E’ possibile evitare che le nostre forme di vita, intese quali configurazioni sociali di natura storica, e non come opzioni individuali, siano esposte a condizioni di decentramento disturbante e di alienazione, di dominazione e coercizione, tali da ostacolarne o arrestarne i processi di sviluppo nel contesto sociale? Concentrando ancora meglio il focus sulla questione: le odierne società capitalistiche offrono effettivamente le precondizioni generali per le quali le nostre forme di vita possano dispiegarsi? O esse invece agiscono in cooperazione intendendo (attraverso la loro lapalissiana iniquità, il ricorso costitutivo allo sfruttamento cieco e indiscusso di ogni essere vivente e oggetto materiale, le crisi cicliche e ricorrenti, i modi e gli stili di vita che influenzano e a cui danno forma) disinnescare alla base le precondizioni della loro riuscita? E’ possibile parlare della centralità delle forme di vita senza far venir meno l’importanza dell’aspetto pluralistico o scadere in miopi posizioni dogmatiche?
Attraverso tali prospettive, quando ci troviamo a parlare di forme di vita, stiamo facendo riferimento a un fascio inerte di pratiche, all’insieme – al contempo dato e creato – degli assetti istituzionali e delle convenzioni che regolano la riproduzione (materiale e simbolica) della società[1].
Dicotomia sistema-mondo della vita
Con l’introduzione di questo concetto, ad opera di filosofi come Rahel Jeaggi, si suggerisce una visione olistica della società secondo la quale è analiticamente sbagliato supporre l’esistenza di diverse sfere sociali parzialmente indipendenti tra loro e che sia fuorviante porre una dicotomia tra il “sistema” e il “mondo della vita”. Considerare il dominio dell’economico come un insieme di pratiche appartenenti a una forma di vita, significa riconoscere che tali pratiche sono connesse e persino aggrovigliate ad altre interpretazioni pratiche e non economiche. L’istituzione della proprietà, ad esempio, che si esplica nell’attribuzione a determinati soggetti di un diritto su specifici oggetti, dipende dalla delimitazione culturale dell’insieme dei soggetti e degli oggetti che sono rispettivamente detentori di diritti individuali e passibili di possesso. Queste sono alcune delle questioni che i filosofi concentrati sul metodo critico intendono analizzare e che qui ci proponiamo di enucleare cogliendone le più differenti sfumature.
Tra gli oggetti originariamente principali della critica vi sarebbe l’assunzione maggioritaria di derivazione Habermasiana[2]secondo la quale l’etica sarebbe intesa come una prospettiva che pertiene esclusivamente ai modi di vita individuali o collettivi, nelle loro accezioni fondamentalmente identitarie e inerenti ai valori, e dove la morale, invece, è definita nel senso kantiano dell’universalizzazione dei principi mediante discussione, e quindi della individuazione delle “norme ” : questo atteggiamento farebbe scaturire, secondo i filosofi critici, una forma di astensionismo etico che, invece, seguendo prospettive più innovative, si vuole scongiurare attraverso un atteggiamento etico rivolto alla cura degli altri. La riflessione filosofica sui nostri ordinamenti politici, sociali e istituzionali dovrebbe insomma concentrarsi sui criteri e sulle procedure che giustificano le norme e i principi morali di base e tralasciare invece le forme di vita, considerate in ultima analisi, di pertinenza individuale riconducibili, quindi, a scelte e orientamenti personali tendenzialmente insindacabili.
Uno dei motivi che segnano in profondità l’impegno filosofico a questo punto è rappresentato precisamente dallo sforzo di superare gli stretti e rigidi limiti posti da questo “astensionismo” ragionando e ampliando il tema della “vita offesa”.
Il capitalismo come forma di vita
Un asse di orientamento di questo programma di critica dell’immanenza è riconducibile alla proposta che mira a tematizzare il capitalismo non quale dimensione economica separata e disancorata dalle altre dimensioni della vita sociale ma, al contrario, quale forma di vita. Si insiste quindi sulla accezione in senso lato della dimensione economica stessa, quale sfera che plasma le nostre vite in quanto tali e che, a sua volta, è costituita da pratiche sociali il cui funzionamento riposa su condizioni normative, quindi su norme etico-funzionali. La proposta teorica-politica della strategia della critica immanente è alta anzitutto perchè in gioco c’è la questione della tenuta della tesi della neutralità etica liberale. Una opzione che nel dibattito filosofico è stata incarnata paradigmaticamente da J.Rawls in diverse sue opere[3]: si pensi alla sua tesi cristallina della priorità del “giusto” rispetto al “bene”, giustificata in base alla necessità di difendere l’irrinunciabile pluralismo dei modi di vita delle società democratiche.
Rispetto all’obiettivo strategico dello sviluppo di una critica immanente del capitalismo come forma di vita è importante sottolineare un ruolo che determina la dimensione trasversale dischiusa dalle diverse accezioni del concetto di ‘sfruttamento’: morale, in quanto espressione di un’ingiustizia intesa nel senso stretto della iniquità e disuguaglianza, ed etico, ove l’ingiustizia è intesa nel senso ampio, inerente a una forma di vita intera, della dominazione e coercizione impersonali.
Critica immanente: critica della prassi e della norma
La critica immanente ha la caratteristica di innescare una dinamica non solo e non tanto di ripristino e ricostruzione dei potenziali normativi, ne di mera saldatura della frattura tra ideali e pratiche, ma invero di trasformazione sia delle norme criticate sia della realtà sociale a cui esse rimandano; più precisamente la critica immanente è la critica di una prassi a partire dalle norme con le quali essa concorda e , sincronicamente, la critica di queste stesse norme.
Viene così recuperato e rinsaldato l’elemento dinamico che la tradizione della sinistra Hegeliana, qual è poi confluita nella stessa teoria critica, ha sempre attribuito alla critica quale attività volta a fluidificare quanto può sembrare altrimenti come “dato” e “naturale” e quindi a smascherare una serie di processi di reificazione, ipostatizzazione e per l’appunto naturalizzazione di dinamiche che si rivelano invece di matrice storico-sociale, e dunque costitutivamente, plastiche. Insistendo sul fatto che tale critica immanente lavora con parametri interni ai costrutti teorici condivisi e alle pratiche sociali prese in oggetto e che si focalizza sul versante negativo dei problemi e delle crisi, i filosofi critici, ritengono di poter evitare piuttosto agevolmente il paternalismo in cui si incagliano fin da sempre sia le diverse forme tradizionali di critica sociale di tipo esterno, sia le varie dottrine etiche della vita buona.
Il processo dialettico-trasformativo
Nel momento in cui la critica delle forme di vita opera su quelle situazioni che vengono avvertite dagli interessati stessi come delle crisi o dei problemi, essa perde infatti l’aspetto di un movimento proveniente dall’esterno e di tipo autoritario ex-cattedra, per divenire l’humus di un processo di trasformazione ed emancipazione nel quale critica e autocritica risultano intrecciate l’una all’altra. Appellandosi ai principi (formali) di libertà e uguaglianza, l‘ideologia giustifica l’illibertà e la disuguaglianza che caratterizzano le società capitalistiche. Ne consegue che l’esercizio della critica non possa limitarsi a restaurare o ricostruire degli ideali dati come perduti o a intenderli come potenzialità immanenti ancora inespresse: deve piuttosto operare il loro rovesciamento e pervertimento sistematico.
La critica immanente, in questa particolare accezione, viene così a configurarsi quale procedura di tipo dialettico dalle valenze epistemiche e pratico-politiche che, nel processo di messa in discussione del rapporto tra gli ideali e la loro realizzazione, tra potenziali e realtà, trasforma nel contempo gli ideali stessi. E’ anche in tal senso che questa forma di critica viene intesa come una forza dinamica, demistificatoria ed emancipatoria, quale fermento di un processo pratico trasformativo che concerne sia la realtà sociale sia la sua interpretazione.
Si assiste al tentativo, ad opera della critica, di procedere al superamento della sostanziale divisione Habermasiana di etica e morale sul terreno accidentato della critica al capitalismo mostrando che i deficit funzionali all’economia capitalistica, in particolare le sue crisi ricorrenti e l’incapacità di salvaguardare la sopravvivenza futura, si configurano quali mancanze soltanto allorché si adotta una prospettiva che di fatto risulta ancorata a una serie di assunzioni normative. I deficit sono tali solo e sempre in base a un certo modello (ideale) di buon funzionamento sociale. Ne consegue che la questione dello sfruttamento e, più in generale, la definizione di una valida e coerente strategia di critica al capitalismo, non può e non deve essere circoscritta all’ambito relativamente ristretto dell’iniquità delle forme di scambio tra lavoro salariato e denaro o della distribuzione di beni.
Capitalistic ethical life
Questo significa che la critica di Marx deve essere rivolta nei confronti della “vita etica capitalistica” ove il concetto di “capitalistic ethical life” è volto appunto ad ampliare strutturalmente l’ambito di riferimento. Ed è precisamente su questo piano che la critica può essere trasformativa dal momento che il modello adottato permette sul versante positivo di operare una “trascendenza del contesto” mentre, sul versante negativo, quello delle crisi e dei problemi aperti da cui tale esercizio muove, ne viene preservato il carattere immanente rivolto costitutivamente alla Realpolitik.
I nuovi strumenti teoretici forniti dall’ontologia delle pratiche sociali svolgono un ruolo decisivo muovendosi anche contro l’economicismo che ancora attanaglia una parte consistente della critica sociale marxiana ; una postura generale che condusse il gruppo della cosiddetta Scuola di Francoforte a considerare la dimensione economica capitalistica quale polo in grado di abbracciare e , nel contempo corrompere, tutte le sfere della vita.
La prima teoria critica nel suo insieme non fu infatti che una critica del capitalismo e delle sue patologie sviluppata, però, mantenendo chiusa la ” scatola nera “. Il progetto della critica sarà allora quello di delineare una visione ad ampio raggio dell’economico. Se dunque l’atteggiamento critico sembra essere di vecchio conio, le sue implementazioni ultime sono del tutto innovative: la leva per aprire la “scatola nera” è rappresentata da una ontologia, ancora in fieri, delle pratiche sociali economiche. Pratiche che vengono intese come dotate di un determinato status normativo e che vengono pertanto a dischiudere una dimensione concettuale nella quale si registra una sovrapposizione e compenetrazione di elementi funzionali ed etici. Da qui l’abbandono non solo del vetusto schema struttura/sovrastruttura ma anche dell’idea che ci si debba concentrare unilateralmente sulle dinamiche che dall’economia capitalistica muovono verso la dimensione socioculturale; sì che il capitalismo risulterebbe influenzare le nostre esistenze percorrendo un solo binario.
Reificazione delle norme nella pratica
A questo punto è necessario considerare la circolarità dei due poli, rappresentati dalla mutua dipendenza tra pratiche e norme, tali per cui le prime non vengono intese soltanto come se fossero basate o incorporate in una forma di vita etica circostante ma vengono invece a far parte della forma di vita stessa e della sua dinamica relativa.
La critica delle forme di vita deve rivolgersi alle condizioni di possibilità di trasformazione e appropriazione delle condizioni di vita e pertanto deve fornire l’humus individuale e collettivo per poter ricominciare a lavorare ad una trasformazione strutturale delle pratiche, delle istituzioni sociali che ostacolano il libero e pieno sviluppo delle nostre forme di vita. Proprio per arginare queste ostruzioni programmate per la normalizzazione e l’appiattimento della persona[4]è necessario, a mio avviso, attuare forme di resistenza che non attribuiscano all’azione del singolo, come ad esempio in un certo tipo di rappresentazione paternalistica, una performatività normativamente più apprezzabile rispetto all’azione di movimenti collettivi.
La forza trasformativa della critica sarà, allora, quella di sottolineare come il pensiero e le azioni debbano volgere, in modo più concreto, verso la considerazione etica secondo la quale essere un corpo consiste nell’aprirsi al corpo di qualcun altro, o di un insieme di altri in una costitutiva e reciproca limitatezza conoscitiva che rappresenta già e garantisce la responsabilità etica.
articolo di
Gabriele Scassaioli
Butler, Critica della violenza etica, 2006
Justice as fairness : political not metaphysical” 1985
Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, Rosenberg & Sellier, 2016
B.Williams , Ethics and the Limits of Philosophy, Harvard University press, 1985
Butler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, 2013
[1]Si veda Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, Rosenberg & Sellier, 2016, introduzione Marco Solinas
[2] Riferimento che troviamo in “ Forme di vita e capitalismo “ a B.Williams , Ethics and the Limits of Philosophy, Harvard University press, 1985
[3]Ci si riferisce a “Justice as fairness : political not metaphysical” 1985
[4]Si veda Butler, Critica della violenza etica, 2006, Adorno – anacronismo dell’ethos