Un difficile intreccio
Certamente la figura del poeta, regista, scrittore, sceneggiatore e giornalista, considerato una delle menti più influenti del XX secolo, Pier Paolo Pasolini è di difficile comprensione data la complessità e la vastità dei temi e delle forme artistico-culturali che la sua opera ha saputo raggiungere.
Questo è ancor più vero se consideriamo il brulichio di materiali, studi e posizioni critiche, molto spesso propense alla banalità e alla ridondanza di alcune tematiche, che ha animato il mondo della letteratura e degli studi accademici in questi anni. Nonostante ciò, imbattendosi nella figura di Bruno Moroncini e del suo ultimo libro “La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini” (Cronopio, Napoli 2019).
Infatti, è possibile scorgere la via per la scoperta di elementi d’analisi ancora celati, capaci di far emergere prospettive ermeneutiche rimaste ancora inespresse.
Bruno Moroncini
Presso l’Università di Messina e Salerno, ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica. Si è occupato della filosofia moderna e contemporanea con una particolare attenzione per il pensiero di Walter Benjamin e ha analizzato il rapporto fra psicoanalisi e filosofia attraverso lo studio di Jacques Lacan. Tra le sue ultime pubblicazioni: Gli amici non si danno del tu (2011), Lacan politico (2011) Perdono giustizia crudeltà. Figure dell’indecostruibile in Jacques Derrida.
La morte del poeta
L’universo filosofico-culturale e psicoanalitico che Moroncini investe per entrare in relazione con la figura di Pasolini è certamente strutturato in rapporto ai nomi che precipuamente emergono nella sua opera: Benjamin, Deleuze, Foucault, Freud, Lacan.
Se questo è vero, è altrettanto rilevante, e forse di maggior importanza, capire il perno centrale che illumina il lavoro di Moroncini e che demarca un’impostazione d’analisi prevalentemente a partire dal dato storico della morte del poeta e dell’importanza capitale che questo dato evento rappresenterebbe in “opposizione” a ciò che invece, tradizionalmente, viene considerato un momento, una morte, ancor più rappresentativo per la storia del nostro paese, come fu il tragico epilogo della storia del politico Aldo Moro.
Risiederebbe allora nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975, sul lido di Ostia, l’inizio di un <<declino dell’Italia che attiene alla forma stessa del suo “essere insieme”, del suo essere una comunità a-venire.>> (Moroncini 2019, p.25). L’omicidio di Pasolini istituisce quindi, nella visione di Moroncini, un reale discriminante, il termine ultimo per l’Italia di saper essere, con formula deleuziana, una comunità a venire; tale prospettiva viene quindi contrapposta, con l’effetto di ridimensionarla, alla vicenda Moro che a posteriori si rivela essere un episodio legato alla crisi di un sistema di potere.
La catastrofe del dominio del neo-capitalismo
È a partire da queste considerazioni che Moroncini può restituire e individuare in Pasolini la specificità della caratura politica della posizione poetica che gli appartiene. Attraverso quest’ottica è possibile ricostruire il giudizio di Pasolini sulle conseguenze del boom economico per la società italiana: una catastrofe che innesca una vera e propria apocalisse antropologica e che realizza un genocidio culturale.
Assunto di rilevante importanza per capire il senso di queste considerazioni è sicuramente comprendere la derivazione del disgusto che Pasolini prova nei confronti della forma della società del neo-capitalismo. Tale rigetto per questa forma di aggregazione (più “fascista del fascismo”) è giustificato dalla scoperta della formula che governa e annienta le forme di vita: Consuma&Godi.
Un codice, quest’ultimo, che in realtà, per quanto le apparenze dicano diversamente, è destinato a scoraggiare qualsiasi eccesso di godimento: imprigionando il principio di piacere in un’istanza di normalizzazione delle condotte la cui “natura” è quella di godere attraverso un interrotto consumare, attratta da un oggetto del desiderio che è esso stesso misura, limite al nostro godimento.
Ciò che viene messo in luce è quindi l’esigenza di una più radicale azione poetico-politica, un’azione “distruttiva”, di resistenza verso una cultura volta a disintegrare la libertà di desiderio dietro apparente liberalizzazione.
Il masochismo politico
Continuando sulla linea interpretativa che vede Moroncini in opposizione con la tradizione argomentativa riguardo la vita del Maestro, possiamo vedere come nel suo libro sia molto attento a cogliere la canonica contraddizione attribuita a Pasolini: la sua critica spietata della società dei consumi e, allo stesso tempo, la sua capacità di essere così “mondano”, di essersi ambientato molto bene.
Moroncini crede che questo non rappresenti una contraddizione dell’individuo, ma dell’epoca. Nelle dinamiche di questa frattura viene rilevato il tratto essenziale, quindi, della figura di Pasolini: il suo masochismo politico. Se vogliamo assumere che la forza lavoro sia per sua stessa natura antagonista del capitale, dobbiamo anche notare come essa sia comunque reintegrata nella logica del consumo e come invece di operare per la sua estinzione, si ritrova a riprodurne incessantemente l’esistenza.
<<La politica non deve solo essere destituente prima di, e per poter, essere poi costituente, dissolutoria e
decostruttiva prima di fondante e propositiva; deve essere soprattutto eccessiva, condurre il legame sociale
al suo limite, porlo di fronte all’irriducibile e all’inassimilabile, ossia il desiderio senza oggetto e di
conseguenza non pacificabile e alle forme di godimento auto ed etero-distruttive. Fra tutte, la posizione
soggettiva masochistica è l’unica ad andare in questa direzione>> (ivi, p.90).
L’unica forma di godimento
Nella società del godimento sotto controllo, il masochismo diventa l’unica forma di godimento effettivo.
L’unica condotta ammissibile è quindi quella di provocare la condizione dell’essere rifiutati. Queste considerazioni possono avere un valore chiarificatore di particolare rilievo se si indaga nelle ragioni dell’amore disperato di Pasolini nei confronti del sotto-proletariato urbano contrapposto al “dis-ordine” del capitale.
L’opera Pasoliniana è per Moroncini uno sforzo continuo proteso a ciò che è “fuori”, che altro non che il “reale” al di là del simbolo considerando anche che solo facendo leva sulla perversione è possibile una politica egualitaria. Questo ci porterebbe ad un quesito di grande importanza anche se apparentemente rarefatto: come rappresentare l’irrappresentabile? Nello specifico, come rappresentare chi abita fuori dalla storia e i suoi simboli e il cui ricordo il capitalismo contemporaneo ambisce ad estinguere?
<<Non vita, ma sopravvivenza – forse più lieta della vita – come d’un popolo di animali, nel cui arcano orgasmo non ci sia altra passione che per l’operare quotidiano: umile fervore cui dà un senso di festa l’umile corruzione>> (Le ceneri di Gramsci)
Di qui l’individuazione ad opera di Moroncini del compito che il poeta assurge: prendersi cura del dolore d’esistere che rende singolare ma non isolata qualsiasi creatura. La scoperta pasoliniana riguardo al volto mutato del potere, non più unicamente violento e repressivo ma tollerante e permissivo, rende chiaro al poeta che nessuna forma di rappresentazione sia ancora plausibile di fronte ad un sistema in grado di domare la carica sovversiva di qualsiasi invenzione: ciò che resta sono brandelli di parole, immagini.
L’apocalisse allora è la fine della legittimità di qualsiasi rappresentazione logica della narrazione.
Articolo di
Gabriele Scassaioli