Il superamento dell’approccio strutturalista e la linguistica diacronica
Lo strutturalismo è stato particolarmente cauto ed abile, durante tutto l’arco del XX secolo, nel preservare la fisionomia di scienza esatta che di volta in volta ci si è sforzati di conferire alle spiegazioni linguistiche, poiché ha concepito la sua stessa disciplina di indagine solo nella prospettiva di una descrizione statica della lingua, i cui segni vengono debitamente considerati quali parti di un ordinamento di tipo, appunto, strutturale ed inamovibile[1].
Una concezione della disciplina di tipo statico che quindi non deve assolutamente arrischiarsi di rintracciare le cause che determinano il mutamento linguistico, poiché tale dimensione non appartiene alle prerogative di un’indagine linguistica così concepita[2].
Bloomfield ed i suoi discepoli, del resto, lo avevano più volte sottolineato senza troppi convenevoli che ”le cause dei mutamenti linguistici sono ignote”, e che bisogna cioè semplicemente limitarsi ad osservare i fenomeni[3].
Il rigore formale dello strutturalismo aveva, forse, volontariamente accantonato l’aspetto dinamico e mutevole del linguaggio[4]che avrebbe fatto vacillare la presunta scientificità delle loro spiegazioni; e questo perché la constatazione della mutevolezza del fenomeno impone la necessità di ricercarne le complesse interazioni causali che tra i vari componenti del sistema ne stanno alla base;
‘’La parte puramente descrittiva di questa scienza non ne esaurisce affatto il programma; non basta esporre i fatti, occorre anche spiegarli, condurli alla loro causa’’
Il mutamento linguistico investe tutti i livelli della lingua: sintassi, semantica, fonetica e morfologia; inoltre i livelli non devono essere concepiti quali ripiani indipendenti, ermeticamente separati gli uni dagli altri, poiché ad esempio un cambiamento di tipo fonetico può comportare consequenzialmente un cambiamento sul piano morfologico (morfologizzazione). Dunque i ripiani linguistici possono innescare cambiamenti in altri livelli, spesso in relazione di causalità[5].
L’aspetto fonetico del cambiamento
Circoscrivendo la nostra riflessione, per quanto possibile, all’ambito fonetico, un mutamento in tal senso viene generalmente definito come un cambio di abitudine nell’articolazione dei suoni linguistici; cambio d’abitudine che può essere indipendente o dipendente rispetto alla catena fonatoria in cui l’articolazione viene a trovarsi.
Poiché ogni scienza è scienza di cause, e cioè risponde aristotelicamente alla domanda ‘perché’, la domanda in questione è proprio il perché, la ragione di un dato mutamento d’abitudine articolatoria; e la ragione risiede nella compresenza di altri suoni che esercitano, potremmo dire, una certa pressione gli uni sugli altri, spostando il baricentro del punto articolatorio sino a determinarne un altro.
In una eventuale catena fonatoria, ognuno dei foni che la caratterizzano esercitano pressione sugli altri contigui in un gioco di equilibri fonatori che alle volte può essere compromesso e dar luce così al cambio fonetico.
Interessanti esperimenti pubblicati dall’accademico newyorkese Potter, sotto il titolo di Visible Speech, hanno ampiamente dimostrato il fenomeno[6]. Si prese in considerazione un determinato fono, in quel caso la vocale centrale [a], e si esaminò mediante appositi registratori, la sua articolazione in diverse parole in cui compariva; il registratore mostrava chiaramente che il luogo di articolazione di [a] variava continuamente a seconda delle parole in cui compariva[7], spostandosi continuamente nel campo di dispersione del fono. Le catene foniche in cui di volta in volta il fono [a] veniva calato, esercitavano pressioni contigue e diverse che ne determinavano l’oscillazione articolatoria; dunque proprio la contiguità tra foni è una delle cause rintracciate del mutamento fonetico[8].
Alcuni strumenti: optimum e campo di dispersione
Uno degli sforzi più consistenti a cui è di solito sottoposto un discente in fase di apprendimento/acquisizione è proprio quello di emulare perfettamente i foni di cui si compone il sistema linguistico, al fine di rendersi intelligibile nei confronti dei suoi interlocutori.
Ogni fono possiede quindi un modello di pronuncia ideale che chiamiamo optimum, a cui costantemente tutti i parlanti tendono, emulandolo, per proferire correttamente i messaggi; ma questo modello è puramente astratto e metempirico, le pronunce dei diversi parlanti differiscono notevolmente tra loro; inoltre è ben evidente che la pronuncia di un dato fonema ad opera di un dato soggetto, proprio nella stessa parola, varia da un’emissione all’altra.
La variazione è normalmente impercettibile, ma non esistono di fatto due pronunce identiche anche in uno stesso individuo; uno stesso parlante pronuncia di volta in volta in modo differente i foni, così che l’oscillazione articolatoria sia effettivamente presente non solo nella comunità di discenti, ma anche nelle varie emissioni dell’individuo stesso.
Allora sarà doveroso affermare che, oltre all’optimum, esiste anche un campo di dispersione, e cioè un intervallo esterno all’optimum che rappresenta l’inventario di tutte le pronunce dei parlanti che concretamente articolano i fonemi; l’insieme cioè dei suoni marcati di una lingua. L’esistenza di suddetto campo di dispersione rimane essenzialmente fuori dubbio quando si considerano soprattutto fonemi le cui variazioni combinatorie siano importanti a seconda del contesto.
Tutto ciò significa che di per sé ogni pronuncia si muove in un campo situato al di fuori dell’ideale di pronuncia e quindi già indirizzato verso un allontanamento dei confronti di quest’ultimo.
Quali sono i limiti legali perimetrali di tale campo di dispersione in cui è possibile articolare i suoni? La risposta è dovuta: i limiti di un campo di dispersione sono quelli imposti dagli altri campi di dispersione degli altri fonemi del medesimo sistema linguistico.
Si potrebbe essere in un certo senso tentati di interpretare la sentenza saussurriana secondo cui un valore linguistico è tutto quello che non sono gli altri ‘’valori’’ linguistici dello stesso sistema, nel senso che il campo di dispersione di ogni fonema non ha altri limiti al di fuori del limite degli altri fonemi[9].
Fin quando l’articolazione marcata di un fono si aggira all’interno del suo campo di dispersione, pur discostandosi lievemente dallo standard ideale, non produce oscillazioni fonetiche compromettenti, quindi non determina mutamento; ma alle volte le pronunce possono andare al di là di questo campo, sforarlo, approdando bruscamente nel campo di dispersione di un altro fonema.
Se il cambio d’articolazione non produce problemi di comprensione e non intacca la comunicabilità linguistica, può anche accadere che il cambio venga accettato dai parlanti e conseguentemente convenzionalizzato; diversamente, se l’approdo in un altro capo di dispersione produce incomprensioni e mina il principio di comunicabilità, allora l’assimilazione non può essere pacifica.
In altri termini, se si assiste a deviazioni inconsuete della pronuncia, al di là del campo di dispersione proprio, tali da non essere orientate in una direzione in cui potrebbero generare equivoci, allora esse non minacciano affatto la comprensione reciproca; inoltre se il cambio articolatorio non impone agli organi fonatori tensioni particolari, può in fin dei conti anche fissarsi come estensione legittima del campo di dispersione.
Denominiamo A un fonema il cui campo di dispersione standard viene a spostarsi e C il fonema il cui campo è separato di modo decrescente rispetto ad A, schematizzando, la situazione dinamica si presenterebbe in tal modo:
A ——–> C
Per il principio di mutabilità cieca, A dovrebbe confondersi/assimilarsi con C senza tener conto dei conseguenti effetti nella comunicazione tra discenti[10].
Poniamo ora un ipotetico fono A che, in fase di pronuncia (marcatura), sfora di molto il suo campo di dispersione, sfociando nel campo di dispersione di un altro fono che chiamiamo B.
A questo punto B ha due opzioni: o lasciarsi assimilare da A minando la comunicabilità, oppure spinto dalla pressione di A, può muoversi in tutte le altre direzioni che non siano quelle stesse di A; supponiamo che questa volta B, in luogo di un’assimilazione passiva, invece di starsene ad attendere la confusione imminente, si ripieghi dinanzi all’invasore e mantenga così un margine di sicurezza costante tra A e se stesso. Il centro di gravità del campo di B si allontanerà da A poiché dal momento che A ha invaso il margine di sicurezza che lo separa da B, ogni realizzazione di B troppo vicina a quel margine, corre il rischio di essere male interpretata, dunque semplicemente la si evita. Può inoltre accadere che, con il suo movimento, B eserciti lo stesso genere di pressione sui propri vicini; spinto da A, ha dovuto oltrepassare il proprio campo di dispersione e sfociare nello spazio fonetico di un altro elemento C; quest’ultimo fa lo stesso.
Ne consegue la legge del mutamento fonetico a catena, che si verifica ogniqualvolta un mutamento compromette la comunicazione di un messaggio; il cambiamento è sistematico e coinvolge tutto l’ordinamento fonetico di una data lingua[11]:
A ——-> B ——-> C
Tali catene di mutamento fonetico possono essere di trazione o di propulsione a seconda che il cambio articolatorio trascini il mutamento sulla propria traiettoria oppure spinga verso una data direzione. Nel primo caso, un mutamento B verso il campo di C, sgombera una via di passaggio ad A che ora vede uno spazio lasciato libero da B e quindi A stesso, sospinto da pressioni presenti in tutti i lati tranne che in B (che ha abbandonato la sua postazione) si muove in quella direzione (trazione). Nel secondo caso, invece, il mutamento B si spinge verso il campo di C, il quale ricevendo suddetta pressione viene a sua volta spinto in una direzione altra che non sia B, abbandonando il proprio luogo articolatorio (propulsione).
Contrariamente alle istantanee scattate dall’approccio strutturalista, alcuni spiriti curiosi ed avidi di sapere della nuova linguistica diacronica non si sono accontentati di un’immagine della lingua che, pur salvando il rigore della descrizione scientifica, innesca la falsa convinzione che si tratti di un sistema chiuso ed insensibile agli input esterni. La vita che la sottende le impone il continuo e costante mutamento, sintomo di un adattamento continuo alle contingenze accidentali del reale.
Articolo di
Claudio O. Menafra
[1]A. MARTINET, Economia dei mutamenti fonetici. Trattato di fonologia diacronica, trad. di Giovanni Caravaggi, Einaudi, p.11
[3]L. BLOOMFIELD, Language, New York, 1933, p.385.
[4]L’osservazione del fenomeno lingua è concepita al di fuori degli assi di variazione linguistica, in particolare fuori da una prospettiva diacronica.
[5]Il modello del discretumpare non funzionare in nessun ambito linguistico; non esiste la possibilità, in questa disciplina, di una suddivisione schematica dei fenomeni che non tenga conto dell’intricato rapporto con tutti gli altri.
[6]R.K. POTTER, Visible Speech, New York, 1947.
[7]In particolare, il fono /a/ può essere reso, in base al contesto articolatorio d’occorrenza, con frequenze diverse come ad esempio nella prima sillaba della parola ‘’mamma’’ rispetto alla prima sillaba della parola ‘’caro’’.
[8]Durante la fonazione si assiste alla produzione velocissima di configurazioni articolatorie, spesso incomplete ed influenzate dal contesto dunque; il fenomeno è meglio conosciuto sotto l’etichetta di coarticolazione.
[9]Ovviamente si tratta di un’interpretazione alquanto forzata, e di certo non valida universalmente poiché è abbastanza noto che in una comunità di parlati omogenea, i fonemi dello loro lingua non sono mai strettamente contigui tra loro, ma esiste sempre un margine d’intervallo, una sorta di terra di mezzo, un margine di sicurezza che limita gli effetti dell’assimilazione.
[10]Se è vera la sentenza secondo cui l’effetto delle leggi fonetiche è cieco, ed esse si produrrebbero indipendentemente dai bisogni della comunicazione, la conclusione che ne deriva è che ogni volta che un fonema intacca un campo di dispersione che non gli è proprio, si dovrebbe sistematicamente verificare una fusione/confusione dei due fonemi coinvolti nell’avvicinamento; ma si tratta senz’altro di un postulato privo di riscontro empirico.
[11]Tale genere di supposizione si oppone chiaramente contro il principio di mutabilità cieca.