La persistenza del neopatrimonialismo nell’epoca della democratizzazione
Quando ci si riferisce alla terza ondata (tutt’ora in corso), caratterizzata dalla cosiddetta “primavera araba ”, a livello mondiale è possibile constatare la presenza di regimi politici che si caratterizzano per tre diverse condizioni:
- regimi politici stabili democraticamente come ad esempio UE e USA;
- regimi neopatrimoniali stabili che riescono a resistere anche ad insurrezioni violente, si pensi alla Siria di Assad;
- regimi politici in fase di transizione dal neopatrimonialismo alla democrazia messa in moto da spinte interne con esiti non sempre stabili e spesso soggetti a riflusso con ripiegamento verso forme più miti.
Vi è da sottolineare, tuttavia, che il neopatrimonialismo persiste e vi sono fattori che lo mantengono in vita e altri che lo indeboliscono. Uno studio molto interessante riguardo a questo problema è stato compiuto negli anni novanta da Richard Sneyder che prende in esame due principi:
- I regimi patrimoniali possono cadere in due modi: rivoluzione militare o transizione democratica. Esiti di rivoluzione sono stati i cambiamenti di regime a Cuba, in Iran e nel Nicaragua, mentre le Filippine e la Romania hanno cambiato regime con processo democratico o con colpo militare.
- Gli esiti diversi dipendono dalla combinazione di fattori strutturali (legami patrimoniali con lo stato e la società, dipendenza del regime da supporto esterno) e degli agenti operanti nel contesto sociale. Ad esempio, se il corpo militare è dotato di autonomia dal potere politico, come nelle Filippine, non vi è bisogno della rivoluzione per rovesciare il regime, perché basta il sostegno dato all’esercito ad un moto di opposizione popolare a costringere il leader a lasciare il potere senza sconvolgere lo stato. Al contrario se il potere invade tutti gli strati della società, solo una coalizione rivoluzionaria riesce a rovesciarlo.
A giustificazione di questa tesi Sneyder ha preso in considerazione politiche di alcuni paesi come Haiti sotto Duvalier e Nicaragua sotto Somoza Garcia, nei quali il potere non si identificava con la sola persona del sovrano, ma era condiviso da quanti erano impegnati nell’amministrazione della società. Tali regimi possono cadere solo attraverso una rivoluzione multi classe, cioè che coinvolge l’intera società, come è successo a Cuba. Alla tesi di Sneyder si ricollega Jason Browlee, che sposta però l’attenzione alle condizioni che favoriscono il mantenimento del potere con un particolare riferimento alla Siria di Assad, alla Libia di Gheddafi, all’ Iraq di Saddam Hussein. Infatti Saddam Hussein e Gheddafi non sono stati rimossi da rivoluzioni democratiche nei loro paesi, ma da interventi militari esterni decisi da paesi mossi da ragioni economiche e il sistema politico nell’ Iraq e in Libia non è propriamente democratico. Inoltre, pur sotto l’assalto dell’Isis, sopravvive il regime assolutistico della Siria di Assad, presa da Browlee come esempio di neopatrimonialismo stabile, assieme all’Iraq di Saddam Hussein e la Libia di Gheddafi.
La Siria di Assad
La Siria è l’unico dei paesi, che Jason Browlee ha preso ad esempio di stabile neopatrimonialismo, che resta tutt’ora immodificato. Il regime autoritario introdotto nel 1970 è tuttora in vita , sia pure in una condizione caratterizzata da una aspra guerra civile. Hafez al-Assad, eletto Presidente della Repubblica dopo circa 15 anni di instabilità politica e 13 colpi di stato, instaurò nella Siria un regime dittatoriale, che è divenuto in breve il principale punto di riferimento del radicalismo arabo e sostenitore di gruppi terroristi violentemente anti-israeliani ed anti-americani. Nell’intento di impedire il ripetersi dei colpi di stato attribuì le principali cariche militari e civili a componenti della sua numerosa famiglia e puntò anche sull’alleanza degli Alawi, che costituivano un numeroso gruppo islamico sparso in tutta la Siria. Assad, come altri leaders neopatrimoniali, pur tenendo concentrati nelle sue mani tutti gli strumenti del potere, celava il suo autoritarismo, mantenendo in vita istituzioni apparentemente democratiche. Nel frattempo però nel governare il paese Assad si serviva della sua numerosa famiglia: un suo fratello, Rifa’t era a capo delle forze armate. La maggior parte dei dirigenti capo dei vari ministeri provenivano dalla sua setta religiosa, gli Alawis. In Siria queste operazioni provocarono un largo dissenso, che Assad represse brutalmente.
Nel corso degli anni ’80 la guerra Iran-Iraq ebbe importanti riflessi sulla Siria, che prese posizione a favore dell’Iran. Ciò contribuì non poco a isolarla nel mondo arabo, dove prevalente era la preoccupazione per il rafforzamento della rivoluzione islamica iraniana. I Fratelli Musulmani cercarono perciò di assassinare al-Assad il 25 giugno 1980, prendendo a pretesto l’eliminazione dalla Costituzione dell’articolo secondo il quale l’Islam era la “religione di Stato” e che il Presidente della Repubblica doveva essere musulmano. Assad rispose inviando le sue truppe migliori, al comando di suo fratello Rifāʿ contro la roccaforte sunnita di Ḥamāh. L’esercito siriano compì un crudele massacro dei simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, si ritiene che furono uccise tra le 20000 e le 30000persone. La spietata repressione di Hamàh ha scoraggiato ulteriori tentativi di contestazione del regime instaurato La Siria non ha più manifestato forme violente di opposizione al regime, fino all’inizio della Guerra civile siriana del 2011 che è tuttora in corso.
Negli anni successivi al massacro di Hamah, al-Assad continuò a governare autoritariamente il paese fino al 2000 quando nel mese di giugno morì e nel governo della Siria gli succedette il figlio ed erede designato, Bashār al-Assad, che ha mantenuto le linee guida del regime di suo padre. Oggi in Siria il governo civile e l’economia nazionale sono ampiamente guidate dai sunniti. Il regime di Assad è attento a permettere a tutte le sette religiose di condividere il potere e l’influenza nel governo. Assad mantiene il controllo del paese fino al 2011, quando nel contesto della cosiddetta “primavera araba”la Siria è sconvolta da manifestazioni popolari, che chiedono libertà e uguali diritti dei cittadini. Il rifiuto del governo siriano di adempiere alle richieste, porta i manifestanti a chiedere la caduta del regime. Le forze governative rispondono alle manifestazioni con una violenta repressione, in particolare servendosi dell’aiuto delle milizie degli Shabiha. Per difendersi dalla repressione, vari membri dell’opposizione siriana si riuniscono nell’ esercito siriano libero, composto da molti disertori dell’esercito regolare. L’esercito siriano libero, dopo mesi di combattimenti conquista varie zone della Siria, di cui buona parte nella città di Aleppo.
L’Iraq sotto Saddam Hussein
La tragica fine di Saddam Hussein, giustiziato in esecuzione di una sentenza di condanna a morte pronunziata da un tribunale speciale iracheno per crimini contro l’umanità, sembra smentire le affermazioni di Jameson Browlee sulla stabilità del regime di Hussein, ma in realtà indirettamente le conferma, dato che il regime neopatrimoniale iracheno fu travolto non da un processo interno, ma intervento armato esterno. Nei ventiquattro anni della sua permanenza al potere, infatti, Saddam Hussein non incontrò notevoli difficoltà nel fermare i tentativi di rivoluzione, avendo posto in essere tutti gli interventi che contribuiscono a conferire stabilità ad un regime patrimoniale. Saddam inizia il percorso, che lo porta al potere tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni Settanta, costruendosi una solida reputazione di uomo politico efficiente e progressista, con l’attività svolta come presidente del Consiglio del Comando Rivoluzionario. Hussein nello spazio di pochi mesi porta a compimento il processo di nazionalizzazione delle compagnie petrolifere occidentali, che hanno il monopolio sul petrolio iracheno e utilizza una parte consistente dei profitti petroliferi per la modernizzazione dell’economia irachena e in programmi di stato sociale:
- affretta la costruzione di industrie e ne segue lo sviluppo,
- supervisiona la modernizzazione dell’agricoltura,
- promuove lo sviluppo dei servizi pubblici e dei trasporti,
- introduce la sanità pubblica gratuita, avvia e perfeziona una campagna nazionale per lo sradicamento dell’analfabetismo e a favore dell’istruzione obbligatoria gratuita. Contemporaneamente si attiva anche per il raggiungimento della stabilità del paese,in cui si manifestano profonde spaccature sociali, etniche, religiose ed economiche: sunniti contro sciiti, arabi contro curdi, capi tribù contro borghesia urbana, nomadi contro contadini. In tali operazioni Hussein non esita ad attivare metodi repressivi, avvalendosi del contributo di numerosi giovani provenienti dalla sua tribù, che sono a lui fedelissimi dovendogli tutto. In seno a questa organizzazione il ricorso alla violenza, anche sommaria, era comune. Il Partito Baʿth a cui Hussein era legato aveva un programma progressista e socialista, che puntava alla modernizzazione e alla secolarizzazione dell’Iraq. Saddam Hussein si attiene alla linea del suo partito e persegue una serie di riforme modernizzatrici, tra cui la concessione alle donne di diritti pari a quelli degli uomini. L’Iraq, come altri Paesi centroasiatici era instabile a causa dei conflitti etnici e religiosi. Saddam Hussein non esita ad adottare dure misure repressive, autorizzando i suoi corpi paramilitari a far ricorso a qualsiasi strumento, compresi gli assassinii e le torture. Al termine della sua dittatura si stima che il suo regime si sia reso responsabile dell’uccisione di almeno 250.000 iracheni.
Inoltre nel tentativo di imporre la leadership irachena nel Medio Oriente entra in conflitto militare con l’Iran da poco passato sotto il potere dell’ayatollah Khomeyni. Il facile e irresponsabile ricorso alle aggressioni militari porta il regime di Hussein alla definitiva sconfitta. A provocarla è la cosiddetta Guerra del Golfo. Con il Paese ancora alle prese con le dure conseguenze del conflitto con l’Iran e con gli ingenti debiti contratti soprattutto col Kuwait, Saddam Hussein nell’agosto 1990 invade il Kuwait, che non avendo forze sufficienti è costretto ad arrendersi. Saddam sostiene che il piccolo emirato gli appartenga e che ha acquisito la indipendenza soltanto attraverso le manovre imperialistiche della Gran Bretagna. Le Nazioni Unite condannano l’aggressione ed intimano a Saddam di ritirare le truppe irachene dal Kuwait entro il 15 gennaio e, scaduto l’ultimatum, gli Stati membri sarebbero stati autorizzati ad utilizzare ogni mezzo possibile per restituire sovranità. Nel frattempo il presidente degli Stati Uniti d’America George Bush fu autorizzato dal Congresso a utilizzare la forza militare contro l’Iraq. Hussein risponde lanciando missili balistici Scud-B contro città israeliane e saudite. Dopo oltre un mese di bombardamenti, l’operazione militare detta Desert Storm passa alla fase terrestre. Le truppe della coalizione sbaragliano l’esercito iracheno in meno di quattro giorni e il presidente statunitense George W. Bush annunciò che il Kuwait era stato liberato. Nel 2002 un referendum sulla riconferma di Saddam Hussein come leader dello Stato iracheno segna il 100% di voti favorevoli. D’altra parte, Hussein era l’unico candidato e il voto era obbligatorio.
A determinare la sua fine è l’evento della seconda guerra del Golfo, condotta congiuntamente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, che accusano l’Iraq di non aver adempiuto agli obblighi imposti dalla comunità internazionale. Il 9 aprile 2003, dopo soli venti giorni dal suo inizio, Baghdad cade costringendo Hussein e i suoi più stretti collaboratori alla fuga. Saddam è catturato da soldati statunitensi in un villaggio in un piccolo bunker scavato sottoterra. E’ sottoposto a processo nel 2005 da un tribunale iracheno assieme ad altri sette imputati, fra cui il fratellastro, tutti ex gerarchi del suo regime, per crimini contro l’umanità in relazione alla strage di 148 sciiti uccisi a Dujai del 1982, Saddam è condannato a morte per impiccagione. La principale eredità del conflitto iracheno e della caduta di Saddam Hussein è da ravvisare nel rafforzamento dell’islamismo e nella rapida escalation dell’ISIS, che proprio nell’Iraq ha trovato forti consensi e militanti, che in vaste zone del Paese hanno messo da parte l’esercito iracheno sino a proclamare nel corso del 2014 la nascita del nuovo Califfato, lo Stato Islamico della Siria.
La Libia sotto il regime di Gheddafi
Il regime imposto da Gheddafi alla Libia, dopo la deposizione del re Idris operata nel 1969, è durato, come quello di Assad nella Siria e di Hussein nell’Iraq per oltre 40 anni. Posto a capo del governo provvisorio dopo la deposizione del re avviò un programma di nazionalizzazione delle grandi imprese e dei possedimenti stranieri, in particolare italiani e inoltre chiuse le basi militari statunitensi e britanniche presenti nel territorio libico. Nel 1970 gli italo- libici furono costretti a scappare. In linea, nella politica interna, con la politica adottata nell’Iraq da Saddam Hussein, Gheddafi persegue soprattutto l’obiettivo di modernizzare il Paese, realizzando in ogni campo le necessarie infrastrutture, tra cui il “grande fiume artificiale”, finalizzato allo sfruttamento dell’acqua contenuta in laghi sotterranei per fornire acqua potabile a una popolazione in continua crescita. Gheddafi esplicita il suo programma politico nel “Libro verde” pubblicato nel 1976. Nel mese di marzo dell’anno successivo proclama la Giamahiria (letteralmente “repubblica delle masse”). Nello stesso anno, grazie ai maggiori introiti derivanti dal petrolio, può dotare il suo Stato di nuove strade, di ospedali, acquedotti e di industrie. Sotto la sua guida ogni forma di opposizione è repressa brutalmente attraverso tortura e morte.
In politica estera, Gheddafi appoggia i movimenti di liberazione nazionale, primo fra tutti l’OLP di Yasser Arafat nella sua lotta contro Israele. Il rigido sistema repressivo adottato nei confronti delle opposizioni suscita critiche e condanne da parte di altri paesi, la Libia viene definita “Stato canaglia” e Gheddafi viene progressivamente emarginato dalla NATO Nel 1986 in reazione ad un attentato ad una discoteca di Berlino Tripoli è bombardata dai caccia americani e la Libia per reazione rispose con un attacco missilistico contro Lampedusa. Nel 1988, Gheddafi è accusato di aver organizzato l’attentato di Lockerbie, che causa la morte di 270 persone. L’ONU impone un embargo alla Libia, durato fino alla consegna degli imputati e all’accettazione della responsabilità civile verso le vittime. Il 15 maggio 2006 gli Stati Uniti riallacciano le relazioni diplomatiche interrotte 25 anni prima, togliendo la Libia dalla lista degli “stati canaglia”. Il regime creato da Gheddafi entra in crisi nel 2011, scoppiano sommosse popolari che si trasformano in conflitto armato tra le forze fedeli a Gheddafi e gli insorti.
Dopo qualche settimana, su decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite viene attivato un intervento militare internazionale. L’intervento si concretizza nel bombardamento delle truppe governative, di infrastrutture civili e militari e nell’appoggio alle truppe antigovernative. All’intervento hanno preso parte gli Stati appartenenti alla NATO tra cui Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Italia e Canada e alcuni paesi arabi. Qatar e Emirati Arabi Uniti. Molti Stati hanno riconosciuto il Consiglio nazionale di transizione come unico rappresentante del popolo libico. Nell’ottobre del 2011 cade l’ultima città rimasta fedele a Gheddafi, che viene catturato e ucciso nella sua città natale di Sirte. La sua morte e uccisione segna di fatto la caduta del suo regime e la fine della guerra. Dopo la caduta di Gheddafi la Libia è divenuta ostaggio degli scontri fra le numerose milizie tribali, che formavano la coalizione dei ribelli. Il Paese ora vede la parallela presenza di due governi e di due parlamenti (di cui uno riconosciuto dalla comunità internazionale). Una tale situazione sta creando seri problemi agli Stati, in particolare all’Italia, che si trova a dover fare i conti col traffico di esseri umani, profughi in fuga alla disperata ricerca della salvezza e col rischio di approdi clandestini sulle nostre coste che è difficile contenere e regolarizzare.
La Tunisia di Bourghiba
La Tunisia, a differenza dell’Iraq, della Libia e della Siria, ha avuto due esperienze di stato patrimoniale, la prima dal 1957 al 1987 con Habib Burghiba e la successiva dal 1987 al 2011 con Zine El-Abidine Ben Ali. La Tunisia, dichiarata stato indipendente il 20 marzo 1956, elegge nel mese successivo un’assemblea nazionale costituente che conferisce la nomina di presidente della nuova repubblica a Bourghiba, che mette in moto un processo diretto a modernizzare il paese, liberandolo dai condizionamenti posti dalla tradizione islamica. Numerose riforme sono sancite nel Codice dello statuto personale, che ridimensiona il potere dei capi religiosi, pur restando l’Islam la religione di Stato (il Presidente della Repubblica deve essere di religione musulmana), inoltre adotta riforme particolarmente nuove per il mondo arabo, come quelle relative allo status giuridico delle donne col divieto della poligamia, la sostituzione del divorzio al ripudio, la legalizzazione dell’aborto.
Un’attenzione particolare nel codice è riservata anche all’istruzione con l’istituzione di una moderna scuola pubblica e gratuita, mettendo fine al doppio regime scolastico della scuola coranica e della scuola di tipo occidentale. A differenza di altri paesi arabi Bourghiba riserva maggiore interesse all’educazione e alla salute. In politica estera, Bourghiba sostiene la normalizzazione dei rapporti con Israele, e propone all’ONU la creazione di una federazione tra gli stati arabi della regione e lo stato ebraico. L’azione rinnovatrice messa in moto da Bourghiba prosegue per qualche anno, registrando però un progressivo rallentamento. Acclamato Presidente a vita in base alla revisione di un articolo della Costituzione tunisina, nel 1978 egli riallinea il paese alle posizioni anti-israeliane prevalenti nel mondo arabo .Nel paese, intanto si diffondono il clientelismo e la corruzione , mentre si accentua il carattere autoritario del regime. In pratica il regime patrimoniale posto in essere da Bourghiba negli anni ’50 sotto il segno del liberalismo e della laicizzazione della società tunisina si avvia al tramonto negli anni ’80 con un Paese che è in uno stato di una grave crisi economica e alle prese con un crescente islamismo radicale che tende a riportare la società tunisina ad un precedente sistema di vita .
Nel 1987 il presidente Bourghiba con un colpo di stato che è unico negli annali del mondo arabo, è destituito per senilità dal gen. Ben Ali. Il generale, eletto presidente al posto di Bourghiba, instaura un regime autoritario, fondato sul sopruso e sulla corruzione, ponendo fidati collaboratori nei ruoli di dirigenza e costruendo leggi elettorali truffa, le quali gli permisero di ottenere dei risultati plebiscitari nelle elezioni degli anni seguenti. In tale contesto prende avvio nel 2010 una rivoluzione che pone fine al regime patrimoniale e avvia il processo di democratizzazione del Paese. Il 17 dicembre 2010, un giovane ambulante si dà fuoco davanti al palazzo del Governatorato a seguito della volontà delle autorità di revocargli la licenza. Quest’episodio porta alla nascita della “Primavera Araba”, un insieme di movimenti popolari che si sviluppano in diverse nazioni arabe. Ben Alì si dimette e fugge all’estero. Sul finire del 2011 si svolgono le elezioni per l’Assemblea Costituente della Tunisia che elabora una nuova Costituzione che entra in vigore nel 2014, ratificando libertà e uguaglianza e segnando così il passaggio dal neopatrimonialismo alla democrazia.
Conclusione
Le vicende che hanno segnato la storia dei regimi neopatrimoniali della Siria, dell’Iraq, della Libia e della Tunisia consentono di ritenere che la distinzione proposta da Jameson Browlee tra regimi patrimoniali stabili e regimi precari ha una validità solo relativa; i regimi che si muovono nella direzione della modernizzazione dei loro paesi, come hanno tentato di fare Saddam Hussein nell’Iraq , Gheddafi nella Libia, Bourghiba nella Tunisia e Assad in Siria sono rimasti in vita finché la politica da essi adottata non si è scontrata con gli interessi di altri stati o all’interno dello stesso stato, quando il processo riformista ha perso forza e consistenza .