A quel tempo Sant’Ambrogio durante le notti d’inverno amava starsene nella biblioteca dedicata al padre spirituale Boezio
Il demonio non può nulla contro la volontà, pochissimo sull’intelligenza e tutto sulla fantasia.
– Joris Karl Huysmans –
Boezio, lo stesso che aveva scritto un trattato a riguardo della filosofia e di come essa possa essere d’aiuto, durante la vita, nei momenti più difficili, elevando lo spirito umano al di sopra delle vicende puramente mondane e terrene che da sempre ci affliggono; la consolazione della filosofia consiste nell’adottare come habitus uno sguardo universale e distaccato che fuoriesca dalla contingente e limitata condizione di individuo, e che porti, inevitabilmente, a guardare le cose sub specie aeternitatis. A queste cose seguiva meditando il vecchio santo, mentre la notte trascorreva placida, solitaria e segreta, mentre una pioggia effimera iniziò, allo scoccare della mezzanotte, a biascicare sulle tegole al di sopra della cupola del Convento di Santa Maria Maggiore.
Cinque candelabri, con altrettante candele, erano posti negli angoli della stanza la cui forma pentagonale era percepibile solo grazie alle stesse luminarie, tanto era affollata di scaffali contenenti libri di ogni sorta, scritti rigorosamente in latino classico. Una sola finestra posta ad est lasciava intravedere un cielo cupo e plumbeo, sprofondato nel sonno eterno della notte invernale; la luce lunare, fioca e fragile, sbucava evanescente dalle nubi accalcatesi dinanzi ad essa e che facevano scorgere la possibilità di piogge torrenziali ben più fitte di quelle che sino ad ora avevano accompagnato l’inverno nordico.
L’uomo, dalla profonda ed invidiabile concentrazione, era ormai da ore chino innaturalmente su di un manoscritto massiccio, dalla copertina legno bruno, le cui pagine giallastre erano costantemente accompagnate sui bordi da miniature in perfetto stile medievale raffiguranti allegoricamente scene di vita quotidiana tra i monaci minori del monastero: animali, chimere, angeli, santoni e demoni infestavano quelle pagine e stuzzicavano di volta in volta l’immaginazione del santo, che fermava appositamente la sua lettura per lasciarsi trasportare soavemente in quei mondi fantastici dipinti secoli prima da mani sapienti ed esperte.
Qualche pagina dopo l’inizio del V capito dell’opera attribuita convenzionalmente al monaco pazzo di Freudenstadt, dal veemente titolo ‘’De substantia daemonum et tenebrarum’’, Sant’Ambrogio iniziò a farsi tremendamente cullare da un’immagine demoniaca raffigurata in miniatura nella parte bassa del bordo destro della pagina; il disegno, frutto di una mano razionale ed antica, rappresentava il Maligno nell’atto di porgere ad un suo presunto discepolo una coppa dalla quale fuoriuscivano dei fumi malefici, i quali a poco a poco sembravano assumere la forma di altrettanti demoni minori che andavano infine a creare un cerchio infernale intorno a tutta la rappresentazione.
Il santo fu rapito completamente dall’immagine, ma soprattutto dai particolari infiniti che continuava a scorgere nel continuo mirare e rimirare la pagina. Le mani del Demonio erano raffigurate a mo’ di zampa caprina, ma nonostante ciò erano prensili, in grado cioè di afferrare e mantenere saldamente la coppa stregata; l’antico monaco disegnatore aveva avuto cura di aggiungere allo zoccolo una falange prensile di fianco, appena visibile solo ad un occhio attento e scrutatore; braccia ed avambracci del demone erano umane ma progressivamente sfumavano nelle forme animali con una tenacia ed un intrigo degni della metamorfosi di Dafne, non era possibile determinare uno stacco netto tra la componente corporea animale e quella più propriamente umana, esse convivevano sfumando l’una nell’altra in una sorta di continuum ontogenetico. Lo stesso accadeva con il volto. Pareva un’espressione umana incassata in un cranio taurino, o caprino che fosse, gli occhi scintillavano di un rosso vivo, mentre dalle narici provenivano densi vapori acquei, caldi ed infernali.
La coppa del disegno, stando all’ermeneutica messa in atto dal santo in quel momento, avrebbe dovuto raffigurare la conoscenza, la sapienza, la capacità di preveggenza e anticipazione del futuro grazie alla gnosis delle cause prime che regolano matematicamente la natura; la coppa è scienza in senso stretto, mondo sottomesso al dominio razionale dell’uomo. Ciò che al santo meditatore, in quel momento, rapì completamente il senno fu il paradosso concettuale, messo in immagine, per il quale la conoscenza dovesse esser stata offerta all’uomo, nel disegno come nella Cacciata dall’Eden, da un animale.
– Un animale che offre la conoscenza razionale del mondo, nella sua piena intellegibilità e sottomissione! Che paradosso! Che sia questo l’antico scandalo per il quale allegoricamente nostro Signore cacciò Adamo dal metempirico mondo divino? Che sia stata punita la presunzione di ridurre la conoscenza ad una pura e semplice osservazione empirica del mondo? Ad una semplice interpretazione meccanicistica e materialista della natura?
Ovvio che la chiave dell’ermeneutica del santo consisteva in un rigido sforzo scientistico, perché egli apparteneva a quella classe di ecclesiasti illuminati che, con spirito quasi antropologico, intendono la Bibbia ed i testi sacri quali composizioni ispirate da Dio, si, ma poi inevitabilmente trascritte da mano umana la quale, impossibilitata nella comprensione concettuale del Verbo divino, ha preferito renderlo sotto forma di immagine, perché più intuitiva, più carica di significato, più rispettosa della magmatica semantica divina del Verbo.
Per Sant’Ambrogio le immagini codificate nella Bibbia erano allora un vano tentativo di rendere intelligibili le parole divine sussurrate nelle grezze orecchie di uomini antichi; per questo sarebbe stato da giustificare, a suo detto, il modus operandi tipico dell’approccio ebraico alla materia religiosa: ‘Pregare è studiare, leggere, interpretare la parola divina, mai completamente conquistata (Begriffen) dall’intelletto umano; ma scorta a pezzi, a frammenti tra loro addirittura inconciliabili’ – questo stesso pensiero continuava a formularsi nella sua mente, con sfumature di significato differenti, di volta in volta cercando qua e là nell’archivio lessicale il termine più adatto alla descrizione concettuale; e più mirava quel disegno più la sua immaginazione lasciava intravedere la presunzione continua con la quale tutti gli ordini ecclesiastici di tutti i tempi si erano lanciati in teorie assurde circa il Diavolo, gli angeli, gli Spiriti maligni; sempre più convinto, il povero santo, che si trattasse semplicemente di un linguaggio arcaico, pre-logico o comunque immaginifico con il quale gli antichi uomini avevano recepito e in parte ascoltato la parola divina.
Mentre le immagini prendevano d’assalto gli scompartimenti della sua logica, un soffio di vento improvviso, annunciato da un lampo seguito da nessun frastuono, riuscì ad insinuarsi da sotto il vetro della finestra, finendo per spegnere tre dei cinque candelabri che dagli angoli della sala lettura infondevano pigramente la loro luce; lo spavento fu contenuto ed il santo decise di riaccendere le micce ancora calde, quando anche gli altri candelabri improvvisamente, questa volta senza il necessario intervento del vento, furono tramortiti e smisero di infondere la sacralità dei numi; il tentativo del santo di riaccenderli fu completamente inutile, la tiepida luce infusa dalla luna non lo aiutava nell’arduo compito di riaccendere una per una le venticinque candele che componevano la sala, perciò dovette accontentarsi di proseguire la sua lettura aiutandosi con la sola fiammella posta al di sopra dello scrittoio con la quale accompagnava lo sguardo durante l’esegesi testuale.
Fu a quel punto che il santo udì distintamente una voce femminile provenire dalla punta pentagonale della stanza, un gemito umido e voluttuoso scambiato in principio per un animale della notte, emesso da un corpo nudo e bianco di una giovane vergine dai capelli a cascata, le cui ciocche di boccoli sensuali ricadevano dolcemente sui suoi seni turgidi e grossi, esposti naturalmente verso l’esterno; alcune ciocche erano confluite verso l’insenatura tra i due seni, separandoli distintamente nel loro divampante e fertile vigore giovanile che li teneva perfettamente eretti, quasi irrompessero violentemente dall’ombra generata dalla folta chioma; il corpo era morbido, delicato, ma soprattutto generoso nei suoi lineamenti, che sembravano guidare lo sguardo proprio lì, ove tutto ebbe inizio e ove tutte le umane voglie sembrano confluire.
Un ciuffo quasi geometrico posto a guardia del sacro varco le cui segrete pareti avrebbero fatto scivolare l’ospite verso l’interno piovigginoso ed angusto. Il volto era quasi assente, nel senso che lo sguardo non dava di certo ad intendere che la donna fosse consapevole del suo stato, quasi come fosse stata drogata o si trovasse travolta da un’imperterrita estasi mondana, rapita da un qualche dio o satiro. Non fece in tempo ad avvicinarsi per chiederle chi fosse e cosa ci facesse lì che la giovane vergine lo trascinò sul pavimento di fianco ad ella, e con una mano iniziò tirargli il cordone che manteneva austeramente al suo posto il saio e tutta la divisa monacale. Il santo si rialzò subito, percependo la pericolosità morale di quella posizione che se assecondata lo avrebbe reso schiavo del peccato;
– Chi sei e chi ti ha ridotta in questo stato? –
fece il monaco quasi per giustificare lo strattone violento con il quale si era liberato dalle sue braccia accoglienti; dopo di ché si tolse di dosso lo scialle in lana di feltro che portava sulle spalle e le coprì i genitali. Poi proseguì:
– Come ti senti? stai sudando freddo! Non capisco come tu possa essere entrata qui, possibile che nessuno ti abbia intravista? –
La donna non ne volle sapere di rispondere, tanto il suo stato di compromissione spirituale era profondo. A quel punto passò inoltre per la mente del santo che la donna, dati i lineamenti ora più visibili e decifrabili del volto, potesse essere una straniera.
Illuminatala meglio con l’aiuto della candela prelevata dallo scrittoio, si rese immediatamente conto che in realtà i capelli della venere rinvenuta lì a terra erano di un rosso intenso anticipato, sul volto, da una miriade di lentiggini che lo ricoprivano vorticosamente e ne esaltavano il taglio degli occhi vagamente orientale, e per questo fiero e contenuto.
La donna iniziò improvvisamente a tremare dal freddo, rannicchiandosi in sé stessa, facendosi piccola ed abbandonando lo sguardo voluttuoso che sino a quel momento aveva accompagnato le sue smorfie, voltò lo sguardo e fece quasi per addormentarsi.
Ambrogio ritornò dopo qualche minuto con delle coperte e degli abiti che, seppur maschili ed improbabili, avrebbero comunque mantenuto quel corpo caldo durante la nottata, nell’attesa che il giorno portasse nuova luce sui fatti inquietanti ed inconsueti di quella notte. Quando riaccese tutti i candelabri si stupì di non aver ritrovato quel corpo bianco ed indifeso che aveva abbandonato solo per pochi minuti; le sua capacità razionali erano state messe a dura prova da quella che sembrava, a questo punto, un’allucinazione bella e buona, o forse una sogno ad occhi aperti stimolato da qualche desiderio recondito; il senso di colpa accrebbe nell’animo del santo studioso per il solo fatto di essersi fatto trasportare da quelle che ora egli riteneva delle semplici immagini oniriche che la notte e le sue letture avevano, secondo il suo giudizio, stimolate.
Ma ancora una volta fu costretto a ricredersi delle false peregrinazioni della sua mente; la donna riapparve, questa volta in posizione eretta, e si avvicinò sinuosamente al monaco prolungando e tendendo le sue braccia al collo; fu un attimo e gli si avvinghiò, saltandogli in braccio e attorcigliando le gambe intorno al suo bacino. Ella iniziò poi compulsivamente ed in modo violento a strusciare il suo sesso umido e bagnato sul bassoventre del monaco che fu per qualche istante rapito da un tremendo impeto animale, una volontà irrazionale e caotica che comandava al suo corpo di inseminare quell’essere candido e voluttuoso, bianco e tenero, quasi non avesse ancora conosciuto la corruzione del tempo e della carne; le brame della vergine si fecero ancora più tortuose mentre lo spirito del monaco santo fu messo a dura prova; lui stesso lo assecondò, quel movimento, sbattendo violentemente la donna sullo scrittoio e aprendole le gambe che avevano soffocato le sue anche sino a quel momento.
Con violenza il santo iniziò a spingere il suo corpo nella donna, un furioso atto sbrigativo e funesto che aveva il solo scopo di compiacere la sua specie: spargere il seme, liberarsi, scaricare, irrompere, rinnovare, affondare.
La pioggia seguitava scrosciante e vigorosa, incitando gli amanti novizi a concludere avidamente il loro atto sfrontato, lì nel bel mezzo della biblioteca del monastero, convertita ora nel santuario della carne.
Il pensiero del santo era quasi annientato dai fumi vertiginosi della carne e delle voglie, non dava cenni di vita tanto era sprofondato in un demoniaco stato di euforia sanguigna, ma ecco che ad un tratto il suo spirito fu immediatamente ridestato da quella stessa immagine che qualche ora prima lo aveva così profondamente scombussolato e stimolato; in cima al tavolo, intatto, era ancora il libro su cui il santo monaco aveva nelle ore precedenti soffermato il suo giovane intelletto, ma l’immagine che lo aveva stregato era cambiata, neppure era la stessa di prima, i soggetti erano completamente differenti, sembrava esser stata addirittura disegnata da mano diversa: non più il demone caprino con in mano la coppa sacra data in custodia al suo discepolo, ma una donna nuda con in braccio lo stesso demone, mezzo uomo mezzo animale, attorniata da serpenti stregati che le facevano la corte e le carezzavano i genitali con le loro lunghe code; ognuno di essi aveva un colore diverso e la donna pareva compiaciuta dalla penetrazione rettile che da essi dipartiva.
Il figlio del maligno, rannicchiato tra le braccia convulse della madre, a ben vederlo sembrava via via crescere e sovrastare con le sue dimensioni tutta la restante miniatura. Fu a quel punto che il monaco fu preso da un terribile e raggelante pensiero che lo costrinse a raffreddare i fumi inebrianti che lo avevano narcoticamente stregato durante tutto quel tempo. Per un attimo fu come catapultato fuori dal suo stato di individuo singolo e voluttuoso, guardò la scena e l’avvenimento dall’esterno con la consapevolezza di chi è opportunamente distaccato dall’oggetto della sua osservazione. Con un gesto rapido, brusco ed istintivo si distaccò dal corpo lattiginoso della donna che continuava a muoversi diabolicamente, gettando urla strazianti di piacere quasi come l’orgasmo continuasse senza il contributo dell’altro amante, ma quando si rese conto di essere stata abbandonata al culmine delle sue brame subito il viso gli si incendiò di folgorante ira, trafiggendo l’animo ancora tramortito del santo monaco.
– Avvicinati e compi ciò che hai iniziato perché possiamo di due far uno, ed assecondare l’antico imperativo naturale che c’impone di riprodurre le effigie delle nostre caduche esistenze! –
Disse la donna riavutasi dal brutale sguardo lanciato al santo dopo aver placato le sue voglie.
– Va via di qui e non farti più rivedere, hai infranto la tranquilla vitalità del nostro monastero, ma nessuno permetterà che i figli del maligno si riproducano ed infestino gli angoli della nostra terra! –
Il santo contestò sicuro delle proprie parole e virilmente attaccò la donna alla gola, immobilizzandola con ambo le braccia. A quel punto la donna cominciò a contorcersi e a tremare in sé stessa come posseduta da una qualche altra volontà e con una scalciata impetuosa fece capitolare il santo in terra che rimase quasi tramortito e privo di sensi.
La donna fece per rimontare sul ventre del giovane santo che ancora frastornato non riuscì ad impedirglielo; ancora la donna assatanata cominciò il convulso movimento in groppa al malcapitato che si sentì come nuovamente preso di soprassalto dall’impeto sessuale che quasi stava per compiersi dentro il ventre di quella creatura.
Tutti i tentativi di liberarsi dalla sua stretta fatale furono vani perché una forza demoniaca lo aveva immobilizzato al suolo, incapace di intendere e di muoversi; all’improvviso i gemiti della donna si trasformarono in citazioni latine le cui parole però presto mutarono in un altro tipo di linguaggio, molto più antico, incomprensibile per il monaco, ma che a ben udire sembrava innaturale, strambo e scapestrato; nessuna delle lingue umane aveva un suono così orrendo e fastidioso per l’udito, non si trattava tanto dell’articolazione sonora, quanto della frequenza quasi, con la quale erano emessi. La latinità delle prime citazioni lasciò il posto interamente alla strana lingua che sembrava incrementare l’effetto narcotico che la danza sessuale della creatura continuava a condurre sul ventre del giovane monaco.
Qualche attimo prima che la tormentosa danza terminasse nella tremenda e ritardata pioggia seminifera, con l’ultimo cenno d’arbitrio che rimase fioco per tutta la durata dell’atto nel fondo dell’animo retto e saldo del giovane monaco, Sant’Ambrogio chiese aiuto ai cieli nell’unico modo che conoscesse, pregando e meditando sul mistero ultimo del suo essere e con questa rinnovata e fugace forza d’animo agguantò una delle quattro gambe dello scrittoio e lo scosse con una forza tale che ne fece ribaltare la candela, ancora fumante dalla cima delle sue carte; questa ricadendo sul libro del monaco pazzo bruciò rapidamente la membrana antica delle sue pagine innescando un tremendo incendio che divampò nella stanza. Improvvisamente il tavolo fu mangiato dalle fiamme che iniziarono a propagarsi in tutta la stanza e per ultimi anche il monaco, con in groppa la creatura convulsa ed agitata furono vittime delle fiamme che dapprima raggrinzirono i loro corpi, poi li terminarono rendendoli carbone disidratato e maleodorante; qualche istante prima che anche la donna venisse completamente incenerita, il suo corpo si squarciò come un guscio di pelle morta e sintetica e da esso fuoriuscì l’immonda creatura caprina e demoniaca, la stessa presente sulle raffigurazioni dei libri di Sant’Ambrogio e lanciò un grido infernale e straziante, di donna addolorata a cui viene negata cinicamente la propria prole, svanendo misteriosamente nelle fiamme stesse dell’incendio.
Sant’Ambrogio, all’alba del mattino seguente, fu sbalordito nel risvegliarsi con un tremendo dolore al collo, ancora chino sulle raffigurazioni che la notte prima lo avevano trasportato negli abissi dell’inferno; si fece il segno della croce e si ritirò nel suo abitacolo. Da lì non uscì mai più, o forse non vi entrò mai. Il suo corpo sparì definitivamente. Si dice che qualche compagno dell’ordine lo abbia intravisto di notte in biblioteca confabulare in uno strano linguaggio, che mai prima d’ora fu udito dalle umane genti.
di
Claudio Oreste Menafra