Il sessismo nella lingua e le proposte per arginarlo
Il sessismo nella lingua e le proteste che ne derivano sono temi al centro del dibattito già dagli anni ’60, non scevri da polarizzazioni. In questo articolo cerchiamo di fare il punto della situazione analizzando le proposte più rilevanti in ambito linguistico, per osservarne gli aspetti positivi ma anche i limiti.
Capotreno aggredita da un passeggero senza biglietto.
Se avete letto questo titolo, preso da un articolo della Repubblica, pensando inizialmente al capotreno come a un uomo e associandolo solo dopo a una donna grazie all’aggettivo femminile, allora siete vittime di stereotipi sessisti. Almeno in parte però la colpa non è vostra. Secondo l’ipotesi Sapir-Whorf (o ipotesi della relatività linguistica), che prende il nome dai linguisti che l’hanno elaborata negli anni ’50, la lingua che parliamo condiziona il nostro modo di pensare: incorpora una visione del mondo e ce la impone.
Siamo noi ad essere parlati dalla nostra lingua, anziché essere noi a parlarla
A partire da queste premesse, già negli anni ’60 con la crescita dei movimenti femministi si è cominciato a riflettere sul sessismo nella lingua e su quanto essa sia pervasa dal condizionamento di «genere» (in inglese gender), quel costrutto sociale che attribuisce differenti comportamenti e ruoli a un determinato sesso. Concentrarsi sulla lingua non è così importante quanto lo è cambiare la società, potrebbe pensare qualcuno. Tuttavia gli studi in merito dimostrano come la lingua comune rivesta un ruolo fondamentale nel costruire la realtà e — secondo una recente ricerca della Carnegie Mellon University — le nostre parole rischiano di incidere sulle scelte e sulle rinunce delle nuove generazioni, frenando le ambizioni femminili. Per citare Cecilia Robustelli, è importante che il linguaggio «sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi».
Come rendere più inclusiva la lingua?
Con il solito ritardo, in Italia la questione è giunta negli anni ’80. È particolarmente noto che nel 1986 Alma Sabatini pubblicò Il sessismo nella lingua italiana, un manuale di raccomandazioni per evitare gli stereotipi di genere nel linguaggio, stilato per la Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra donna e uomo del governo Andreotti. Alcune proposte di Sabatini sono oggi sempre più parte del linguaggio comune, come i nomi
femminili riferiti a occupazioni e ruoli: senatrice, avvocata, sindaca, chirurga, poliziotta, ecc. Non è d’altronde un mistero che i nuovi usi si impongano quando nascono realtà nuove, e dunque l’accesso a cariche prestigiose da parte delle donne nell’ultimo secolo ha favorito l’uso più frequente delle forme al femminile. Chi le trova “cacofoniche” o errate è tratto in inganno dalla poca familiarità che ha con esse, giacché queste sono grammaticalmente corrette.
Il caso Sabatini
Il caso Sabatini ci conferma però che la lingua non accetta il prescrittivismo, decisioni prese a tavolino e imposte dall’alto: molte altre sue proposte non sono infatti entrate nel nostro linguaggio quotidiano. Fra queste, quella di eliminare la marcatezza del genere (cioè il maschile “collettivo”) anche in espressioni d’uso comune, come in «caccia all’uomo» da sostituire con «caccia all’individuo»; oppure di usare il femminile quando ci si riferisce a un gruppo composto prevalentemente da donne: «Carla, Maria, Francesca, Sandra, Giacomo sono arrivate» e non
«arrivati»; e in altri contesti, come per «maternità» quando un’opera è composta da una donna (e non «paternità»), o per «il popolo inglese» al posto de «gli inglesi». Se difatti è più facile instaurare nuovi usi linguistici relativi a nuove realtà, è difficile, se non sbagliato, scardinare modi di dire che ormai fanno parte della vita di tutti i giorni e che non hanno alcun intento sessista.
Per di più, tentare a tutti i costi di offrire una lingua più inclusiva renderebbe in alcuni casi poco pratica la comunicazione. Come osserva Giulio Lepschy, frasi del tipo «è arrivato un tuo amico/ una tua amica» dovrebbero trasformarsi in «è arrivata una persona per la quale hai un atteggiamento amichevole». Talvolta i sostenitori di tali raccomandazioni hanno ammesso che accorgimenti del genere servono soprattutto per il linguaggio formale e non per quello corrente. Ma il rischio in questo caso sarebbe quello di creare un divario fra le due istanze comunicative. La soluzione più opportuna sarebbe adottare il giusto mezzo cercando di evitare le formule sessiste ove possibile, senza forzare la spontaneità della comunicazione e l’economicità della nostra lingua. Fra le poche indicazioni più concrete e semplici che abbiamo a disposizione, Valeria Della Valle propone su Treccani di evitare ad esempio «i nomi di professione che terminano in -essa (tranne quelli già affermati, come dottoressa, studentessa, ecc.), perché hanno una sfumatura ironica o peggiorativa» e di «evitare di aggiungere la parola donna al nome maschile che indica la professione o la carica (donna giudice, donna poliziotto, notaio donna, chirurgo donna, ecc.), perché questo tipo di accostamento, solo apparentemente neutro, sposta l’attenzione sul sesso della persona invece che sul ruolo professionale svolto».
Un linguaggio non binario
Nella nostra modernità si impone tuttavia una nuova problematica legata all’identità di genere. Vi sono infatti persone non binarie, che cioè non si identificano completamente nel genere maschile o femminile. La stessa Donna Haraway scrisse nel 1995 che la nascita del cyborg avrebbe decostruito il pensiero binario occidentale, «di cui le opposizioni uomo/donna e mente/corpo rappresentano solo due tra gli assi concettuali più importanti». La pretesa naturalità dell’uomo è una costruzione culturale e non possiamo più pensarci in termini esclusivamente biologici. Ciò ha delle ricadute anche sul versante linguistico. In ambito inglese, ad esempio, le persone non binarie scelgono di utilizzare per se stesse i pronomi neutri it e they (“esso”, “loro”). L’italiano non offre tuttavia la stessa possibilità di scelta e ciascuno è costretto ad utilizzare per sé il maschile o il femminile. Per ovviare a tale mancanza, ma più in generale per riferirsi a un gruppo di persone evitando la marcatezza del genere, si è pensato di utilizzare l’asterisco o (più di recente su proposta dell’ex cruscante Vera Gheno) lo schwa al posto della desinenza, forme sempre più frequenti negli ambienti LGBT+, femministi e progressisti. In questo modo «buongiorno a tutti» si può sostituire con «buongiorno a tutt*» o «buongiorno a tuttə».
L’uso dell’asterisco, che non ha pronuncia, può però applicarsi soltanto allo scritto e il rischio è, ancora una volta, di causare un divario con il parlato. L’uso dello schwa invece, una vocale neutra e indistinta prodotta nel centro della bocca (come in Napule), è del tutto estraneo alla nostra lingua (diffuso solo in alcuni dialetti) e imporrebbe quindi una riforma sia in senso grafico, dato che non è presente nel nostro alfabeto né inclusa nelle tastiere, sia in senso fonologico. I limiti sono insomma tanti e, ci suggerirebbe l’esperienza, insormontabili. Per ripescare un fatto
analogo bisognerebbe tornare indietro al Cinquecento, quando l’umanista Gian Giorgio Trissino propose invano di adoperare nuovi segni grafici come ε ed ω per distinguere le vocali aperte da quelle chiuse.
La nascita di nuove realtà rende inevitabile i mutamenti linguistici
Nulla è però impossibile e, come più volte ribadito, la nascita di nuove realtà rende inevitabile il mutare progressivo della lingua. Un mutamento linguistico è sempre graduale: si applica inizialmente a contesti molto ristretti e presso una piccola fetta di parlanti, fin quando in un secondo momento non si diffonde ed entra in uso accanto alle forme tradizionali, per affermarsi infine e sostituirsi alla vecchia norma. L’utilizzo di asterischi e schwa non appare a molti la soluzione migliore, ma a dirlo veramente potrà essere solo il tempo, unica condizione necessaria affinché un’espressione conquisti una scala sempre maggiore di parlanti, a meno che non subentrino alternative più semplici.
In questo mare di confusione, il compito del linguista d’oggi non è quello di prescrivere forme corrette, ma di osservare i fenomeni in corso e descriverli. Come suggerisce Francesco Sabatini
per l’incalzare dei ritmi generazionali, per l’incontro tumultuoso tra le più diverse culture e lingue, sotto i colpi di una tecnologia che non lascia respiro — sono cambiate parecchie condizioni e situazioni di base, per cui anche l’uso della lingua non segue più un corso placido o quasi stagnante. […] Il compito di chi indaga e riflette sulla lingua, in fondo, è tutto qui: consiste nel far sì che i processi evolutivi si svolgano nella consapevolezza. Ma i processi sono comunque in atto e proseguono.
Bibliografia e sitografia
- Valeria Della Valle, Il femminile in grammatiche, dizionari, manuali (e giornali), Treccani, 2012;
- Agnese Ferrara, Italiano, lingua sessista sul lavoro. Donne frenate fin da piccole da stereotipi
anti-carriera, Ansa, 2020; - Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano,
Feltrinelli, 1995; - Giulio Lepschy, Lingua e sessismo, in Nuovi saggi di linguistica italiana, Bologna, Il Mulino, 1989,
pp. 61-84; - Cecilia Robustelli, Il sessismo nella lingua italiana, Treccani, 2012;
- Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Roma, Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra Uomo e Donna — Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, 1986;
- Francesco Sabatini, “L’italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane in Gunter Narr Verlag, Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Tubinga, 1985;
- Gian Giorgio Trissino, Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana, 1524;
- Gabriele Valle, Lingua non porta pena: sul sessismo, tra Italia e Spagna, Treccani, 2018;
- Alessandra Vescio, Il difficile dibattito in Italia per un linguaggio inclusivo, valigiablu.it, 2020.