Una storia universale fatta pellicola
Uscire dai confini. Allontanarsi dal mondo conosciuto. Esplorare la realtà sociale di Medellìn, in Colombia, all’altro capo del mondo. Conoscerne i ritmi, i pericoli e le bellezze. Grazie ad un film, tutto ciò è stato possibile. “Matar a Jesùs” è l’opera seconda di Laura Mora, una promessa per il cinema colombiano. Vincitore di numerosi premi, tra cui due ricevuti in occasione del prestigioso festival di San Sebastiàn 2018, il film si presenta come il racconto della volontà di vendetta di Paula, una giovane studentessa universitaria la cui vita viene sconvolta dalla morte del padre, ucciso davanti ai suoi occhi da un colpo di pistola. È una storia di dolore, di rabbia, di amore che supera i confini colombiani e si fa universale, umana.
La pellicola è stata riprodotta a Roma, presso il cinema Farnese, in occasione della dodicesima edizione del Festival del cinema spagnolo che si tiene ogni anno in varie città italiane e si arricchisce di incontri, interviste e conversazioni con i vecchi e i nuovi nomi del cinema in lingua spagnola. Permette di aprire in Italia i confini della Spagna e dell’America Latina e attraverso prodotti di alto valore culturale avvicina realtà lontane, le fa comunicare e fa sì che si scoprano le loro sottese somiglianze.
Violenza, paura, amore
L’opera racconta la perdita dolorosa del padre che la stessa autrice ha sperimentato e che ha deciso di raccontare attraverso le immagini, andando al di là della sua storia personale, immaginandone i possibili risvolti. Ambientata nel 2002 nella città di Medellìn, in Colombia, la storia ha come protagonista assoluta Paula, detta Lita, testimone diretta dell’assassinio di suo padre.
Lo spettatore la segue nella sua vita prima e dopo il lutto e vive con lei il turbinio di emozioni che la coinvolgono: la sofferenza per la perdita del genitore, tanto stimato, tanto amato; la rabbia davanti alle inefficienze della polizia, che non riesce e forse non vuole trovare il responsabile; lo stupore nel vedersi di fronte il volto dell’assassino, durante una notte di festa con gli amici; la caparbietà con cui non si arrende e vuole conoscerlo, rivederlo per poi vendicarsi. Tutto è raccontato dal suo punto di vista attraverso soggettive, primi piani molto ravvicinati, gesti, silenzi e sguardi. Il tono asciutto, quasi documentaristico del film permette di conoscere da vicino la realtà sociale dei bassifondi di Medellìn, dove dominano la violenza e la paura ma in cui ancora sono possibili l’amore, il rispetto per la famiglia e, forse, il perdono.
Ci siamo uccisi gli uni con gli altri
La sceneggiatrice e regista ha deciso di raccontare questa storia un po’ personale, un po’ nazionale, un po’ universale: partendo dalla sua esperienza, si è allargata ad includere la realtà sociale della sua città e del suo paese e lo ha fatto attraverso la rappresentazione delle emozioni umane, che fanno sì dunque che diventi una parabola universale.
La stessa Laura Mora ha dichiarato in un’intervista: “La storia della Colombia si può ridurre a un terribile atto di vendetta, un crimine passionale che dura da cinquant’anni. Ci siamo uccisi gli uni con gli altri. La mia domanda era: che succede quando la legalità e le istituzioni non ti accompagnano nel processo di far giustizia e tu, vittima, incontri il carnefice”. Questo film è quello che lei si è immaginata possa accadere.
Attori senza sovrastrutture
Durante l’intera pellicola, la bilancia oscilla continuamente tra il senso originale di vendetta, che spinge la protagonista a conoscere l’assassino di suo padre e a procurarsi un’arma per ucciderlo, e i nuovi sentimenti di compassione e comprensione che iniziano a instaurarsi tra i due giovani, provenienti da mondi lontani che possono forse avvicinarsi.
Un’altra particolarità del film è quella di aver scelto per il ruolo dei protagonisti due attori non professionisti, che riescono ad esprimere grazie alla loro intensità e al loro passato la sensibilità di cui la storia ha bisogno. La regista li ha scelti per strada, li ha convinti a partecipare e li ha coinvolti nel processo di creazione del film, lasciandogli spesso carta bianca sul modo di esprimersi. È questo che rende la visione tanto sorprendente e cattura lo spettatore, la naturalezza e la spontaneità del rapporto tra i due giovani, quasi reale, quasi vissuto.
Un riflesso di noi stessi
“Matar a Jesùs” è un dramma sociale che al di là della storia in sé costituisce un ritratto della realtà di prevaricazioni, violenza e paura nella periferia di Medellìn. La città non è solo uno scenario, uno sfondo ma diventa uno dei personaggi, si fa viva, racconta le sue storie, prende corpo, rivela le sue contraddizioni, la sua bellezza e la sua violenza. Ci viene rappresentato un mondo in cui la criminalità organizzata convive con altre realtà, di lavoro, di studio, di gente onesta la cui vita viene sfiorata o sconvolta dal sistema criminale.
A pensarci bene, è un mondo che conosciamo, che è più vicino a noi di quanto si pensi. Il conflitto sociale rappresentato nel film è all’ordine del giorno in molte periferie delle nostre città; il dramma costruito intorno al desiderio di una giustizia che non si compie nella legalità lo viviamo quotidianamente; il dolore e la violenza sono gli stessi a cui assistiamo nei numerosi fatti di cronaca locali. Dunque, “Matar a Jesùs” ci fa uscire dai confini, ci fa scoprire una realtà lontana ma solo per ribadire che l’altro, il diverso è molto spesso più simile a noi di quanto pensiamo.
Articolo di
Giulia Bucca