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Intervista a Nicola Magrin

Intervista a Nicola Magrin

Nicola Magrin – un viaggio nel mondo dell’acquerello

Nicola Magrin si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano e si specializza nello studio dell’acquerello, grazie anche all’esperienza di studio presso New York. Nicola divide il suo tempo tra Monza, dove c’è il suo atelier, e i molti viaggi che hanno come comun denominatore la montagna. Mete lontane o vicine, come le Alpi a cui è affezionato, i monti sono le sue destinazioni preferite. Il contatto con la natura è alla base della ricerca di Nicola, cosa che appare anche nei suoi dipinti. Il 20 novembre uscirà “Passi silenziosi nel bosco” edito Galleria Nuages, opera in cui gli acquerelli di Nicola dialogano con le chine di Hugo Pratt e la poesia di Marco Steiner, libro che vi consigliamo.

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“Passi silenziosi nel bosco” – libro realizzato insieme a Marco Steiner per Galleria Nuages

“Il richiamo della foresta”, opera che racconta la vita struggente e in fine libera di Buck è uno dei tuoi ultimi lavori; cosa si prova a essere “fianco a fianco” di un autore come di Jack London?

È una bella fortuna poter iniziare a realizzare i propri sogni facendo quello che si ama, che per me è dipingere ad acquerello. “Il richiamo della foresta” fa parte di una collana della galleria Nuages, galleria di Cristina Taverna; è un libro che è stato uno dei miei sogni fin da sempre. Ero un ragazzino dei primi anni del liceo classico e mi ricordo che andavo spesso a comprare questi grandi classici della letteratura illustrati da Pratt, Moebius, Mattotti e Folon…. Andavo spesso nella galleria di Cristina Taverna e un giorno ho deciso di portare con me il mio book di lavori ad acquerello per farglieli vedere; lei fu molto gentile e mi disse quanto le fosse piaciuto il mio lavoro, anche se come sottinteso c’era il consiglio di crescere ancora di più e andare avanti. Mi disse “Segui il tuo istinto, segui la tua strada, perché hai già un tuo segno e una tua identità”; parole che per me sono state molto importanti. Passano molti anni, finisco gli studi presso l’Accademia di Brera e inizio a dipingere, riuscendo anche a fare la prima mostra. Siamo ormai arrivati a 3 anni fa quando Cristina mi contatta, chiedendomi di fare una mostra presso la sua galleria. Era la fine del 2017 ed era uscito il mio primo libro illustrato, che ho fatto con Folco Terzani “Il cane, il lupo e Dio”, edito Longanesi. L’idea da cui si era partiti era quella di fare una mostra sul libro appena uscito ma io, che sentivo di essere arrivato a un momento decisivo della mia carriera, ho avuto – per così dire – il coraggio di proporre come tema centrale il grande classico di Jack London: “Il richiamo della foresta”. Cristina ha subito appoggiato la mia idea ed è una cosa che ricorderò sempre!

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“Il richiamo della foresta” – Illustrazione Edizioni Nuages, 2018, – acquarello su carta – cm 38 x 28,5 – 2018

In che modo il fumetto di Hugo Pratt è stato per te un punto di riferimento?

Quando Cristina Taverna mi ha contattato recentemente per realizzare disegni da affiancare ai testi di Marco Steiner ero davvero commosso. Hugo Pratt muore il 20 agosto del 1995 e da quel giorno sono andato spesso ad accendere un cero per lui, un pensiero. Pratt, come pittore; Wheeling, l’Irlanda, paesaggi che mi sono rimasti nel cuore da quando li ho visti la prima volta. Chi l’avrebbe mai detto che oggi avrei fatto un libro e una mostra dedicati a lui! Ho amato l’atto pittorico di Pratt, me lo sono sempre portato nel cuore; i suoi acquerelli con, come diceva lui, “la sua acqua sporca” che faceva danzare di qua e di là, sono parte di me.

Lasciarsi guidare dall’acqua per narrare con un pennello; usi delle sfumature fredde ma che sanno raccontare il calore di momenti suggestivi e irripetibili: cosa ti guida nella scelta dei toni? Quando capisci che il racconto è vivo? L’acquerello;

Seguo l’acqua. Come dicevo l’atto pittorico di Pratt l’ho sempre portato nel cuore. Con l’acquerello, ed è una cosa tipica per chi lo lavora, si può giocare con il caso; e questa è una cosa molto bella, perché l’acquerello non lo puoi governare. Per come lo uso io, cioè con tanta acqua, giochi di colore, chiazze la casualità è centrale. Per me è un bene, perché di fronte a una cosa che si potrebbe vedere come un errore, io la vedo come un inciampo; ma come accade in montagna, quando si inciampa bisogna sapersi rialzare. A me piace l’arte di adattarsi, quindi l’arte di riuscire con poco a fare tanto è una cosa bella che ho imparato quando ero in Australia. Avevo vent’anni e per dipingere spesso mettevo a bollire bustine di tè. Mi servivo di cose con cui macchiare la carta, come faceva Amelie Poulain, per invecchiare e ingiallire le sue lettere. In definitiva faccio danzare – come Pratt – quest’acqua sporca di colore sulla carta, ponendo sempre attenzione all’imprevisto; una macchia sporca può diventare subito un uomo o altro; la velocità deriva solo dall’esperienza ma di base c’è una sorta di intuito che con altre tecniche non avrei. C’è un film stupendo, di Kim Ki-duk, si intitola “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, dove c’è un monaco che a un certo punto con dei peli di gatto, legandoli insieme, fa un pennello per dipingere prima con la china e poi addirittura con l’acqua, per esprimere il senso dell’evanescenza: i segni coreani, che essendo dipinti solo ad acqua, scompaiono in modo ineluttabile. Io ho un modo di dipingere che definirei molto orientale; con un vecchio pennello cinese seguo l’acqua e creo immagini.

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“Wolves” di Nicola Magrin, su wwwnicolamagrin.com – acquerello su carta – 28,5×38 cm

La carta conta?

Io uso la carta Arches da ormai quasi vent’anni però mi piace anche sapere che per come uso io l’acquerello, potrei anche usare un foglio di quelli che si usano per stampare o qualsiasi altra cosa, andrebbe comunque bene.

“A forza di essere vento”, mostra che ha avuto luogo nello Spazio 1929, è frutto di un viaggio fatto insieme a Paolo Cognetti; un viaggio verso montagne ancora selvagge, come interpreti l’invito del “continuare ad andare” quando si viaggia? Come ci si orienta in questo viaggio e come lo si mette su carta?

Ho sempre viaggiato molto; è una cosa che ho sempre avuto come desiderio. I miei viaggi diventano fonte di ispirazione per i miei lavori anche oggi la mia baita è il luogo in cui solitamente mi ritrovo. Paolo è stato un incontro molto bello; ci siamo trovati come anime affini, abbiamo molte cose in comune. Io l’ho conosciuto pochi anni fa, era estate quando venne a trovarmi nel mio atelier. In quell’occasione gli regalai un libro, cosa che mi piace fare perché con un libro si può raccontare molto di se stessi. Dopo un mese mi chiamò e mi disse: “Orizzonte perduto (di James Hilton) – il libro che gli regalai – mi è piaciuto molto; ma cosa ne dici se andiamo a trovare la nostra Shangri-La?”. Lui stava organizzando un viaggio in Nepal in una zona disabitata e difficile da raggiungere, per fare un lungo cammino a piedi di tantissimi chilometri. Decisi di partire, accogliere l’invito e così mi accodai al gruppo. Il viaggio è stato un viaggio dell’anima; spesso il cammino era solitario, ci si ritrovava spesso la sera per fare quattro chiacchiere, bere qualcosa di caldo, giocare a carte e conoscersi. Si dormiva in tenda, a volte faceva molto freddo, anche -20°. In un viaggio come questo nascono amicizie profonde.

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“A forza di essere vento”, opera della mostra avuta luogo presso lo Spazio 1929.

Come nasce la collaborazione con Vasco Brondi e Le luci della centrale elettrica?

È stata un’esperienza bellissima con Vasco, che ho conosciuto tramite Paolo Cognetti, il quale gli aveva parlato di me. Vasco rimase molto colpito dai miei lavori, quelli con Terzani, Primo Levi… mi contattò per farmi fare la copertina del suo disco. Ho dipinto questo uomo sotto un cielo stellato, che è un tema che amo molto; le stelle mi piacciono tanto. Da quel primo incontro ci siamo subito trovati, anche umanamente, che è una cosa per me molto importante. Ci siamo trovati in sintonia, tanto che poi ho fatto anche il video per Chakra; io non avevo mai fatto un video musicale e in più non lavoro mai al computer con la grafica. Si sono fidati di me e così ho realizzato un quadro molto grande, 2,5x2mt, in cui ho raccontato la storia della canzone.  Mi hanno filmato mentre dipingevo; a volte facevamo delle piccole pause. Su una dimensione come questa è difficile gestire l’acqua. Nel tempo ci siamo continuati a sentire ed è questa una cosa legata al bel rapporto che si è creato tra noi.

Il legame con l’opera di Miquel Barcelò come è nata?

Bello riparlare di lui. Ero molto affascinato dall’arte figurativa quando studiavo, come non ero molto legato alla body art o vision art, che invece in Accademia in molti prediligevano. Io ero molto colpito dalle opere di Francesco Clemente, un pittore della transavanguardia italiana, che ho conosciuto tramite un film, “Il paradiso perduto”, dove c’erano le sue opere, immagini di volti con occhi molto grandi; ancora oggi ho un debito d’onore nei confronti di Clemente. Erano anni quelli, ’80-’90, davvero incredibili. Comunque, iniziai a fare anch’io dei ritratti e continuando a lasciarmi ispirare da altri artisti, come Domenico Paladino o Julian Schnabel, sono poi arrivato al ribelle Miquel Barcelò. Ciò che più mi ha conquistato sono stati i suoi acquerelli, le sue carte del Mali; alcune figure che camminano, abitanti del Mali, figure che vagano, colori vibranti, grandi ombre; in quel periodo ho iniziato a dipingere, ispirato da Barcelò, e ho ritratto anch’io figure che camminano e vagano, i miei monaci tibetani.

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“Monaci” di Nicola magrin

Figure di omini e profili accennati; alberi, lupi, cani, corvi, montagne e neve, la natura che ruolo gioca per te?

Fondamentale! Nel mio percorso, quando facevo i miei primi quadri in Accademia era molto importante il ritratto ma dopo l’esperienza in America, dove ho vissuto tre mesi pe studiare – dal 2008 al 2009 – ho provato a dipingere uomini in cammino con ombre lunghe dietro di loro, come se l’ombra divenisse ancora più importante della persona ritratta. È stata un’esperienza bellissima, perché lì avevo portato con me la mia carta francese, i pigmenti naturali, i miei pennelli; mi sono ritrovato a improvvisare. Ho avuto modo di conoscere una mia nuova “verginità” artistica. Ad esempio, le realizzazioni delle copertine che ho fatto per diversi libri – come per le opere di Terzani, di Primo Levi o di Paolo Cognetti – è nata 7 anni fa quando mi contattò Einaudi; avevano ricevuto l’invito alla mia mostra del 2012, frutto del mio viaggio in Canada. I miei acquerelli, con gli omini, le ombre, le betulle e i lupi sono molto piaciuti.  Ho una baita a 1800mt. sulle Alpi, dove passo tre mesi l’anno con la mia cagnolona; per me la natura è una vera fonte d’ispirazione, una madre ispiratrice.

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“Baita” di Nicola Magrin

La montagna? In ultimo, qual è la tua wilderness?

Non ho una definizione; so che più cresco e più vado avanti nel mio percorso, più la natura e nello specifico la montagna diventa ciò che mi ispira e mi guida. Il mare, il lago, la campagna non mi regalano le stesse emozioni della montagna. Queste grandi e imponenti pareti di vette altissime mi fanno sentire protetto e non le vedo mai come dei muri; allora nei miei viaggi preferisco ascoltare il bosco, i suoi odori. Tutto questo poi voglio farlo apparire nella mia arte. Se tutto questo è la wilderness non lo so, però posso dirti che sono molto affascinato dal poter camminare nella natura. Quando sei in cima, vicino alle nuvole non puoi non sentire che c’è qualcosa; e questo qualcosa io lo sento. Come atto d’amore per la natura, io mi sono messo a fare il pittore; cerco di regalare qualcosa di poetico.

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