Intervista a Federico Maria Giansanti, FMG Production
Federico Maria Giansanti, regista e sceneggiatore di “Safe”, spettacolo vincitore riconoscimento come “Miglior Spettacolo” e “Premio del Pubblico” al Great Salt Lake Fringe Festival di Salt Lake City, Utah (USA), del premio di “Miglior sceneggiatura inedita” del Desenzano Film Festival 2020 e la “menzione speciale” al Tagore International Film Festival in India.
Non abbiamo potuto vedere “Safe” per motivi legati alla pandemia; la prima domanda che ti voglio fare è: parlamene, racconta cos’è “Safe“!
“Safe” è innanzitutto uno spettacolo teatrale, e questa è la risposta più semplice da dare. Uno spettacolo che parla di tante cose: soprattutto del dubbio, che è una tematica ricorrente in quello che scrivo. Parla della paura di fallire, di essere soli, di non riuscire e della paura dei giovani di affrontare il futuro. In “Safe”, il dubbio affrontato è quello della fede, la fede in Dio. Safe parla, quindi, di una persona giovane, che è anche una suora, e si trova in una situazione drammatica. Una piccola comunità di 12 persone, rimasti in 3: lei, il fact totum della casa, Paul e la signora Parker, che è moribonda sul letto perché ha questo virus. Tieni presente che non si parla mai di coronavirus, ma virus viene detto due volte, a inizio e a fine spettacolo. Lo spettacolo è strutturato in modo da spiare la suora per vedere lei cosa prova mentre cerca di tenere tutti uniti e di dire a tutti “andrà tutto bene” o come hanno detto in Inghilterra “stay home, stay safe”. Ma a casa poi sei davvero al sicuro? Stai davvero bene?
Da dove viene l’idea?
“Safe” è stato scritto durante il primo lockdown, in quanto costretti a stare a casa non potevamo ovviamente fare spettacolo e quindi con la produzione, FMG, ci siamo trovati a guardarci negli occhi e chiederci “ok, non incasseremo nemmeno un euro, come campiamo adesso?”. Mio fratello, Francesco, e Gabriele Grassi, l’altro socio, che si occupano della parte manageriale del progetto erano sereni “quando si apre si apre”, dicevano, e io invece lì analizzare quello che provavo e a scriverlo. Dico sempre che ho passato i miei giorni a leggere, scrivere e fare flessioni. Mi definivo un carcerato con i comfort che un carcerato non ha: tv, doccia, netflix. Ho deciso di parlare di questa solitudine: non potevo vedere i miei genitori, mio fratello che abita a due passi. Ho iniziato a parlare di questa cosa pensando “Ma a chi interessa la vita di questa persona a casa, se siamo tutti in questa situazione?“. Successivamente, ho iniziato a pensare alle categorie che ci interessano di più, le persone più esterne a noi: gli spacciatori, le prostitute, i tossici, ma non trovavo un movente forte. A un certo punto, l’illuminazione. Ho capito che tutti stiamo sperando. Chi spera? Chi ha fede, chi crede. E chi crede? Beh, una suora! Le donne comprendono la vita meglio degli uomini. Sentono sulla loro pelle che significa dare la vita. E quindi capiscono meglio la mancanza di vita.
Hai riportato alla luce i sentimenti di una persona in quarantena; avresti mai potuto creare un personaggio con queste emozioni e sensazioni senza il covid?
Assolutamente no. Le tematiche di Safe esistono proprio perché c’è questa situazione che crea dubbi, dubbi sulle relazioni interpersonali. Io non avevo mai contemplato questa situazione, per me esisteva solo nei film. Io ho sempre pensato “se stiamo attenti si risolve” e io sono sempre stato attento, e poi ho capito che era un casino grosso. E non avrei mai pensato né voluto scrivere una cosa del genere. L’ho scritta perché avevo bisogno di comunicare. A noi non importa davvero perché il personaggio sia chiuso in casa, a noi importa sapere come sta, cosa soffre, come lo fa sentire l’essere chiuso dentro. Sister Daisy disinfetta e lava per terra costantemente, in modo ossessivo, questo contestualizza bene il suo stato d’animo, il modo per reagire e proteggersi. Lei è lì e pulisce di continuo.
Con questo spettacolo hai partecipato al Great Salt Lake Fringe Festival di Salt Lake City e sei in gara per il Asheville Fringe Art Festival; Safe nasce in inglese. Quanto vi siete mossi fuori dalla vostra Safe zone?
“Safe” nasce in inglese e nasce come cortometraggio perché avevo letto che c’era la possibilità di partecipare al film festival di Salt Lake City. Poi, siccome dal 4 giugno si poteva uscire di casa, ho deciso di organizzare delle prove in totale sicurezza al teatro Trastevere, eravamo in 3 in un teatro da 100 posti con maschere, distanza. C’eravamo io, Valeria Wandja, che è l’attrice protagonista e Gabriele, il mio assistente alla regia, bravissimo attore ed è parte della Fmg. Abbiamo fatto queste prove e poi abbiamo deciso di girare “Safe” con l’aiuto di Davide Manfrevola, Stefano marroni, Flavia Baldini e mio fratello Francesco Maria Giansanti. Nel momento delle riprese eravamo in 5 e l’unica non mascherata era l’attrice che era sul palco a distanza da noi. Abbiamo spedito questo prodotto ai ragazzi del festival di Salt Lake City che ci hanno selezionato per partecipare e fare lo streaming.
Sapevamo che il prodotto era buono, ma non ci aspettavamo di vincere i premi ‘miglior spettacolo’ e ‘premio del pubblico‘. Poi abbiamo portato “Safe” in cartellone al Trastevere, era previsto in scena per novembre ma ovviamente è stato posticipato. Nel mentre però ci hanno selezionato per il Film Festival del North Carolina e siamo in selezione per un bel po’ di bandi al momento. Avverrà tutto in streaming ma abbiamo delle selezioni in presenza per Bulgaria, Ucraina e Germania, poi ci rimettiamo a quello che accadrà. Ma sapere che in un momento di pandemia noi ci siamo mossi investendo tempo e soldi e partecipando anche a bandi internazionali e abbiamo ottenuto dei buoni risultati anche dal punto di vista di presenza online, mi rende molto fiero.
Abbiamo rischiato e abbiamo rischiato bene.
Come hai reso fruibile lo spettacolo per un pubblico inglese, da un punto di vista della localizzazione?
Partiamo dal fatto che Sister Daisy non è inglese e questo facilita le cose. L’attrice protagonista, Valeria Wandja, è afro-italiana e quindi alla base c’è un’attrice con un melting pot personale che può interpretare un personaggio con un suo melting pot culturale forte. Quando ho scritto la sceneggiatura del corto l’ho scritta direttamente in inglese, pensando in inglese, perché ho studiato in inglese e lo parlo come l’italiano o quasi. Poi, per fortuna, Valeria parla 3 lingue e quindi stesso nella stesura magari io scrivevo certe parti in inglese e altre in italiano e lei le traduceva in inglese o anche in francese, perché mi interessava l’idea di avere un personaggio che parlasse francese all’interno del suo nucleo familiare, e questa è una cosa che vediamo in tre/quattro frasi in un flashback della sua storia passata. Però è stato un processo molto naturale perché l’inglese è sempre stato parte della mia vita e anche della sua quindi ci siamo sempre confrontati per trovare la soluzione più giusta, ma non British nell’accento.
Sister daisy non ha una vera e propria localizzazione geografica, sappiamo solo che non è propriamente inglese e che è sola in un posto isolato.
Nello spettacolo fate riferimento allo ‘scenario post apocalittico’, tendenzialmente non presente in teatro data la sua difficoltà. Come sei riuscito a renderlo? Su cosa ti sei concentrato?
Bella domanda! Per me il teatro più bello è fatto di pochi elementi. Se io entro in teatro e vedo molti elementi scenici penso sia un modo per nascondere delle carenze nei contenuti o nella recitazione. Se invece non c’è una scenografia posso farti immaginare tutto. Il post apocalittico distrugge tutto, non porta nulla, non devo mostrare nulla. Il post apocalittico giustifica il covid, ma non volevo parlare del covid, quindi ci concentriamo sullo scenario: l’isolamento, la costrizione, l’isolamento, e questo è post apocalittico. Non posso fare nulla perché ci sono gli zombie, non posso fare nulla perché c’è il covid, è uguale.
Qual è la parte più difficile di scrivere Safe?
Sicuramente è renderlo il meno retorico possibile. Renderlo profondo, nella sua apparente superficialità. Io mi sono basato molto sul fatto che la società di oggi è superficiale. Sister Daisy parla sempre di unità, dello stare uniti. Dice che finchè siamo uniti andrà tutto bene e anche questo dà un senso di profondità nella superficialità. Lei crede, si basa su un credo che è profondo ma non le dà risposte. “Safe” vuole essere profondo nella superficialità.
Come mai la scelta di Valeria Wandja come protagonista di Safe?
Io ho studiato nella sua stessa accademia, il centro studi acting, mi sono diplomato prima di lei. Considera, e ci tengo che sia scritto nero su bianco, Lucilla Lupaioli che è la direttrice dell’accademia, ha visto le prove private di “Safe”, ha letto il testo, mi ha insegnato tutto quello che so. Lei è il mio mentore, insieme a Alessandro di Marco, anche lui docente dell’accademia. Per me loro sono importantissime nel mio lavoro, e io a loro chiedo tantissimi pareri. Ma torniamo a noi, perché Wandja? Io faccio i corsi di recitazione per tenermi in allenamento, e il suo modo di lavorare mi ha sempre ammaliato. Lei è dettagliata, è studiosa, è una che immagazzina e ha coscienza di quello che fa. Non fa nulla per tentare. Poi parla inglese perfettamente. Per me lei è un’attrice gigantesca e io spero di vederla sugli schermi e nei migliori teatri perché se la merita. Lavorare con lei è bello e stimolante.
Un’ultima cosa, perché dovremmo venire a vedere Safe?
Perchè è un monologo che non è un monologo, ma è uno spettacolo completo. lei interagisce con due personaggi che non ci sono, c’è musica, c’è anche una canzone alla fine. Si sfruttano i due livelli del teatro: palcoscenico e proscenio. Secondo me nei 46 minuti di durata si dice tutto e tutte le sensazioni provate in questo periodo sono chiare. E poi, bisogna venire a vedere Safe anche per supportare un gruppo di ragazzi che ci mettono anima e cuore. Un po’ come andare a mangiare la pasta al ristorante degli amici, per supportarli e perché la pasta è buona.
Uno spettacolo che merita di essere visto,per riflettere e trovare il raggio di sole a cui ispirarsi in tutti i momenti bui della vita