Questo racconto parla di un orologio rotto a cui è legata una maledizione
La persona a cui appartiene questo orologio ha perso il suo amante e potrà dimenticarlo soltanto nel momento in cui l’orologio – irreparabile – riprenderà a funzionare.
Zahir,
mia indimenticabile maledizione.
Ho davanti l’oggetto della nostra condanna e non riesco a staccare gli occhi dalla sua immobilità. Ho svuotato la scrivania perché restasse lui solo, terribile nella sua staticità di metallo freddo e vuoto. No – non vuoto, perché gli ingranaggi li ha, ma sono inutili come il cuore viola di un cadavere.
L’ho portato a Bienne. È luogo comune che i migliori orologiai siano svizzeri. Ne ho trovato uno che resta chiuso nella sua bottega da quarantacinque anni, riparando e costruendo ogni ingranaggio che la fortuna e gli uomini gli abbiano dato da riparare e costruire. Ho aperto la porta e sono stata investita – può un suono investire? Io dico di sì, perché la sensazione è stata devastante e tutta fisica – dal ticchettio intenso di centomila ingranaggi. Centomila ticchettii di centomila orologi diversi, sovrapposti, corali, accavallati, alcuni sincronizzati, alcuni partivano prima di altri, altri erano più forti, altri ancora – quelli più distanti o più piccoli – appena percepibili. Subito gli occhi mi sono bruciati di un pianto rabbioso, perché il mio desiderio da mesi è d’udire un solo ticchettio di un solo ingranaggio, fissando il nostro infernale orologio fermo, e in quel momento ne sentivo centomila e nessuno apparteneva al nostro.
Dimenticherai il tuo Zahir quando questo orologio fermo riprenderà a ticchettare.
Quale condanna, mio indimenticabile. L’orologiaio ci lavorò su quattro giorni e tre notti. Pensavo sarebbe stato un sollievo non avere in casa quel dannato orologio per un po’, ma la verità è che forse l’ho pensato anche più ardentemente, in sua assenza. Era come avere una parte di me – inutile e non funzionante, ma pur sempre una parte di me – nelle mani di uno sconosciuto, e smaniavo perché passassero i giorni e potessi riaverlo con me. Mi chiedevo se le dita di quell’uomo rodate da quarantacinque anni di mestiere stessero ottenendo dei risultati. Magari è la volta buona, mi dicevo. Ma poi pensavo: stupida e folle, ricordi ancora Zahir, e questo vuol dire che l’orologio è ancora fermo nella vostra maledizione.
A volte mi chiedo come sarà quando si avvererà la cosa che desidero più di tutte, sopra ogni altra al mondo. Come sarà quando l’orologio riprenderà a ticchettare e io ti avrò dimenticato. Forse rigirerò quel vecchio ciarpame tra le mani e, non ricordando a cosa serva e trovandolo semplicemente brutto, lo getterò via. Forse avrò la benedizione dell’ignoranza e tutto mi sembrerà nuovo e dolce. Ne sono terrorizzata.
Non ho più te, Zahir, e Dio solo sa quanto vorrei non averti davvero. Ma finché quel pezzo di metallo verde non funziona, tu resti. Ed io la chiamo maledizione, ma tu resti.
Dopo quattro giorni e tre notti, Herr Luthi l’orologiaio mi ha telefonato per dirmi che il mio orologio era irreparabile. Gli ho chiesto di spedirmelo. Non ho alcuna voglia di tornare là dentro e ascoltare la felicità di centomila ingranaggi funzionanti, mentre il nostro è freddo e morto e infelice.
La prossima settimana andrò a Kyoto, dicono che anche i giapponesi siano ottimi orologiai. Non so se siano più bravi degli svizzeri, ma hanno sicuramente una mitologia più vasta e sconosciuta. Confido che esista una leggenda, in Giappone, che parli del dolore di una donna che ha perduto il suo Zahir, che è condannata a ricordarlo per infiniti giorni e infinite notti, fino a quando la lancetta di un orologio rotto riprenderà a camminare.
A volte la notte mi sveglio e mi pare di sentire un battito nel vuoto, nel buio, come un cuore rivelatore. Ci sono due momenti, durante il giorno, in cui smetto di respirare per un secondo. A mezzogiorno e trenta minuti, e a mezzanotte e trenta minuti. In questi due momenti, il nostro orologio segna l’ora esatta e la maledizione sembra spezzata. Basterebbe un solo secondo, che non arriva mai.
Zahir maledetto, mio indimenticabile, ti ricordo ancora.