Recensione del romanzo Tredici Centesimi, di Kabelo Sello Duiker
Tredici Centesimi. Sopravvivere a Cape Town è il primo romanzo dell’autore sudafricano Kabelo Sello Duiker: pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 2000 e vincitore nel 2001 del Commonwealth Writer’s Prize, è stato tradotto da Sara Fruner per Marotta&Cafiero. La casa editrice napoletana lo ha pubblicato nel 2020 all’interno della collana “Le zanzare”. Trovatami davanti il romanzo di un autore a me sconosciuto, la prima cosa che ho fatto è stata cercare di conoscere la sua biografia, per tentare di capire quanto e come l’origine e le condizioni di vita dell’autore nato a Soweto, la più grande township – baraccopoli – del Sudafrica, abbiano influenzato la sua opera prima. La mia più grande difficoltà, nella lettura di questo romanzo, è stata proprio quella di approcciarmi a un tipo di cultura e a degli scenari a me totalmente estranei: una pagina dopo l’altra cercavo di calarmi nel punto di vista dell’autore, sperando di non fraintenderlo a causa del “filtro occidentale” da cui, inevitabilmente, è influenzata la mia lettura.
Kabelo Sello Duiker
Sello Duiker ha avuto la possibilità, negli anni della sua giovinezza, di allontanarsi da Soweto per studiare in college e istituzioni scolastiche elitarie, dove lui era uno dei pochissimi allievi neri. Ebbe la possibilità di far questo durante il durissimo periodo dell’Apartheid. Successivamente ha avuto anche la possibilità di studiare a York, in Inghilterra, prima di far ritorno nella sua terra natale. La sua vita non è mai stata facile: è sempre stato un “ibrido”, un nero che aveva avuto la possibilità di elevarsi dalle condizioni di vita della maggior parte dei suoi coetanei, ma destinato a non sentirsi mai davvero al proprio posto in nessun luogo. Suo padre ha raccontato di una volta in cui la loro famiglia si recò in un parco giochi vicino Johannesburg e all’allora Duiker bambino fu detto che le attrazioni erano riservate esclusivamente ai bambini bianchi: l’unica possibilità che rimase al piccolo fu di sfiorare appena i giochi attraverso la recinzione [1]. La diversità, l’emarginazione, l’opprimente sensazione di non avere mai la possibilità di cambiare la propria vita e il proprio destino sono i temi centrali dell’opera di Sello. Ma sono presenti anche la droga, i bassifondi, la paura, la solitudine. Sello morirà suicida nel 2005, dopo un periodo trascorso nella morsa della dipendenza, all’età di appena trent’anni.
Mi fanno male i piedi, ho camminato troppo. Ho gli occhi pesti. Hanno visto troppo. E non finisce mai.
Tredici centesimi
Protagonista di Tredici centesimi è Azure, un ragazzo sudafricano di appena 13 anni. Il proprio nome è la prima cosa che ci dice di sé: a-zu-re, come azzurro. Azzurri sono i suoi occhi, luminosi e magnetici, segno di una maledizione: la sua diversità. Nessun altro nero ha occhi così azzurri, e l’invidia di tutti gli altri isola, punisce, diventa odio. Azure è diverso dai bianchi, perché è nero; ma è diverso anche dai neri, per quel segno distintivo che porta sempre con sé, sul suo viso. A causa dei propri occhi e a causa dell’incontenibile voglia di elevarsi del ragazzo, di volare alto nel cielo come i gabbiani, o di nuotare nel mare aperto e blu, Azure non è “abbastanza nero” agli occhi di chi lo vuole schiavo, sottomesso e infelice: «Devi essere il nero più nero che c’è» gli dice un amico, consigliandogli di passare inosservato, per non essere preso sotto tiro, per non essere picchiato e violentato dagli uomini che in quel pezzo di mondo pensano di essere i padroni, gli dèi, i mostri che tutto divorano.
Ti guardano gli occhi azzurri e le scarpe e pensano “occhi azzurri, scarponcini, questo prova a fare il bianco”. […] Ecco perché è tutta la vita che ti menano. Pensano che tu non sia abbastanza nero.
La seconda cosa che attraggono i suoi occhi è la vicinanza di uomini viscidi, con cui Azure si prostituisce: c’è un dolore trasparente nel modo in cui il ragazzo sa dove poterli attirare, per poter guadagnare così qualche soldo. Non è mai un dolore che urla: è silenzioso e non abbandona mai Azure, come la solitudine.
So cos’è la paura. So cosa significa essere spaventati, stare sempre in guardia. So cosa significa sentire il battito del proprio cuore. Significa che sei da solo.
Lotta per la sopravvivenza
Azure è maturo per la sua età, ha già sofferto un dolore sufficiente ad una vita intera. C’è solo cattiveria tra gli adulti che lo circondano, solo violenza, minacce, sangue: perfino coloro che all’inizio sembrano aiutarlo, si rivelano dei mostri. Ma Azure è forte, è anche più forte di noi: noi, leggendo delle botte che percuotono il suo corpo, leggendo del sangue che schizza dal suo naso, o della sua incontenibile voglia di nuotare, o di mangiare, o di riscaldarsi di fronte a un fuoco, di notte e da solo, non possiamo fare a meno di serrare i pugni e provare pietà. È solo un ragazzo e la vita è troppo dura per lui: non siamo abituati, noi, al mondo bestiale della strenua lotta per la sopravvivenza. Ma lui è forte e ce lo ripete spesso, come a volerci rassicurare del fatto che, in qualunque modo, lui sopravvivrà. Non sappiamo se Azure ce la farà, o se soccomberà sotto il peso di una vita soffocante, come è accaduto all’autore dalla cui penna è nato: il racconto si interrompe al culmine di un momento apocalittico, che può essere o distruzione o liberazione.
Note
- [1] Liz McGregor, Kabelo Duiker. Young South African novelist scarred by a childhood of apartheid, «The Guardian», 2005; (https://www.theguardian.com/news/2005/feb/07/guardianobituaries.booksobituaries; ultima consultazione: 12 febbraio 2021)