Intervista a Isabella Bignozzi, autrice del libro I segreti di Ippocrate edito con La Lepre Edizioni
Isabella Bignozzi nasce a Bologna ma per lavoro si trasferisce a Roma, dove tuttora vive e soprattutto scrive. Dagli studi scientifici, di professione infatti è odontoiatra, approda nel mondo della letteratura con il suo primo libro edito La Lepre Edizioni. La passione di Isabella per la ricerca, la storia antica e la letteratura l’ha portata a studiare la vita di Ippocrate, che racconta nel suo romanzo, Il segreto di Ippocrate. Nonostante la passione per le lettere classiche, Isabella è anche autrice di numerosi articoli e comunicazioni medico-scientifiche di rilevanza internazionale. Per conoscere di più qualcosa su di lei e sul suo libro, qui di seguito l’intervista.
Da studi medici alla letteratura; quando hai iniziato a scrivere e perché?
Ho sempre avuto l’istinto di scrivere. Fin da ragazza adoravo le lezioni di letteratura, il giorno del tema in classe era per me una festa; come molti adolescenti hanno l’abitudine di fare, tenevo dei diari in cui riversavo i miei pensieri, gli avvenimenti, le emozioni. Quando ho iniziato a esercitare la professione di odontoiatra questa propensione alla scrittura non è passata, anzi si è trasformata in qualcosa di ancora più intenso: il desiderio e l’entusiasmo di fare ricerca, di mettere per iscritto osservazioni e risultati delle terapie in articoli scientifici che potessero risultare interessanti e d’aiuto per i colleghi, e dare magari un piccolo contributo nell’avanzare delle conoscenze.
In questo mi ha aiutato una lunga permanenza in università, dove ho incontrato bravi maestri che mi hanno insegnato il metodo di raccolta dati, di elaborazione statistica degli stessi, le modalità con cui poter trarre ragionevoli e affidabili conclusioni. Oltre agli articoli destinati alla pubblicazione, non ho mai smesso di tenere dei diari clinici molto accurati, in cui annotavo ogni particolare di anamnesi, esame clinico, riscontri radiografici e altro dei miei pazienti, insieme alle terapie eseguite e all’andamento dei sintomi. Non volevo che andasse perduto nessun particolare prezioso che potesse aiutarmi a fare chiarezza, anche a distanza di giorni, sugli elementi dubbi o degni di ulteriore attenzione. Il passaggio alla scrittura creativa, alla narrazione, è avvenuto in modo semplice, naturale. Avevo da tempo l’hobby di scrivere racconti e poesie, per puro diletto. Quando ho incontrato nel web gli scritti di Ippocrate me ne sono innamorata, e ho sviluppato una strana familiarità con questo sapiente vissuto venticinque secoli prima di me. Nelle sue opere trovavo conforto, e affinità. Per questo d’un tratto mi è nato il desiderio di dargli voce.
Raccontaci il legame che intercorre tra te e Ippocrate
Ho svolto per lunghi anni una branca minore della professione medica. Com’è ben noto, Ippocrate è il padre della medicina occidentale, e sul suo “Giuramento” ogni medico fa una dichiarazione d’intenti a inizio carriera. Nei miei anni di professione, di soddisfazioni e difficoltà, di incontri più o meno positivi, di riflessioni sul mio lavoro, il nome di Ippocrate riecheggiava spesso nei miei pensieri, soprattutto quando vivevo qualche situazione di incertezza o di contrasto con ciò che mi circondava. Mi affidavo al pensiero di questo grande personaggio, le cui parole alte avevo conosciuto nel giuramento, lo vivevo come un padre spirituale. Ebbene, Ippocrate mi ha accompagnato come simbolo etico per molti anni, fino a quando la curiosità mi ha spinto a leggere per esteso alcuni dei suoi scritti; fortunatamente, le opere di arte medica di Ippocrate sono disponibili nel web (Émile Littré, Hippocrate. Oeuvres Completes, Jean-Baptiste Baillière, 1839). All’inizio non avevo alcuna intenzione di scrittura, mi guidava solo la curiosità. Ma poi, di giorno in giorno, ho iniziato a sentire Ippocrate vicino, come se lo conoscessi personalmente.
Va detto che i suoi trattati sono per la maggior parte di natura molto tecnica: parlano di febbri, di epidemie, di umori; di pozioni, unguenti, suffumigi; di antichi anestetici e manovre chirurgiche. Sono anche frammentari, spesso, per il gran numero di secoli che intercorrono tra noi e l’età greca classica durante la quale sono stati redatti. Ma sentivo in essi una postura di fondo, riflessiva, attenta, rispettosa: quella di uno studioso implacabile, determinato a combattere il male degli altri, fino a mettere in pericolo se stesso; quella di un medico tormentato dalla sua stessa integrità, una persona pura, che cercava il proprio posto nel mondo. Una mattina d’estate mi è apparsa l’immagine di un uomo di scienza anziano, curvo sullo scrittoio, desideroso di raccontare di sé; così è nato il prologo. Poi, nel corso di un anno circa, possiamo dire che lo stesso Ippocrate mi ha fatto compagnia “dettandomi” tutto il romanzo.
Ne “Il segreto di Ippocrate” – edito da La Lepre edizioni – racconti di questo personaggio storico ma anche in un certo senso attuale per la cultura occidentale; quale segreto nasconde?
Quello del titolo è un gioco, perché nasconde un tranello. C’è un segreto che appartiene alla trama, un presunto viaggio che Ippocrate intraprende in tarda età, e che non vorrà far sapere ai posteri. Esso è frutto della mia fantasia (benché nulla provi né vieti, considerata la vicinanza di tempi e luoghi), e mi è piaciuto molto immaginarlo, innanzitutto perché sfiora un evento storico grandioso che mi ha sempre affascinato (descritto nel dettaglio nell’Anabasi di Senofonte), ma anche perché mi ha dato occasione di descrivere un cambiamento di opinione, una svolta di pensiero, che mi premeva attribuire al mio personaggio. Un atteggiamento di fratellanza tra esseri umani che forse non era la norma all’epoca, ma che secondo me rientra pienamente nella sua indole, per come io l’ho conosciuto dalle sue parole. Però il vero segreto di Ippocrate è un po’ più nascosto, è altro; ha a che vedere con la disposizione d’animo che – secondo il mio punto di vista – il medico dovrebbe avere verso il paziente. È qualcosa che Ippocrate scopre, al cospetto della madre, dopo una profonda crisi esistenziale. Se lui, il grande Ippocrate, condividesse o meno con me questo sentire, è senz’altro difficile dirlo, ma certamente leggendo i suoi scritti ne ho avuto l’impressione.
Inserendoci in un discorso europeo degli ultimi secoli, a tuo avviso è così distante il campo umanistico da quello scientifico?
Nell’antichità gli ambiti erano molto più vicini tra loro. Basti pensare che ai tempi di Ippocrate, ma così è stato per lunghi secoli, fino a tutto il medioevo, lo stesso studioso poteva essere medico, filosofo e poeta allo stesso tempo. Leonardo da Vinci era inventore, ingegnere, studioso di anatomia ma anche scrittore e pittore. Poi è accaduto qualcosa, in particolare a partire dall’illuminismo e a seguire con la rivoluzione industriale e l’avvento della tecnologia, che ci ha abituati a pensare che la scienza e le materie umanistiche siano universi lontani, e che presuppongano atteggiamenti di pensiero opposti, tra loro inconciliabili. Il metodo scientifico proposto per primo da Galileo nel sedicesimo secolo introdusse la sperimentazione e il risultato ripetibile come unici elementi adatti a convalidare o confutare l’ipotesi dello scienziato, senza che nessuna sua opinione o pregiudizio potessero andarne a contaminare i risultati. E questo è senz’altro giusto e desiderabile, ma non esclude che lo scienziato possa far tesoro delle sue conoscenze e spingersi oltre, in altro ambito.
In tempi più recenti vi sono state numerose personalità della scienza che hanno mostrato, oltre a una evidente padronanza della materia in cui eccellevano, notevoli capacità di speculazione filosofica. Basti pensare all’impatto della teoria della relatività di Albert Einstein sul concetto di spazio e tempo, agli studi di Stephen Hawking riguardo la cosmologia quantistica e le possibili origini dell’universo. Lo stesso Charles Darwin, partendo da osservazioni naturalistiche, arrivò a concepire una teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale che rivoluzionò la visione creazionistica diffusa fino ad allora. Tuttavia, a pochi anni dalla morte, in alcune lettere ancora rifletteva sulla «causa prima dotata di intelligenza» che potesse essere all’origine di tutto, e non accettava che il cosmo con le sue creature fossero ascrivibili al «mero caso» o alla «cieca necessità». Ma di come scienza e attitudine umanistica si compenetrino si potrebbero fare ancora molti esempi: ogni musicista è prima di tutto un grande matematico; ogni poeta frequenta quotidianamente lo stesso mistero dell’astronomo (l’infinito, l’eterno) o del medico (il miracolo della vita).
Non vi può essere distanza tra ciò che è studio dell’animale-uomo e dell’universo (la scienza) e ciò che è espressione emotiva e intellettuale dell’essere umano stesso. Studiando medicina ci si rende conto ancor di più come le emozioni siano mediate da impulsi biochimici, come gli stati d’animo risentano fortemente delle condizioni di salute e dell’ambiente naturale e sociale che ci circonda. L’uomo è una creatura autocosciente, ma che non sa poi molto di se stessa. Comprendere ciò che ha attorno, dal più vicino habitat fino alle più lontane costellazioni, il funzionamento del proprio corpo – e di quello delle altre creature viventi – è parte integrante del suo desiderio di inseguire un’identità, di identificare il significato della propria presenza e vita qui sulla Terra. La meditazione dell’uomo su se stesso, gli interrogativi, la ricerca di valore non sono un grido muto, ma trovano da sempre espressione nella letteratura, nella musica, nell’arte, nella poesia. A volte è un grido doloroso, irrisolto, distruttivo anche. Ma necessario, fin dai tempi più remoti.
La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre
– cit. Albert Einstein –
La scienza dà soluzioni affascinanti a tanti interrogativi, ma ne apre molti altri, e non risponde a quello principale, che rimane appannaggio dei filosofi, dei religiosi, dei poeti. Personalmente ritengo che da un migliore approfondimento delle conoscenze, siano esse biologiche, mediche, astronomiche, o di qualunque altra matrice, il mistero vibri più forte, e possa nascere un desiderio ancora più profondo di ricerca di senso, e di espressione dell’animo: degli sgomenti, delle incertezze, della meraviglie che lo abitano. «Vorrei tanto accendere ancora una volta il lume sulla scrivania, sforzarmi di mettere a fuoco il segno dell’inchiostro sulla pagina. Ma è sempre più difficile, i miei occhi sono stanchi. In questo breve tempo che ancora mi è dato vivere, avrei voluto scrivere ancora; e forse non più di medicamenti o di malanni, ma piuttosto di quello che rammento della mia vita, di quello che alberga in questo mio vecchio cuore». È così che Ippocrate si rivolge al suo discepolo, all’inizio del mio romanzo. Quello che volevo esprimere è esattamente questo. Lo scienziato, dopo una vita di indagini e scoperte, di nuove conoscenze e conquiste, sente comunque il bisogno – pur descrivendo forse un arco più lungo nel suo cammino – di ritornare a farsi filosofo, poeta, letterato. Di tornare alla meditazione sull’uomo.
L’età classica è ricca di contraddizioni; gli anni di Ippocrate sono sotto la pace di Pericle ma anche nel mezzo della guerra del Peloponneso; quale aneddoto storico ti ha colpito maggiormente?
La guerra del Peloponneso (la seconda in particolare, quella che si intende in genere) viene convenzionalmente considerata il termine del secolo d’oro della civiltà ellenica. Atene, che aveva rappresentato per lunghi anni il centro pulsante della cultura occidentale, non recuperò mai più pienamente la propria opulenza ed egemonia culturale. Tuttavia, Ippocrate da ragazzo ebbe modo di vedere la polis nel suo massimo splendore: facile immaginarne l’atmosfera, i mercati, i templi, i teatri, l’agorà; il desiderio di partecipazione politica dei cittadini, di disquisizione filosofica, di condivisione delle conoscenze. La bellezza doveva essere ovunque, l’architettura e le arti animavano tutta la città: il Partenone era in costruzione sull’acropoli, e al Pireo campeggiavano le Lunghe Mura. Proprio allora vi fu un lungo periodo in cui si riuscì a mantenere la pace: Atene e Sparta avevano stipulato un trattato che auspicava trent’anni di non belligeranza tra la Lega Delio-Attica e la Lega Peloponnesiaca.
Insieme alla pace vi era cultura, indagine, speculazione. Anche nelle zone più periferiche della civiltà ellenica vi era grande fermento culturale. Penso alle scuole filosofiche della Magna Grecia, ad esempio. Gli studiosi di quest’epoca osservavano la natura e il mondo animale, facevano congetture sull’essenza dell’universo, ma anche sulle malattie degli uomini. Alcmeone e Democede di Crotone, Empedocle e Acrone di Agrigento furono tra questi. Senza dimenticare Democrito, Parmenide di Elea, Zenone; la scuola Pitagorica tutta. Gli studiosi di Crotone e Agrigento dissezionavano gli animali, mentre i filosofi inserivano nelle nozioni mediche le loro speculazioni sugli elementi primordiali dell’universo: l’acqua, l’aria, il fuoco e la terra servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo.
È in questa temperie che si sviluppa la medicina di Ippocrate. Le vecchie teorie cosmologiche iniziavano a dare stimolo allo studio empirico dei fatti, a un atteggiamento che potremmo definire proto-scientifico. È vero che Ippocrate ha vissuto la sua giovinezza agli antipodi di questa parte del mondo greco, e ha risentito soprattutto degli stimoli culturali della propria regione geografica, quella orientale: fu influenzato dalla scuola medica di Cnido, ad esempio, dove vi era un Asklepieion di grande tradizione, e queste furono le sue conoscenze iniziali, se pur reinterpretate e integrate in relazione alle pratiche della scuola di Kos, cui lui propriamente apparteneva. Se la scuola di Cnido era concentrata sui sintomi, dando a ciascuno un grado diverso d’importanza, la scuola di Kos li esaminava in modo dinamico, correlandoli al progresso della malattia.
D’altro canto, in un secondo momento della sua vita, Ippocrate iniziò a viaggiare. Dalle fonti è molto chiaro che fu un medico cosmopolita, se così si può dire, per i suoi tempi. Le basi della sua scienza erano profondamente correlate alla medicina egizia e medio-orientale, da cui ha traslato molte conoscenze; è ben noto che in età matura fosse divenuto un viaggiatore instancabile, e che fosse spesso ad Atene, in Magna Grecia, in Tracia, in Egitto. Viaggiò, curò gli infermi, insegnò e apprese in tutte le terre conosciute del bacino del mediterraneo; visitò regioni allora inospitali, come la Scizia, la Libia, le regioni interne all’Asia Minore. Dunque la sua cultura medico-scientifica era variegata, e frutto di numerosi contatti avuti anche ai margini o al di fuori del mondo greco.
Gli episodi storici di quel periodo sono molteplici, in quanto esso fu denso di avvenimenti e ricco di storiografi accurati, di cui conserviamo le cronache. Basti pensare a Erodoto e, meno fantasiosi e più essenziali, Tucidide e Senofonte. Ma c’è una vicenda della vita di Ippocrate, presente in diversa forma in numerose fonti, che mi ha colpito particolarmente, a tal punto da riportarla nel romanzo, e da farne uno degli eventi chiave della sua vita: l’incendio del tempio di Asclepio e il furto delle tavole. Il fatto è ampiamente riportato, ma il suo significato è controverso: molte persone videro Ippocrate fuggire dal Tempio di Asclepio, portando via con sé alcune tavolette di argilla, poco prima che vi scoppiasse un incendio. Il racconto fu subito verisimile, in quanto era uso a quel tempo conservare la descrizione dei singoli casi clinici nei templi di Asclepio, come già avevano fatto in passato i medici della scuola di Cnido. Il maestro venne accusato di essere stato il responsabile dell’incendio, che avrebbe appiccato per celare le fonti delle proprie conoscenze mediche e/o di quelle dei rivali della scuola cnidia. Al contrario coloro i quali lo stimavano finirono con l’acclamare in lui l’incarnazione del dio e lodarono il suo intervento, teso a salvare le sacre tavole.
Sembra che una versione del racconto sia stata tratta da quanto riportato nell’opera enciclopedica varroniana delle Disciplinae, alla cui sistemazione delle arti liberali si sarebbe rifatta la cultura medievale. Composta in 9 Libri da Marco Terenzio Varrone (116 a.C. – 27 a.C.) nell’ultimo decennio della sua vita, l’opera è andata oramai definitivamente perduta. In ogni caso, secondo Varrone Ippocrate avrebbe dato fuoco alle tavole del tempio di Kos dopo averle copiate. Ma abbiamo anche altre versioni dell’aneddoto, tra cui sono degne di nota quella di Andrea Erofileo o di Caristo (in latino Andrĕas), vissuto nel III sec. a.C., il quale nella sua De artis medicae origine riportò che Ippocrate aveva dato fuoco al Tempio di Asclepio dopo aver copiato i migliori frammenti di medicina che conteneva; quella del grammatico bizantino Giovanni Tzetze (1110 d.C. – 1180 d.C.), di molto posteriore, che sosteneva semplicemente che Ippocrate aveva distrutto col fuoco le antiche tavole dei medici conservate presso la Biblioteca di Kos, facendo derivare tale versione dalla Vita di Sorano; infine, quella riportata da Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), il quale, senza citare Ippocrate né alcuna Biblioteca, scrisse dell’incendio e della distruzione di alcune tavolette. Nel mio romanzo questo episodio viene riportato con un significato particolare, e mi piace pensare che sia andata così.
Essere un greco di quegli anni non è propriamente auspicabile, a meno che non si provenga, come Ippocrate, da una famiglia aristocratica; cosa è stato per lui significativo oltre al 429 a. C., anno che lo ha consacrato alla fama?
Certamente la vita non era facile per nessuno a quei tempi. Ma Ippocrate era un privilegiato. Oltre al suo successo nel debellare la peste di Atene del 429 a.C., ritengo che, ancor prima, per Ippocrate sia stato significativo il fatto di nascere da una dinastia – gli Asclepiadi – non solo di estrazione elevata da un punto di vista sociale, ma anche con una nutrita presenza di medici e guaritori esperti, la cui discendenza risale alla notte dei tempi. Alcune genealogie della famiglia di Ippocrate risalgono all’indietro fino al Podalirio della guerra di Troia, ad Asclepio ed Ercole, ma qui si entra evidentemente nella leggenda. Un altro elemento determinante è il luogo che lo ha visto nascere: una piccola isola ai margini orientali del mondo greco, nei pressi della costa dell’Asia minore. Un territorio che, per quanto eternamente concupito dai persiani, risentiva in modo parziale, ovattato dei rivolgimenti politici di Atene e del Peloponneso.
In generale, per quanto riguarda la vita di Ippocrate, va detto che gli elementi a nostra disposizione sono pochi e frammentari: abbiamo tre biografie: una porta il nome di Sorano di Efeso; l’altra si trova nella Suda, (un’enciclopedia storica del X secolo d.C. scritta in greco bizantino e riguardante il mondo antico del bacino del mediterraneo); la terza è di Giovanni Tzetzes, un filologo bizantino vissuto nel XII secolo d.C. Questi storici pongono le loro fonti in autori ancora precedenti: Eratostene, Ferecide, Apollodoro, Ario di Tarso, Sorano di Kos, Istomaco e Andreas. È ricorrente nelle fonti il fatto che Ippocrate nacque nel primo anno della ottantesima olimpiade (460 a.C.), e fosse figlio di Eraclide e Fenarete, come viene riportato nel libro. Ma poi il personaggio per molti aspetti sfuma, e, per quello che non attiene strettamente ai suoi testi scientifici, è avvolto nelle nebbie del mito. Della sua giovinezza non si sa nulla, se non che era originario della piccola isola di Kos.
Per questo ho potuto giocare d’immaginazione, raccontandone l’infanzia, la sua amicizia con Timàs, con il fattore Agapios e la moglie Glykeria, esperta di botanica. È invece ampiamente documentato che Ippocrate ebbe come figli Tessalo, Dracone e una bambina il cui nome nei testi persiani richiama il nome Melissa, che sposò Polibo, suo più grande discepolo. È noto anche che Ippocrate morì a Larissa, in Tessaglia, in tarda età. Gli storiografi citati raccontano che egli ebbe come primo maestro suo padre Eraclide, poi, tra gli altri, Erodico di Selimbria e Gorgia di Lentini. Tutte queste cose dunque sono da considerare verisimili. Nel libro Ippocrate interagisce anche con altri sapienti: il loro incontro è frutto della mia fantasia. Nonostante questo, è evidente che tali studiosi o filosofi ebbero su di lui qualche influsso o rapporto di scambio, anche se non sappiamo se fu attraverso incontri, viaggi, o la lettura dei loro trattati; resta il fatto che echi delle loro teorie si ritrovano negli scritti di Ippocrate. È comunque importante sapere che esiste addirittura una questione Ippocratica simile a quella Omerica, secondo la quale non sarebbe mai esistito un vero e proprio Ippocrate, ma piuttosto molti, o nessuno. Nel senso che il Corpus Hippocraticum è chiaramente un crogiolo di volumi di epoche diverse, probabilmente tramandati oralmente per secoli, che hanno trovato poi vari e innumerevoli cultori e redattori, anche in epoca ellenistica o addirittura romana imperiale. Ho cercato comunque di considerare i testi più certamente suoi (ad esempio Le epidemie, il Prognostico, Sul regime delle malattie acute; Sulle Arie, le Acque e i Luoghi), e di attenermi il più possibile a ciò di cui gli storici hanno fatto menzione.
Quali furono i personaggi più illustri che Ippocrate incontrò nella sua vita?
Sicuramente Diogene di Apollonia, Icco di Taranto, Erodico di Selimbria, Gorgia di Lentini. Questi sono gli studiosi con cui l’incontro è documentato dai testi storici. Ma nelle sue opere si sente l’eco di numerosi scienziati e filosofi a lui precedenti o contemporanei, per nozioni o atteggiamento o spirito speculativo; per questo mi sono permessa di immaginare l’incontro ad esempio con Empedocle, con Alcmeone e Democede di Crotone, con Acrone ed Empedocle di Agrigento, con lo stesso Socrate, che era all’incirca suo coetaneo. Fargli incontrare anche Zenone e Parmenide di Elea al simposio di Atene è stato solo un (plausibile ma giocoso) divertimento. Con gli altri sapienti citati invece vi erano punti d’incontro e di sintonia: se non li ha davvero conosciuti o incontrati, di certo ha condiviso con loro molti principi e intuizioni.
Il Corpus Hippocraticum è un’opera costituita da 70 scritti, di cui non tutti risultano attribuiti a Ippocrate; quali passi di medicina, per te che hai conseguito studi medici, sono più interessanti in ottica di una lettura attuale?
Le opere di arte medica di Ippocrate sono molto numerose, e descrivono molte malattie con un’accuratezza sorprendente. Molti dei suoi precetti sono validi ancora oggi. Questi testi sono tra le nostre mani per miracolo: tramandati oralmente per secoli, sono poi stati messi per iscritto da amatori e discepoli, modificati, tradotti e integrati da studiosi di epoca ellenistica o tardo imperiale, trascritti da amanuensi di copia in copia attraverso i secoli bui del medioevo, usati come riferimento anche da medici rinascimentali e secenteschi per il valore teorico-pratico di molte tecniche e nozioni. È chiaro che la medicina nel corso dei secoli ha fatto dei progressi incredibili, dovuti al rigore e al sacrificio di innumerevoli clinici e studiosi, che hanno fatto della loro vita una missione. Però possiamo dire che Ippocrate fu forse il primo che prese le distanze dalla superstizione, che non sentì più il bisogno di evocare l’aiuto degli dei per guarire le persone, ma che ricorse piuttosto all’arte della raccolta dati e del ragionamento. In particolare, fu assolutamente innovativa la sua abitudine di tenere quello che ora definiremmo un diario clinico dove appuntava anamnesi, segni e sintomi alla prima visita, terapie somministrate, osservazioni nei giorni delle successive visite, che svolgeva con grande sollecitudine.
Inoltre tutta la parte di ortopedia, riguardo la riduzione delle fratture o la risoluzione delle lussazioni articolari – cui nel libro è dato spazio in alcuni episodi – è estremamente attuale. Non nelle tecniche chiaramente, che hanno subito attraverso i secoli un’esponenziale evoluzione, ma piuttosto nell’approccio e nei principi di cura. Anche quanto a infusi e decotti, non dimentichiamo che alcuni dei principi attivi della medicina ufficiale di oggi altro non sono che elaborazioni di estratti vegetali; alcuni di questi sono stati scoperti nell’antichità, e tramandati attraverso i secoli mediante ricette galeniche, che sono stati poi testate, ottimizzate e studiate con metodo scientifico fino a confutarne o dimostrarne definitivamente la validità. Ad esempio Ippocrate ci parla di una polvere amara estratta dalla corteccia del salice, utile per alleviare il dolore e abbassare la febbre; altro non è che l’acido acetilsalicilico (nome commerciale: Aspirina©). Ippocrate fu inoltre allievo di Erodico di Selimbria, quello che oggi definiremmo un preparatore atletico, e di Icco di Taranto, un noto ginnasiarca e terapeuta che basava sul regime dietetico e sull’attività fisica i principi di ogni buona prevenzione. Ippocrate assimilò profondamente i loro insegnamenti, e ne fece una parte importante delle sue strategie terapeutiche. Anche questo è molto vicino al sentire della medicina moderna.
Fenarete, madre di Ippocrate; com’è la sua vita?
Di Fenarete si sa poco o nulla, se non il nome. L’ho delineata con la mia fantasia, cercando di farne una donna aperta di vedute, che vive la propria estrazione aristocratica con disinvoltura e generosità; una persona comprensiva, che sa stare accanto a grandi uomini con equilibrio e dissimulata grandezza, in un mondo dove le donne erano confinate nel gineceo, celate al mondo oppure trattate come trofei di bellezza. La mia Fenarete è una donna che comprende molto di più di quello che dice: ascolta con una intensità intelligente e affettuosa, è per Ippocrate una fonte continua di luminosa e pacata fermezza. Un personaggio che, nel mio sentire e al netto delle condizioni di vita del tempo, incarna l’emblema stesso della dignità femminile. Ma nel mio romanzo non è lei l’unica donna che avrà un ruolo chiave nella completa realizzazione del destino di Ippocrate.