Solo in rarissime occasioni ci troviamo a confronto con i termini del vero “trasporto”, di ciò che è in grado di regalarci un elevato grado di penetrazione nei fatti di una vita realmente vissuta.
Questa vita non è la nostra hic et nunc ma di “altri”, artisti senza tempo che con la propria opera toccano le corde dell’universale misteriosamente avviluppati nelle proprie restrizioni identitarie. Da lì, dal fondo del passato, parlano alla nostra presenza, alla nostra contemporaneità illuminando ciò che rimane velato al nostro sguardo.
Queste verità si raggiungono attraverso il lavorio di febbrili attività artificiali oppure, come nel caso del Nostro, la restituzione del “messaggio” di imprescindibilità e inseparabilità tra vita vissuta e vita artistica nel contesto più amplio del sociale.
Spicca la figura di Antonio Merola, laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma e cofondatore del giornale di letterature e filosofie “YAWP” nonché curatore di diverse raccolte poetiche. È sua una giovane voce ermeneutica, protesa attraverso le profondità del suo saggio “F. Scott Fitzgerald e l’Italia”, edito da Giuliano Landolfi, ad un nuovo approccio alla critica letteraria, definita critica empatica.
In un’intervista, l’autore di questo libro ha mostrato come la sua penna e la sua attenzione alla vicenda e alla singolarità del caso artistico-letterario di Fitzgerald siano state guidate inequivocabilmente dalla volontà di “sovrapporsi” metodologicamente all’autore americano.
Il tutto per restituire al pubblico un’indagine di reale critica letteraria empaticamente filtrata dall’incontro tra le necessità umane di divulgazione e la vita, che come tutte le vite dei “grandi”, sembra parlarci.
Come è riuscito a pubblicare il suo saggio e che vita divulgativa sta vivendo?
“Questo saggio ha un’esperienza di vita molto particolare. In origine il mio obiettivo era quello di occuparmi di una monografia su Fitzgerald. L’idea di base era questa: dimostrare come leggendo Fitzgerald in modo cronologico ci fosse costantemente un riscontro tra ciò che accadeva al’autore nella sua vita e ciò che scriveva nei suoi racconti e nei suoi romanzi.
Ho faticato tantissimo a trovare aiuto nella divulgazione del mio testo, sia perché a Lettere Moderne non c’è una vera direzione di Studi Americani, sia perché inizialmente per me la lingua inglese era un problema.
Dopo diverso tempo, attraverso l’aiuto del prof. Francesco Muzzioli, che si occupa di critica letteraria, sono riuscito a canalizzare le mie energie su un tema che riguardasse l’autore ma che, allo stesso tempo, mi appartenesse maggiormente: il rapporto di questo con la critica italiana.
Terminato il mio percorso accademico, ho deciso di riscrivere il saggio ampliandolo da un punto di vista narrativo, riuscendo ad attirare l’attenzione di un editore come Ladolfi.
Il libro ora sta andando molto bene e sta ottenendo diverse recensioni su giornali come Avvenire o Il Foglio e su diversi siti letterari, anche se devo ammettere che sta avendo delle difficoltà ad emergere nel mondo universitario.”
Nel suo lavoro di rinnovata attenzione verso Fitzgerald c’è l’intento di far emergere delle tematiche importanti e non ancora discusse?
“Il motivo per cui ho ripreso Fitzgerald è duplice: da un lato, a livello personale, quest’autore è sempre stata una mia ossessione e forse credo di aver iniziato a leggere con lui e, al tempo stesso, ho avuto molta fortuna perché in questi anni si sono liberati i diritti d’autore e quindi l’editoria italiana, in massa, ha cominciato sia a ripubblicare le opere che conosciamo tutti, “Il grande Gatsby” ad esempio,sia a pubblicare degli inediti.
Recentemente Minimum Fax ha pubblicato una raccolta di lettere che Francis Scott scambiava con il suo editor; guardandola dal punto di vista del mercato, un’opera simile, fino a dieci anni fa, avrebbe interessato solo studiosi o addetti ai lavori.
Mi sono chiesto: come è possibile che una casa editrice riesca a portare a tanti lettori un’opera simile? Intanto mi sono accorto che negli ultimi cinque anni sono state pubblicate almeno venti opere sue e che il “fenomeno” stava assumendo delle caratteristiche pop. La questione non era legata solamente ai diritti, ma doveva esserci qualcosa in più che ho provato a spiegare nel saggio.
Nel tentativo di ricostruire la storia editoriale e critica di Fitzgerald nel nostro paese mi sono accorto che c’è tutto un retroterra di critica militante che lo ha elevato a classico, almeno in Italia, soltanto negli anni duemila.
Alla fine del saggio azzardo, quello che poi vorrebbe essere il mio lavoro futuro, cioè quella che definisco “critica empatica”: l’idea è che ogni critico, ogni lettore forte, abbia una preferenza, una sovrapposizione intima con un autore, succede a tutti.
Ora, l’empatia, checché se ne dica, è una qualità umana provata; l’idea che ho è quella di un gruppo di critici che lavori singolarmente ognuno al proprio autore di riferimento, un autore con il quale il critico ha una totale sovrapposizione di esperienze biografiche, di direzione, di pensiero.
L’idea era quella di portare pian piano una vasta gamma di opere critiche di più ampio respiro ma di una grande profondità perché ciascun critico “empatico” si può occupare soltanto di un autore nella propria vita. Ammetto che è anche un problema perché quando si parla di critica bisogna parlare anche di metodo, un metodo applicabile per tutti.
Se per un autore come Fitzgerald il binomio vita-scrittura è praticamente inscindibile quale è stata la tua necessità umana di favorire tale speculazione in ambito accademico di tale personaggio?
“In realtà, per confermare il binomio vita-scrittura, Fitzgerald va letto in ordine cronologico. Se si leggono in questo ordine sia i romanzi che i racconti ci si accorge come il tema sia solo uno: il suo rapporto con Zelda. Questo lo aveva già notato O. Fatica, un critico che sosteneva come l’autore americano nella vita abbia avuto due o tre esperienze importati intorno alle quali ruotava tutta la sua scrittura.
Ci si rende conto come il tema sia sempre il rapporto con Zelda visto da tutti i punti di vista possibili: ciò che stava accadendo alla coppia o ciò che, per ipotesi, sarebbe potuto accadere se Fitzgerald fosse stato ricco dall’inizio. E’ come se l’autore volesse dirci che la scrittura era per lui un mezzo per comprendere meglio la donna che amava, tanto più necessario se questa è affetta da schizofrenia e quindi il dialogo personale può essere limitato.
Il mio rapporto con Fitzgerald è molto particolare e nasce come ossessione. Per vicende personali mi sono ritrovato a contatto con persone affette da patologie mentali. Ci sarebbe un discorso enorme su come la nostra società gestisce i “malati” mentali intorno al concetto stesso di malattia.
Quello che però F. mi ha insegnato è non gettare mai la spugna e rimboccarsi sempre le maniche ad un livello umano, empatico. Quando tu vedi una persona realmente malata che fissa per giorni interi il soffitto, quando tu vedi una persona a cui parli e questa persona nemmeno ti ascolta perché presa dai propri demoni, non solo capisci che tutto ciò che si vive da persone “normali” in realtà è un’esagerazione, ma riesci anche ad aiutare l’altra persona.
Fitzgerald mi ha dato la possibilità di aiutare una persona a me molto cara, me l’ha data perché io credo che le vite degli autori servano come insegnamento.
Molto spesso mi sono trovato a replicare cose che lo scrittore aveva fatto per Zelda. Altre volte, invece, sono stato molto attento a ciò che l’autore voleva dire, quando magari lui aveva fatto qualcosa ma questo qualcosa si era rivelato fallimentare e quindi mi suggeriva di cambiare direzione.
Ciò che ci insegna riguardo le malattie mentali è, in realtà, qualcosa di amaro: ognuno di noi può stare vicino soltanto ad una persona. Questo significa, per la persona sana, subordinare tutta la sua esistenza al fine della guarigione della persona malata, significa sacrificare se stessi in virtù di qualcosa di più grande.
Io credo che in un mondo in cui il narcisismo dilaga, dove ognuno pensa a se stesso. Fitzgerald ci insegna che è possibile dedicare la propria vita, se non al servizio degli altri, quanto meno al servizio di una sola persona.”
Il “colpo fatale”, la giusta interpretazione sul caso letterario di Fitzgerald arriva effettivamente da D’Agostino quando, nei suoi “Studi americani”, definisce lo stile dello scrittore “realismo magico”?
“Questa visione della magia, in realtà, ha origini molto lontane, cioè arriva da “Americana” di Vittorini. La magia che Nemi D’Agostino vedeva in Fitzgerald era essenzialmente nello stile. Leggendolo tutti si accorgono di queste descrizioni galleggianti, di questa capacità che ha di mettere un’aureola intorno alla ricchezza.
Quando si pensa al mondo dei ricchi spesso lo si fa con invidia; lo stesso autore diceva “dentro di me, verso i ricchi, non ho la rabbia del rivoluzionario ma l’odio covato in segreto dal contadino”. Questa affermazione per lui valeva tantissimo, nell’America di allora, la società del “fare quattrini” a tutti i costi come la definiva Pivano, fare soldi era appunto un dogma per tutti, anche per gli scrittori.
L’appellativo di D’Agostino si rifà quindi allo stile e a questa capacità che ha lo scrittore di arricchire un mondo che in realtà sembra una “fogna”. Fitzgerald aveva l’idea, forse un po’ infantile, che la ricchezza facesse la felicità e che i ricchi avessero gli strumenti per essere felici ma, non avendo la profondità degli artisti, non potevano esserlo. In questo modo ipotizzava un mondo di ricchi e allo stesso tempo artisti.
Secondo me, la poesia di Fitzgerald ha un’altra direzione. Sta nella sovrapposizione totale tra la propria vita e ciò che scrive. La sua scrittura non è individuale, nasce da un rapporto con l’altro. Se analizziamo la poesia da Rimbaud in poi, vediamo come il concetto dell’altro sia un tema ricorrente e come l’autore americano lo applica al romanzo.
Se è vero, come diceva Vittorini, che anche un romanzo può essere poesia, la poesia di Fitzgerald è in questo: scrivere per dialogare con qualcuno, che ha un nome e un cognome, Zelda Sayre.”
Intervista di
Gabriele Scassaioli