Intervista a Giuseppe Manfridi, autore di “Anja, la segretaria di Dostoevskij” opera edita dalla Lepre
Giuseppe Manfridi è uno scrittore e autore teatrale di opere messe in scena in Italia e all’estero. Tra le sue commedie di maggior successo si possono annoverare tra le tante Ti amo Maria! del 1990, La partitella del 2007, L’osso d’oca dello stesso anno. Giuseppe Manfridi ha debuttato anche per il cinema con la sceneggiatura di Ultrà, che, con la regia di Ricky Tognazzi, ha vinto l’Orso d’argento a Berlino nel 1991. Dei suoi lavori di narrativa, Anja, la segretaria di Dostoevskij, edito La Lepre, è solo una della sue ultime opere. Difatti Manfridi ha scritto diversi libri, come Cronache dal paesaggio, con La cuspide di ghiaccio e Cronache dalla Shoah. Manfridi è un autore prolifico che abbiamo avuto modo di intervistare e quindi conoscere al di là dei suoi scritti. L’emozione di sentire la sua storia e quella del romanzo è indescrivibile, lascia posto ai battiti del cuore e al tremolio della voce. È stata una scoperta, una lezione di letteratura e di teatro offerta da un grande maestro. Un’esperienza meravigliosa che porterò sempre con me. Di seguito l’intervista.
In quanto tempo è riuscito a scrivere questo romanzo? Dove ha incontrato le principali difficoltà?
La risposta è articolata perché il romanzo ci ha messo per arrivare ad esistere decenni ma è stato scritto in meno di due mesi. Io vivevo a Parigi, ospito di uno scrittore, era il 1992. Vengo messo a dormire in un lettino, allungo il braccio all’indietro e capita fra le mie mani il diario di Anja Dostoevskaja, colei che diventerà la moglie di Dostoevskij. Io, che in quel periodo leggevo intensamente Dostoevskij, non sapevo di questo diario. Rimango colpito da questa vicenda: l’incontro tra, un Dostoesvkij, quasi cinquantenne, devastato dalla miseria, una vita scomposta, una condanna a morte, l’epilessia. Vengo colpito dal modo piuttosto reverenziale di questa donna, Anja Dostoevskaja. L’incontro tra una fanciullina e questo gigante, introdotto dalle letture svolte da suo padre. A me le storie non è che m’interessano perché come ha detto Celine “le storie vengono in mente a chiunque, quando ci giriamo le troviamo”.
Qualche tempo dopo, Giancarlo Cauteruccio, un grande regista, mi ha proposto di scrivere su Dino Campana. Un testo in cui racconto la riscrittura dei Canti Orfici dopo che erano andati persi. La scrittura di questo testo relativo a Campana e a questo funzionario, ha mosso dentro di me la voglia di scrivere la storia di Anja. Nei primi periodi del 2000 accade che una produttrice mi chiede delle idee per un film possibile mi fa riesumare questa vicenda e un mio amico fraterno, e grande uomo di teatro, mi chiede di trasportare questa storia nel mondo del teatro. Così nasce una sceneggiatura piena di personaggi. Alberto Dastasio nella veste di Dostoevskij e Ivana lotito, per gli appassionati della serie “Gomorra” interpreta la moglie di Gennaro Savastano, nei panni teatrali di Anja. Abbiamo fatto uno spettacolo nel 2000 e io lo pubblicai il testo teatrale con il sottotitolo “un romanzo per la scena”. Uno spettacolo molto entusiasmante. E poi basta. Ho dedicato la scrittura per altre cose. Fin quando, un paio di anni fa, dopo aver pubblicato due libri, parlando con Alessandro Orlandi de “La Lepre Edizioni” che aveva già pubblicato per me “Anatomia della gaffe” e “ Anatomia del colpo di scena”, accarezzammo l’idea di pubblicare un romanzo. Io proposi, senza pensarci, la possibilità di scrivere la storia della giovane segretaria di Dostoevskij: Anja.
Il romanzo è nato nel giro di due mesi e mezzo e devo dire con mio grande entusiasmo. Sentivo dentro di me tutto ciò che la commedia non poteva raccontare se non in termini teatrali o attraverso delle immagini che sono specifiche del teatro. Nel romanzo c’è una visione più dettagliata rispetto alla commedia. Il romanzo ha completato il mio rapporto con questa fanciulla che nel giro di 26 giorni diventerà la sua consorte. Un altro grande personaggio è la città di San Pietroburgo, una specie di New York dove si va per imparare il nuovo, come la piccola Anja, attraverso la stenografia che userà per trascrivere il pensiero che prende voce nel momento di stesso in cui viene pronunciato da suo marito.
Come mai ha deciso di raccontare la vita di Anja?
Esistono dei libri fondamentali su Dostoevkij come il Bach’tin e il Pascal. Quando nacque la mia Anja in teatro queste cose non esistevano. In Russia ne è stata creata una serie tv. Io ho scritto la storia della mia Anja. Romeo e Giulietta, ancor prima di Shakespeare, hanno avuto moltissime scritture. Forse ne scriveranno altre. Io ho cercato di usare questa storia come scorza, non come sostanza. A me interessava raccontare l’atto di una progressiva identificazione di una fanciulla/donna compartecipe di una vita particolare. Alla fine a me è interessato, all’interno del libro, la mia storia al contrario dell’oggettività della storia, poiché l’oggettività della storia è sempre noiosa.
Qual è la posizione e la visione del narratore in questo romanzo?
Il narratore/drone, chiamiamolo così cioè la penna romanzesca è facile da capire. Il narratore è una specie di drone che deve entrare nella testa dei personaggi e raggiungerli anche dove non hanno cognizione di una certa cosa che infondo pensano ma non dicono. In quel sottosuolo l’autore è una specie di drone che può portare da ogni parte, da ogni punto della zona narrativa e anche da ogni punto della realtà mentale, dove poi, all’interno della trama, succederà qualcosa. La fisica quantistica ci aiuta ad aumentare l’area del linguaggio facendoci capire meglio certe cose.
L’incontro fra Dostoevskij e Anja prima di aprirsi ad un dialogo era tutto uno scivolare dalla testa dell’uno e mixando poi tutto nella testa dell’altra. Iil tremore di lei, l’indifferenza di lui. Wittgenstein nel suo trattato “Logico-Philosophicus” diceva “il mondo è tutto ciò che accade, il mondo è l’insieme dei fatti no delle cose”. Cosa vuol dire che se noi siamo in una stanza con dei personaggi, il mondo, il frammento di quella stanza non significa che c’è Dostoevskij seduto dietro la scrivania, non è solo quello; ci sono anche i pensieri e i fatti, poiché i pensieri produrranno dei fatti quindi il Mondo è qualcosa che accade. In una stanza in cui abbiamo una specie di universo di accadimenti contemporanei qualcuno prevarrà sull’altro e darà indirizzo alla realtà nel suo proseguire in una direzione piuttosto che nell’altra quindi ridiscuto la sua domanda togliendo il punto interrogativo, la domanda è la risposta.
Quanto l’elemento teatrale ha inciso nella stesura del romanzo?
Effettivamente è una domanda che va un po’ a uno dei nodi della mia scrittura romanzesca poiché io ho alle spalle decenni di scrittura teatrale. È chiaro che la scrittura teatrale fa sicché il dialogo sia la massima parte di ciò che viene messo su carta e dev’essere di tale natura da poter fare intendere anche ciò che non è dialogo per cui deve creare un habitat. Il dialogo in teatro crea l’habitat che poi il regista trasformerà in immagine, in realtà visibile e gli attori trasformeranno in proscenica, in un tessuto comunicativo fatto di gesti. È dalla battuta che deve promanare questa sorta di “Arena Narrativa”, di habitat. Quando si passa al romanzo è chiaro che l’autore, quell’autore che scivola, che s’infiltra tra le vicende dei personaggi in modo, più o meno, visibile e identificabile si permette delle descrizioni. Se io voglio far sì che quel cappellino abbia importanza, in un testo teatrale, qualcuno deve dirlo “Di chi è quel cappellino?” mentre in un romanzo posso dire “ la ragazza nota un cappellino la cui presenza la stupisce”.
Dal momento in cui passo da una struttura dialogica a una struttura in cui la narrativa può consentirsi degli spazi romanzeschi. Dovrò trovare un diverso equilibrio però è evidente che la mia attitudine fa sicché il dialogo sia uno strumento con cui ho una consuetudine particolare. Per questo lo faccio scivolare con una certa naturalezza dentro la mia scrittura e a volte prende anche il sopravvento. Amo confrontarmi con gli autori che fiancheggiano la mia scrittura nel tempo in cui la produco con gli autori che leggo. Dostoevskij, per esempio, è un autore di cui mi sono sempre sorpreso per il fatto che non abbia scritto teatro, perché i suoi personaggi come possono erompono in battute, erompono in voce, a volte in veri monologhi. Alcuni suoi romanzi sono in toto monologhi, basti pensare a “ Le memorie di un sottosuolo” è tutto un monologo, che guarda caso, più di una volta è stato portato in scena, anche da Polanski, per dire.
A me sorprende che Dostoevkij, per questa sua capacità della messa in voce dei personaggi. Il teatro ha avuto un’importantissimo ruolo in tutta la mia narrativa, ha un ruolo enorme. Io cerco sempre di tridimensionalizzare, come può avvenire per un allestimento scenico quando dopo le battute. Alle spalle c’è un testo teatrale “ Anja” sottointitolato “un romanzo per la scena” come per dire che molti anni fa, pur scrivendo Anja e senza pensare che dopo ne avrei scritto un romanzo, sentivo che in quella commedia vi erano degli elementi romanzeschi di ampliamento del concetto di tempo che andava oltre la dimensione tipica di un fatto teatrale. Così, quando sono passato nella dimensione romanzesca, io ho voluto mantenere questa sorta di dimensione scenica, per cui quando siamo a casa di Dostoevskij voglio che i lettori si sentono al contempo spettatori.
Accolti in un luogo in cui prima hanno preso confidenza. Quando il lettore passa dalla casa di Anja allo studio di Dostoesvki mi piacerebbe che d’istinto il lettore sentisse quell’odore di thè al timo o di sigaro. La prima volta lo dico, la seconda volta lo alludo e alla terza volta mi piacerebbe che il lettore si trovasse nella condizione di sentire quel tipo di clima. Questo non è più teatrale ma romanzesco. L’elemento teatrale mi fa rapportare con il lettore come con uno spettatore secondo le varie leggi consentite dal teatro. Un approccio diretto con lo spettatore, in cui l’autore- drone accenna quasi a un colloquio con chi legge, dando delle specificazioni sulla storia, una sorta di confidenza fatta al lettore. Io parlo di transfert. Ad un certo punto avviene un transfert in questa dimensione altra, sempre fantascientifica, che è questa finzione-reale, quella letteraria dove qualcosa avviene. Non è il resoconto della storia a creare l’emozione ma è la scelta delle parole che non debbono essere volutamente altisonanti, enfatiche o scenografiche ma giuste per capire esattamente qual è il carico di emozioni provate in quanto non ci serve dire l’emozione che ho provato io ma mi serve per far provare l’emozione a te lettore. Questo è l’impegno dello scrivere.
Qual è la differenza tra il Manfridi Shakespeariano (legato al mondo del teatro) e il Manfridi Dostoevskiano (legato al mondo della prosa)?
Secondo me sono due artisti che avevano grandissime affinità perché comunque erano scrittori rapinosi, votati al senso della velocità come dev’essere quella di un drammaturgo che debba rifornire in tempi stabiliti una compagnia, che sennò non può andare in scena senza il copione. Così lui doveva rifornire i giornali della puntata che doveva essere pubblicata altrimenti il giornale sarebbe uscito con una mancanza. Il rapporto che c’è tra Dostoevkij e Shakespeare, io lo rilego anche nella loro attitudine ad essere a volte meravigliosamente grossolani, motivo per cui mi diverto a ricordare a Dostoevskij che spesso Shakespeare non si curava della precisione geografica e storica.
Trovo che la domanda è quanto è shakespeariano Dostoevskij e quanto è dostoevskijano Shakespeare? Perché è certo vero che in Dostoevskij certi personaggi hanno una vocazione di essere scenici, teatrali, parlano, dialogano. Così è vero che in Shakespeare tante cose dette fra i personaggi dovrebbero essere dette da un autore del romanzo. C’è un libro di D’Amico “Scene e luoghi in Shakespeare”, dove fa una specie di antologia di battute shakespeariane in cui, parlandosi fra di loro, i personaggi informano, con grande sapienza scenica, gli spettatori di cose che altrimenti non potrebbero sapere. Ci sono tante cose che Shakespeare ha assorbito nei dialoghi ma che Dostoevskij magari si sarebbe consentito di mettere a parte escludendole dal dialogo. Io mi riconosco profondamente in entrambi i mondi che mi hanno alimentato per tanti e tanti anni, la risposta rimanda un po’ alla precedente. I codici teatrali sono presenti nella mia narrativa, in Anja in modo palese.
Cosa pensa lei del panorama letterario italiano d’oggi?
Innanzi tutto, debbo dire la verità, la mia risposta può essere antipatica da un altro punto di vista: sono poco frequentatore del nuovo nazionale cioè amo i miei autori e da un certo momento della mia vita sono divenuto un accanito rilettore. So apprezzare un autore a volte più eroe in quanto capace di affrontare imprese e traduzioni folli. Per questo dicevo che dalla quarantena in poi mi sono affidato alla lettura, una dopo l’altra, di tutti e cinque le traduzioni dell’Ulisse di Joyce e lì per me sono messe in gioco delle grandi audaci riscritture. La nostra narrativa ha prodotto delle opere che vanno ancora digerite, ad esempio, noi nel ‘900 abbiamo avuto un romanzo come “Orcinus Orca” di Stefano D’Arrigo, definito come il Moby Dick italiano.
Non ho mai letto libri di coloro che in genere vengo letti, non per avversione. Quando scrivo un testo è come se quel testo un po’ mi aiutasse ad avvicinarmi ai libri che potrebbero aiutarlo ad esistere. Allora francamente mi avvicino di più a Silone, che ho letto poco ma cerco di leggere. Leggo una pagina di Longhi, un grande critico d’arte o di Cecchi che comunque in due pagine mi ricorda una prosa non tradotta. Se leggo Dostoevkij stesso, lo leggo per vedere come intarsia il dialogo dentro la massa narrativa e come annuncia il dialogo stesso, la battuta di uno e la replica dell’altro. Questa è tecnica, questa è maniera. Cerco di dire quale pulsazione ritmica c’è. Questo preferisco farlo con gli autori che conosco. Leggo autori che ho sempre amato e torno in case conosciute. Non sono un critico letterario non mi è chiesto di leggere libri e allora io del panorama letterario italiano sono molto inesperto.
Lei si riconosce di più in Dostoevskij o in Anja?
Flaubert dice “Madame Bovary c’est moi” è l’autore che dice io ho dato vita a Mme Bovary, cioè Mme Bovary viene da me. La risposta più vicina alla verità è ovviamente, nel gioco delle finzioni, sia chiaro, mi riconosco in Dostoevkij, mi riconosco in colui che, in qualche modo, deve aprire il proprio immaginario anche con reticenza a una fanciulla, con la quale, lentamente comincerà a sentire l’indispensabilità. Io ad Anja l’ho amata, la sua nascita, a l’emozione sentimentale lei la vive da fanciulla. Casomai io mi riconosco moltissimo in Sergej per un fatto personale. Quel bacio ovvio, che la sera prima le avrebbe dato, la sera dopo non sarebbe più stato ovvio.
Maravillosa entrevista la de Fabrizio. La manera en que aborda cada pregunta al escritor Giuseppe Manfridi es una invitación a leer su obra.
Saludos y éxitos desde Colombia.