La presentazione delle carte lucane, avvenuta a Sant’Arcangelo (PZ) il 21 Dicembre, ci aiuta a comprendere in cosa differiscono le carte lucane dalle carte napoletane
Mentre ordinavo un vin brulè in uno dei locali-cantine di Cracovia ho realizzato che non si smette di essere lucani neppure a due mila chilometri di distanza. Al bancone del bar c’era il solito uomo solitario con il suo bicchiere di birra sempre vuoto. Ho provato a ordinare il mio vino facendo molta attenzione ai casi, all’accento, ma i miei capelli crespi e bruni non mentono. L’uomo solitario con aria minacciosa mi chiede: “Da dove viene, signorina?” “Dall’Italia” e lui replica: “E sì l’Italia, ma da dove?” e io, pensando sempre a declinare ogni parola nel caso giusto: “Da Roma” poi mi ricordo improvvisamente che non sono di Roma e aggiungo: “Cioè studio a Roma, ma sono della Basilicata”.
L’uomo solitario scoppia a ridere: “Ahhh Basilicata, tutta brava gente, ma povera! Il treno ancora non arriva da voi?” e per tutta la serata continua a chiedermi stupito come mai io studiassi e mi trovassi a Cracovia, non riusciva proprio a capacitarsi. Nel suo orizzonte non era concepibile che una giovane donna della Basilicata, che lui aveva girato in autostop vent’anni orsono, potesse studiare e viaggiare.
Far rivivere le voci di una generazione
Quello che potrebbe essere un semplice aneddoto divertente da raccontare agli amici al bar durante le vacanze di Natale, vuole essere qui un incipit per comprendere come un giovane lucano può rielaborare e riadattare a distanza il proprio patrimonio identitario, senza cadere in una banale idealizzazione del mondo contadino, della realtà rurale che non ha mai vissuto direttamente.
Come afferma l’ideatore delle Carte Lucane Pietro De Marco, laureato in grafica e design allo IED di Milano, l’idea di creare questo prodotto commerciale viene dall’esigenza di far rivivere le voci della generazione dei nonni, una generazione che sta scomparendo. La generazione dei nipoti, dei millenials, degli sdraiati e dei bamboccioni, è l’unica custode di quelle voci, perché da bambini per dovere o per piacere si stava lì a perder tempo e ad ascoltare. Un mondo rurale e contadino che di fatto non esiste più, che noi nipoti tante volte non riusciamo più a decifrare. Le macerie e i resti di quel mondo rimangono nel bagaglio che ci portiamo sulle spalle, lì nascosti fra un salame sottovuoto e un barattolo di funghi sottaceto. Compito delle generazioni future è traslare queste immagini e renderle vive, fonte di elementi identitari che possono mutare la realtà statica e immutabile del paese, adattandola alle proprie esigenze.
Quattro storie di potere
Quanto vale a questo scopo un mazzo di carte? La presentazione delle carte lucane, avvenuta a Sant’Arcangelo (PZ) il 21 Dicembre, ci aiuta a comprendere in cosa differiscono le carte lucane dalle carte napoletane. Innanzitutto vi è una differenza di natura storica e sociale che affonda le proprie radici nell’Italia pre-unitaria: Napoli è un ambiente urbano e fu capitale del regno di Napoli, mentre l’entroterra lucano è un ambiente rurale, una campagna isolata e lontana dai grossi centri urbani. Ecco perché le carte Lucane, ci spiega sempre l’ideatore Pietro de Marco, non hanno alcun re. Le quattro figure del dieci sono raffigurate tramite quattro storie di potere, di odore fouacaultiano, qui il potere è pervasivo e si intravede in ogni relazione sociale. Il potere viene esercitato in questa società rurale e autarchica da quattro figure emblematiche.
Il primo regnante lucano è il bardo, cioè il poeta e suonatore che allieta le serate di festa e che ha al suo fianco un fiasco di vino. È questa forse la figura più potente all’interno di questa società circolare e a tratti claustrofobica perché riesce con l’estro dell’artista e l’immaginazione ad evadere i confini del reale, del presente e del familiare.
La seconda storia di potere è rappresentata dal pastore, che si fa guida del gregge e regna sul silenzio delle valli. Un potere apparentemente più economico ed effettivo viene esercitato dal padrone, il latifondista che riscuote il censo. Ma in queste carte il padrone ha un aspetto un po’ goffo: scarpa grossa e cervello fine, il contadino, la forza lavoro, riesce sempre ad ingannare il padrone ben vestito, che in questo universo immaginario è una forza parassitaria.
L’ultima storia di potere è quella del brigante lucano, il fuorilegge e reazionario per eccellenza. Una figura, quest’ultima, storicamente definita, che alimenta comunque le narrazioni leggendarie e fantastiche sulla Lucania post-unitaria. L’altro elemento che le differenzia dalle carte napoletane sono i semi. Per le carte Lucane si è scelto il grano al posto dei denari, la falce al posto delle spade, i fasci al posto dei bastoni, le anfore al posto delle coppe.
Simbologia rurale
Il grano ha un’ampia simbologia nella cultura contadina: è legata al rito della mietitura, la grande festa d’estate fra compari, legata agli ex-voto, alle gregne, che ad oggi sono delle impalcature di spighe di grano intrecciate che vengono portate in processione.
Il ballo delle gregne è un rito suggestivo, in cui queste impalcature si muovono in cerchio sui capi dei ballerini e sembrano dei fantocci animati dalla musica. Sempre al rito della mietitura, inteso da De Martino come momento critico in Morte e pianto rituale nel mondo antico, è legato l’arnese che dà la morte per dare vita nella prossima stagione: la falce.
L’ anfora, a vummul, è anch’essa portatrice di vita, contenitore di acqua, che da Carlo levi, come ricorda Andrea Di Lorenzo, dottorando in Mutamento Sociale e Politico presso l’Università di Firenze, viene paragonata da Carlo Levi alla sagoma delle donne contadine. A questo proposito si sostituisce la figura del fante, l’otto, con la figura della donna contadina, facendo uno studio sui costumi femminili del territorio lucano. Da questa sostituzione emerge anche una riflessione di genere, come afferma Andrea Di Lorenzo, responsabile delle ricerche storiche e antropologiche alla base del progetto dell’agenzia di grafica e web obdo.
La donna contadina sembra apparentemente succube di una società completamente patriarcale, in cui tutte le decisioni spettano al padre padrone. Ma è davvero così? La donna contadina non è solo una vittima del sistema patriarcale è anche un essere agentivo. È lei che gestisce parte delle risorse materiali, si occupa del lavoro nei campi, della cura e della vendita degli animali, e inoltre si occupa della gestione delle relazioni umane: l’educazione dei figli, le relazioni con il vicinato e con i compari.
Matriarcato relazionale
Dai racconti delle nostre nonne ci sembra difficile immaginare la donna contadina come un innocente angelo del focolare. Di Lorenzo parla di “matriarcato nelle relazioni personali”. La vera novità di queste carte da gioco è la ricerca storica e antropologica svolta a supporto del prodotto commerciale. Andrea Di Lorenzo cita tre tipi di fonti utilizzate: la prima fonte è di natura prettamente orale, i racconti dei nonni; poi sono stati selezionati punti di vista esterni che hanno narrato la Lucania, De Martino per la ricerca antropologica, Carlo Levi in ambito letterario, Banfield in ambito sociologico; l’ultima tipologia di fonte citata è lo sguardo interno degli autori lucani come Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli.
C’è un’altra grande assenza nelle carte lucane: i cavalli e i cavalieri del nove vengono sostituiti da asini e contadini. Le due figure si pongono in rapporto simmetrico, assente il rapporto gerarchico che si instaura fra cavallo e cavaliere in sella. Queste carte non vogliono essere ulteriori cimeli con cui adornare e lodare la staticità e l’arretratezza del paese e della provincia. Le carte da gioco vengono usate di solito nel bar, il luogo statico per eccellenza, in cui nulla cambia, in cui ritrovi sempre gli stessi volti. Il bar è un luogo fisico e di evasione, un porto sicuro, che troppe volte diventa per i nostri coetanei una trappola di inattività, passività e ripetitività.
Ogni carta lanciata sul tavolo di marmo del bar è un gesto che può modificare l’esito della partita. Ripensiamo i luoghi, ripensiamo le immagini che affollano i nostri luoghi lanciando sui tavoli dei nostri bar carte nuove, carte semanticamente potenti, che ci dicano da dove veniamo, senza farci dimenticare che si cammina in avanti.