Un lavoro di De Marino, Chung e Crotti che attraversa la città di Roma segnata dalle tracce della guerra e delle deportazioni
Dalle riflessioni racchiuse nella conferenza internazionale Past (Im)Perfect Continuous. Trans- Cultural Articulations of the Postmemory of WWII tenutasi in Sapienza, Università di Roma. Nell’introduzione del saggio Rome and the Memory of WW II di Tiziano de Marino, Yuri Chung e Alessandra Crotti viene programmaticamente dichiarato, sin da subito, il problema fondamentale di chiunque si appresti a ricostruire i fatti e gli eventi del passato con serio intento storiografico: WWII is no longer an object of memory, because its experience can only be reconstructed or reimagined […] It has become, in other words, an object of post-memory. Il problema chiaramente è quello del confronto con l’immagine dinamica (cioè storicamente determinata) della memoria. La memoria di un fatto subisce continuamente manipolazioni per parte del contesto storico in cui viene rievocata e, soprattutto, continuamente ricostruita o re-immaginata dai posteri.
Il concetto di post-memoria: per una ricostruzione accurata
L’argomentazione è tanto semplice quanto perentoria: poiché mancano ad oggi i testimoni diretti del trauma delle deportazioni avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale e delle sue violente atrocità, allora tutti quelli che si rapporteranno a tali testimonianze non avranno a che fare con una ‘memoria’ vera e propria di quegli accadimenti, al contrario si rapporteranno ad una immagine ricostruita che, a sua volta, sarà reinterpretata in modo diverso dalle nuove generazioni:
The first-hand memory of WWII is by now fading. Survivors, victims, and spectators are no longer bearing witness with their bodies, but only with their words, lost in a media-saturated environment where the boundaries between fact and fiction, document and fabrication, description and stereotype, are increasingly blurred.
Dunque, immagini e ricostruzioni di tal sorta fanno già parte della post-memoria, nello stesso senso in cui lo intende Marianne Hirsch, cioè di relazione che si instaura tra un evento storico traumatico e gli astanti di seconda generazione i quali devono accontentarsi di una ricostruzione mediata degli avvenimenti senza percepirne la profonda drammaticità emotiva, oltre che complessità strutturale. La fotografia, principale mezzo mediatico attraverso il quale rapportarsi con tali eventi, ne è un esempio illuminante: la trasmissione del trauma è mediato e non diretto, anestetizzato dalla interposizione del dagherrotipo. La rottura, sottolinea Hirsh, tra ciò che è avvenuto nel passato ed i viventi del presente è troppo forte, è inconciliabile con la realtà del trauma.
L’immaginazione, in tali processi rievocativi, gioca un ruolo fondamentale ed è a sua volta determinata dal contesto familiare, educativo, dalle modalità di trasmissione degli eventi e dalla collocazione sociale del soggetto interpretante. A tutto ciò, bisogna aggiungere l’ambiente storico-economico di riferimento, con relative sovrastruttura ideologiche. Tutti i testi prodotti (di qualsiasi natura) postumi rispetto ad un fatto storico di cui mancano testimoni viventi diretti, creano una distanza insormontabile tra l’oggi e l’allora. Questi racconti saranno irrimediabilmente costretti a lavorare sulla rappresentazione postuma di quel fatto storico, averne una percezione mediata e, nei casi peggiori, ideologizzata, dunque lavoreranno su mediazioni e non direttamente su quel dato empirico:
WWII is no longer an object of memory, because its experience can only be reconstructed or reimagined.
È un problema di natura semiotica, tra l’altro, in quanto la memoria è accessibile agli uomini solo attraverso i segni in grado di evocarla e riportarla in vita. A sua volta, la memoria non è che essa stessa un segno (significato incluso) del passato, un qualcosa che sta per qualcos’altro. Se a noi contemporanei manca la memoria diretta (di per sé già segno di un evento), allora ciò di cui ci avvaliamo per poterla rievocare è un ulteriore segno, costruito nel presente, in grado di restituirci almeno una pallida apparenza di un segno che a sua volta si riferisce ad un fatto. Una riproduzione (imago) così lontana dal vero da riscattare persino la chora platonica.
Questo strano ed intricato mondo di rimandi semiotici ricorda molto da vicino le argomentazioni di Peirce circa la natura triadica del segno. Segni per decifrare altri segni e così via. Lo studioso contemporaneo di storia si trova dinanzi allo stesso paradosso: ha bisogno di un segno per poter interpretare un segno. Ci sarebbe da considerare, inoltre, che il segno a sua volta, per sua intrinseca natura, restituisce solo una porzione ben definita di quella realtà. Del resto è intuitivo che il segno non coincide con la realtà, ma neppure la restituisce nella sua integralità, ma ne è un suo ‘ritaglio’.
I segni della storia attraverso la città di Roma
Tuttavia, la storia non lascia tracce solo nella coscienza e nella memoria degli uomini. Inevitabilmente anche l’ambiente, il territorio ed il contesto spazio-deittico in cui avvennero i fatti rimangono segnati dai violenti trascorsi della guerra. Ed ecco la soluzione per poter raggirare l’accusa di post-memoria individuata dagli autori del nostro libro: se le testimonianze mnemoniche degli uomini sono ormai mediate e non dirette, diversamente, invece, quelle delle strade, dei quartieri e delle abitazioni di una città possono rappresentare un accesso privilegiato, e più diretto, agli eventi del passato; essi non hanno la malizia di reinterpretare i fatti storici, sono fedeli archivi del passato.
De Marino e colleghi sono riusciti ad ottenere questo accesso privilegiato alla storia della Seconda Guerra Mondiale attraverso un acuto ed attento esame dei quartieri romani e dei luoghi che hanno subito le incursioni violente del conflitto; così la loro ‘narrazione’ si arricchisce continuamente di riferimenti agli spazi urbani concreti della città, unici testimoni diretti, ormai, dell’ultima scabrosa guerra che coinvolse l’Italia.
Tutto il lavoro sembra, dunque, teso a raggirare questo enorme ostacolo della mediazione storica e della testimonianza indiretta mediante un continuo ancoraggio alla mappa. Di Seconda Guerra Mondiale se ne parla di continuo e non mancano interpretazioni autorevoli e fonti di prim’ordine, ma le insidie della post-memoria sono sempre dietro l’angolo. Anzi, l’estrema abbondanza di dati e lavori, spesso, può comportare uno smarrimento dell’intreccio narrativo.
Past (Im)Perfect Continuous
Il concetto di post-memoria è stato al centro di un eclettico dibattito tenutosi nelle aule dell’Università di Roma La Sapienza, nel giugno 2018, durante il quale sono stati analizzati ed approfonditi molti lavori eminenti incentrati sull’argomento in questione, passando in rassegna riflessioni appartenenti ad ogni genere letterario: film, documenti testuali, fotografie, rotocalchi etc. Si è tentato di dimostrare come il processo di memorizzazione in una società altamente civilizzata sia un processo dinamico pieno di trappole in grado di ricreare e manipolare gli accadimenti del passato. Come la memoria, una volta istituzionalizzata, fatichi ad ampliare i propri confini e prospettive.
Questo lavoro nasce dalle conclusioni raggiunte durante quella conferenza, scritto in inglese, con uno stile conciso e diretto; già a partire dalla sua scrittura tenta in tutti i modi di aderire coerentemente all’archivio semiotico della città di Roma. Si indagano con la stessa sensibilità dell’antropologo urbano tutti i segni ancora vividi della guerra tra i quartieri di Roma con foto, rappresentazioni suggestive, disegni e testimonianze dirette. Una rassegna approfondita e composita dei punti cruciali e delle violenze che hanno segnato l’Urbe soprattutto negli ultimi anni del conflitto, per attraversare quei luoghi carichi di un significato ancora racchiuso nei suoi segni tangibili.
Si ha, durante tutta la traversata, la sensazione di scorgere una miriade di istantanee sul passato appena sbiancate dalla polvere, che sonnecchiano in attesa che qualche curioso si soffermi su questa o su quell’altra targa memoriale e si disponga a ricordare. Si tratta di restituire una dimensione spaziale agli eventi, collocarli nella planimetria cittadina, osservandone le tracce che ancora sopravvivono come testimonianze dirette; alcune ben evidenti, altre già parzialmente opacizzate dal tempo. Il passato diventa sempre più elusivo a mano a mano che il futuro incalza, questi segni concreti rimangono l’aggancio privilegiato per volgere, ancora una volta, lo sguardo all’indietro e vivere consapevolmente il presente.
Articolo di
Claudio O. Menafra