresso in un’altra dimensione. Il tema delle esperienze ai confini della morte ha ispirato moltissimi artisti, ne troviamo numerosi esempi in letteratura e nel cinema (per citarne solo alcuni, ricordiamo Amabili resti di Peter Jackson (2009) e Hereafter di Clint Eastwood (2010), o la serie tv Netflix The OA (2016-2019)). In questo articolo, però, voglio parlare di due opere attraverso cui uno dei principali autori del Novecento ha rielaborato ciò che ha visto morendo e tornando in vita.
“Morire è una cosa molto semplice”
Nel luglio 1918, Ernest Hemingway – allora arruolato come assistente di trincea nella Croce Rossa americana –rimane gravemente ferito dalle schegge di una bombarda austriaca, rischiando quasi la morte nell’esplosione. In alcune sue testimonianze successive, descriverà quest’esperienza come una momentanea fuga dello spirito dal suo corpo, come se fosse sul punto di iniziare un viaggio per conto proprio, per poi però ritornare in lui. In una lettera scritta ai suoi genitori durante la convalescenza, Hemingway dice: “Morire è una cosa molto semplice. Ho visto la morte, e lo so davvero. Se fossi morto, sarebbe stata… Praticamente la cosa più facile che io abbia mai fatto”.
Nonostante la completa guarigione fisica, quest’esperienza gli lasciò gravi ferite psicologiche ed emotive, tanto che ebbe per anni difficoltà ad addormentarsi, per paura di perdere il controllo e che il suo spirito scivolasse di nuovo via da lui. Hemingway ha più volte catarticamente riversato queste sue ansie e paure nelle proprie opere, facendo rivivere esperienze simili ai suoi personaggi, come se, attraverso la scrittura e l’immaginazione, volesse curare il trauma della sua NDE. Quello di condividere i ricordi e le sensazioni della propria esperienza pre-morte è, infatti, un desiderio comune a tutti coloro che ne hanno vissuta una, e molti sono riusciti ad esprimersi proprio attraverso l’arte.
Scatta quasi spontaneamente il parallelismo con Frederic Henry, il giovane soldato del suo romanzo A Farewell to Arms (1929), anche lui rimasto ferito sul fronte italiano. In questo passaggio tratto dal capitolo nono, Hemingway ci trascina fuori dal corpo del suo protagonista, trasmettendoci le sensazioni che probabilmente aveva provato lui stesso una decina di anni prima:
E poi una gran vampata, come la porta di una fornace che s’apra all’improvviso, prima bianco e poi sempre più rosso, nel ruggire di un vento impetuoso. Cerca di tirare il fiato ma non mi fu possibile, e mi sentii come scagliato fuori da me stesso, e via via, trascinato nel vento. Tutto ciò avvenne in un lampo, e sapevo di esser morto, e che era stato un errore credere che si moriva e tutto era finito. Poi cominciai a fluttuare, e invece di continuare ad andare avanti mi sentii scivolare indietro. Respirai. Il suolo era lacerato.
Un addio alle armi, p. 48 [1]
Ma è forse ancora più suggestivo il racconto dell’esperienza pre-morte di Harry Walden, protagonista del suo racconto breve The Snows of Kilimanjaro (1936). L’uomo, durante un safari in Africa con la moglie, si procura una ferita alla gamba che, incancrenitasi, lo sta portando alla morte. Alternando momenti di lucidità e incoscienza, Harry ripercorre gli eventi della sua vita, che si mescolano a tratti con ricordi di quella di Hemingway stesso, che aveva anche lui rischiato nuovamente la vita in un safari in Africa due anni prima.
Con l’avvicinarsi della morte, Harry vede una serie di simboliche apparizioni: degli avvoltoi in attesa, una iena, un soffio di vento che fa tremolare una candela. Queste presenze lo opprimono e gli impediscono di respirare, la sua ansia e la sua paura di morire crescono, finché, improvvisamente, il peso scompare e Harry si sente finalmente in pace. Da questo momento in poi, pur costruendo il finale come se il protagonista fosse sopravvissuto, Hemingway sta in realtà descrivendo il suo passaggio dalla vita alla morte: dall’aereo che dovrebbe portarlo in salvo – pilotato da un amico dal suo passato –, Harry guarda dall’alto tutto ciò che sta abbandonando con questo suo ultimo viaggio, al cui termine troverà l’immensa, incredibilmente luminosa, cima del Kilimangiaro.
Note:
- [1] Traduzione di Bruno Fonzi per l’edizione pirata realizzata da Jandi Sapi nel 1945
Bibliografia e sitografia
- 999, A. Vardamis, J. E. Owens, “Ernest Hemingway and the Near-Death Experience”, in Journal of Medical Humanities, Vol. 20, No. 3, 1999.
- “DMT Models the Near-Death Experience”, in Frontiers in Psychology, Vol. 9, 2018 (available at https://www.frontiersin.org/article/10.3389/fpsyg.2018.01424).