Dal 4 all’8 dicembre si è tenuta presso La Nuova la fiera della piccola e media editoria, dove The Serendipity Periodical ha avuto il piacere di intervistare Gianmaria Finardi, traduttore in Italia di tutte le opere di Éric Chevillard
Gianmaria Finardi è dottore di ricerca in letteratura francese ed editore, autore del blog di Prehistorica Editore. Ha tradotto Sul Riccio di Éric Chevillard, primo testo pubblicato da Prehistorica Editore. Sul Riccio, edito da Prehistorica Editore, affronta il tema del blocco creativo. L’io del libro è in procinto di scrivere la sua autobiografia, ma si trova sulla sua scrivania un riccio, che gli ricorda tutte le ragioni per cui non vale la pena scrivere. Lo scrittore affronta questa paura comune a tutti gli scrittori, riuscendone a parlare per oltre duecento pagine.
Ci può raccontare come nasce Prehistorica Editore, di cosa di occupa e come è nata l’idea di dedicare un’intera collana alle opere di Chevillard?
Io sono il traduttore italiano di Chevillard, di cui ho tradotto Au Plafond, in italiano Sul Soffitto e Palafox per Del Vecchio Editore, da qui a fondare una casa editrice tutta mia, che fosse in buona parte costruita attorno alla colonna portante che è appunto la collana dedicata a Chevillard, Chevillardiana, il passo è stato piuttosto breve. Mi sento anche più responsabile e responsabilizzato, il traduttore infatti ha questo onere, che chiamerei anche fortuna quando si tratta di tradurre dei giganti come Chevillard, di riuscire a non perdere nulla di quanto c’è di preziosissimo del testo. Al tempo stesso, quando si diventa editori, si aggiunge la responsabilità di dover difendere l’autore al di là del libro, con una serie di attività di promozioni che sono indispensabili, perché anche il migliore libro del mondo possa avere delle chance di farsi largo. Ahinoi stiamo subendo un’”inflazione” del libresco che disorienta fatalmente il lettore. Spesso quando si entra in libreria o quando entra in una fiera ci sono migliaia di libri che escono e diventa molto difficile riuscire a capire che cosa vale davvero e cosa vale di meno. È l’editore che deve dannarsi per riuscire a far passare il suo messaggio.
Qual è il messaggio di Prehistorica Editore?
Il messaggio di Prehistorica editore, casa costruita attorno a Chevillard, dato non insignificante, è di proporre, come dice il nome stesso “Pre-historica Editore”, un paradosso dato dal connubio tra l’editoria, quindi la scrittura, e la ciò che la precede, ovvero la preistoria. Questo perché l’idea è che i nostri libri saranno sempre libri che avranno un’ambizione molto alta, che non sarà quella di essere lo specchio del mondo, il lettore non vi troverà delle miniature del mondo, dato che io ad esempio non vedo molto il significato di replicarlo, in quanto già esiste. Questa è anche l’idea di Chevillard. I libri di Prehistorica editore propongono delle alternative o comunque delle visioni concorrenziali e non completamente aderenti, accetteranno uno sguardo caustico su quello che abusivamente e automaticamente siamo abituati a chiamare “il nostro mondo”, che altro non è che un costrutto culturale, come dice Umberto Eco.
Oserei dire che tutto quello che accumuna i libri di Chevillard è il desiderio di fare presa sul mondo attraverso un libro, quindi il libro non è più l’attività di chi si chiude, di chi si estranea dalla contingenza per evadere, tutt’altro. I libri di Prehistorica sono libri sfidanti, l’importante è essere aperti, essere dei viaggiatori della lettura e accettare che il libro può darci qualcosa, qualcosa che ci rimane dentro, e che una volta chiuso il libro ci fa vivere diversamente da prima. Vogliamo dei libri che lasciano il segno, infatti il motto della nostra casa editrice è “La grande letteratura, non solo francese, che lascia il segno”, questo si riflette anche sulla nostra copertina: il dinosauro che fa presa il mondo, prendendo a morsi il libro. L’idea è di realizzare un quadro per ogni libro, perché questa commistione tra le arti ci piace molto, si vuole rinviare il piacere della lettura, alla materialità, alla carta. Il piacere della lettura si trasferisce anche sull’oggetto, la casa editrice ci tiene a questo tanto che abbiamo deciso di non produrre e-book, perché ci sarebbe costato il sacrificio di adattarci a quello che secondo noi non rimarrà. Siamo molti attenti al libro cartaceo, tanto che prestiamo molta cura nei dettagli. Ad esempio, utilizziamo carta di altissima qualità, i nostri libri sono rilegato a filo refe, perché i testi di una levatura come quelli di Pierre Joudre, Éric Chevillard e di Eugène Savitzkaya, non potevamo dare una veste grafica mediocre, né realizzare un oggetto come il libro che non resistesse nel tempo. Questo sarebbe stato incoerente con i principi della casa editrice.
È stata una scelta casuale quella di iniziare con la pubblicazione della traduzione di un’opera di Chevillard?
Abbiamo iniziato con Chevillard con il festival di Mantova. Siamo felicissimi di portare in Italia Chevillard, che forse è quello che più ci racconta. Sul ricco che tratta dell’incontro del blocco creativo, dell’ossessione della pagina bianca, che è rappresentata dal riccio. Chevillard tratta di una questione spinosa per antonomasia, che colpisce qualunque autore, che si trova davanti la pagina bianca e si chiede ‘Adesso da dove comincio’? Diciamo che Sul riccio era il testo zero che dovevamo scegliere per partire, se è vero che partire dal testo che affronta e vince per oltre duecento pagine il blocco creativo, significa per la nostra casa rompere il silenzio e con il testo di Éric Chevillard cominciare la nostra avventura editoriale.
Secondo lei, perché Chevillard ha scelto proprio il riccio per incarnare il blocco creativo?
Perché il riccio è l’animale che più si presta a fare da doppio all’attività del protagonista, il quale ci promette fin dal primo paragrafo di scrivere la sua autobiografia. Il riccio incarna lo scrittore che scava dentro de se stesso, così come l’animale spinoso si apre e si chiude.La prima cosa che si nota aprendo il libro è l’impaginazione.
C’è un’attenzione quasi maniacale alla divisione in paragrafi. Ogni paragrafo è diviso in nove righe e mezzo. Questo ha rappresentato una sfida a livello traduttivo?
Chevillard è un autore che non fa sconti al traduttore, costruire un intero passo su un’immagine derivata dalla presa alla lettera di una frase fatta, che per definizione dovrebbe essere intesa solo a livello figurato, presume ritrovare in italiano il modo di rendere la frase fatta corrispondente e di prenderla alla lettera e che questa funzioni. In Chevillard ci sono dei sabotaggi linguistici applicati a tutti i livelli, ad esempio capita di trovare due frasi fatte, mutilate e saldate insieme, questo presume delle acrobazie che devono essere mantenute a tutti i costi. La questione formale in questo autore è importantissima e non si può perciò prescindere dalla lingua, sono le strutture a guidare le pagine e la narrazione. Infatti, Il riccio pone dei problemi ritmici. In ogni paragrafo c’è questo narratore che ci ha promesso la sua autobiografia, che tenta di raccontarci qualcosa della sua vita, ma torna fatalmente a parlare del riccio che ingombra la sua pagina, salvo poi dopo uno o due frammenti riaprirsi rispetto alla vita, che entra nel testo quasi di contrabbando e lo riempie di nuovo. Poi a intermittenza, il riccio si autoimpone di nuovo, in quanto impedimento alla scrittura. Questo è il movimento del riccio: di sistole e diastole, apertura e chiusura, che deve riflettersi sull’italiano a livello ritmico. Bisogna capire tutto quello che c’è dietro, sia a livello linguistico sia a livello semantico; è una questione di immagini e grandi tematiche. È necessario capire tutto quello che c’è alla base del testo francese e a quel punto occorre avere la stessa leggiadria, la stessa pazzia.
I paragrafi sono scanditi da uno spazio bianco che divide la pagina. Cosa indica questo spazio bianco? C’è un legame tra la figura del riccio dividere ogni paragrafo c’è uno spazio bianco, che cosa indica?
Lo spazio bianco indica un vuoto apparente, quasi ex nihilo nasce il paragrafo successivo per cui è la creazione che però non è veramente ex nihilo. Questo perché a Chevillard basta una parola, un cliché, materia morta che non significa più nulla per far scaturire qualcosa, in questo caso il paragrafo successivo, l’immagine successiva la narrazione. Dal bianco nasce il testo. Un’altra spiegazione, forse un po’ giocosa, ma sicuramente legittima: questo bianco è il riccio, quindi non è veramente vuoto, è bianco, ma perché Chevillard immagina che il protagonista scriva su parte della pagina e non su quella occupata dal riccio che in negativo si dà come spazio bianco, perché il riccio campeggiava lì e non ci poteva scrivere. C’è questa idea del singhiozzo, del ripensamento dello scrittore che anche se la scrittura ha preso il suo abbrivio, ogni poco regolarmente lo scrittore torna a interrogarsi su come procedere. Questo si riflette anche sull’impaginazione.
Per tutta l’opera, il riccio è accompagnato da due aggettivi: naif e globuloso. Ci può spiegare perché secondo lei Chevillard abbia scelto di definire il riccio in questo modo?
In ogni paragrafo, tranne in un’occorrenza compare la parola riccio naif e globuloso. Éric Chevillard si diverte a usare questa perifrasi del tutto inutile e sovrabbondante, perché gli permette di speculare su questi aggettivi e fare una sorta di maionese, agita la frusta, o meglio la penna nella maionese, nell’inchiostro e lo fa montare con un pretesto. Inoltre c’è un passo in particolare in cui parla del cibo dei gitani: il niglo, parola che deriva dalla fusione di naif e globuloso, se io avessi deciso da traduttore di rendere naif in ingenuo, mi sarei perso il passo sul cibo.